Si legge nella descrizione enciclopedica: “Il soprannome del genere Cephalopterus, comunemente detto umbrellabird, deriva dalla sua caratteristica predominante, l’ornamento piumato che ricade sopra l’aspetto di un ombrello”. Oh Certo, molto caratteristico e senz’altro caratterizzante! Se non fosse per l’ENORME borsa attaccata sotto il becco, che ricade verso il basso per una lunghezza almeno doppia rispetto all’intero corpo dell’animale. Ricoperta di piume erettili capaci di allargarsi come i pannelli solari di un telescopio in orbita terrestre. Quando “lui” la gonfia, per emettere il suo verso. Un sibilo basso e ripetuto, come la nota dimostrativa di un flauto proveniente da una terra lungamente dimenticato. Non per niente appare cupo quanto la mezzanotte di un periodo di luna nuova. E stranamente dignitoso, così appollaiato sopra i rami dei più alti alberi della foresta sudamericana. Una tipologia di uccello, a ben pensarci, che sembrerebbe aver risolto l’annosa questione di poter disporre di una serie di tratti esteriormente riconoscibili ed affascinanti, mentre mantiene nel contempo un certo grado di mimetismo. Poiché non è particolarmente facile notare, in mezzo alle liane, linee verticali discendenti come queste, soprattutto quando resta immobile nel tentativo di sviare l’attenzione dei suoi nemici. Di cui ne esistono parecchi, molto prevedibilmente, inclusi rapaci, scimmie e serpenti. Mentre non si hanno particolari notizie di cattura sistematica da parte degli umani, nemmeno in comunità indigene di questi ambienti per lo più tribali. Strano, ma vero: possibile che sia connesso ad una simile creatura un qualche tipo di valore scaramantico o sovrannaturale? Dopo tutto, stiamo parlando del più imponente passeriforme del suo continente d’appartenenza, con fino a 55 cm di lunghezza nella specie originaria dell’Amazzonia, e fino a 75 cm di apertura alare. Abbastanza da rendere il decollo tutt’altro che fulmineo. Ed esponendolo a svariate tecniche di eventuale cattura. Resta logico pensare, d’altra parte, che nessuno possa essere naturalmente incline a cucinare una creatura che è curiosa, intelligente e percettiva almeno quanto un corvo, ma in aggiunta ad essa riesce ad essere dotata di una serie di caratteristiche visive così straordinariamente fuori dal percorso maggiormente prevedibile delle circostanze.
L’uccello fu incontrato e descritto per la prima volta in modo chiaramente riconoscibile durante una delle spedizioni ad inizio secolo di Sir Alfred Wallace, uno dei compagni e colleghi del grande Charles Darwin, che tuttavia non ebbe modo di riportare un esemplare del cupo volatile fino in Inghilterra. Una disquisizione maggiormente approfondita sarebbe stata donata, quindi, al mondo accademico, dal naturalista francese Sir Geoffroy Saint-Hilaire nel 1809, che si trovò di fronte ad un dilemma potenzialmente in grado di scuotere le fondamenta stessa della recente teoria dell’evoluzione. Poiché in quale modo risultava essere vantaggioso il possesso di un così ingombrante caruncolo, soltanto parzialmente retrattile durante il volo, a una creatura per lo più frugivora ed insettivora, che si ritrovava di conseguenza a trascinarlo e urtarlo contro ogni possibile tipologia d’ostacolo nel corso della propria giornata? Verso una risposta che d’altronde ad oggi conosciamo ed istintivamente collochiamo al centro dell’intera questione, ovvero che non tutto quello che creature simili ereditano dai loro predecessori è finalizzato a fornire specifici vantaggi operativi, quanto piuttosto al fine di perseguire, e realizzare, un singolare quanto inimitabile concetto di bellezza. Già, quella che permette a un membro della coppia riproduttiva di emergere tra le schiere dei propri simili, venendo in questo modo giudicato degno dalla partner della propria più gloriosa stagione. In situazioni sociali come quelle dei lek, o incontri comunitari da parte degli uccelli, tipicamente organizzati da tutte e tre le specie rientranti all’interno di un così singolare genere, durante cui gli aspiranti fornitori di materiale genetico tendono a mettersi in mostra arruffando l’appendice affascinante, mentre emettono soavi sibili perfettamente udibili fino a 500 metri di distanza. Niente male, davvero, per una creatura che gli escursionisti ornitologici tendono a individuare con estrema facilità anche senza l’uso di una guida locale, semplicemente al seguito delle onde sonore che sorpassano le mura del rifugio ai margini della foresta ombrosa. Un luogo dove tutto sembra possibile, persino la realizzazione dei sogni che non sapevamo di aver fatto…
sudamerica
L’eccellenza immutata nei secoli dell’aratro manuale andino
Quando si osserva la serie di fattori che avrebbero permesso, tra il XII e il XVI secolo, alla civiltà degli Incas di emergere come principale dominatrice della sua area geografica nell’Età Precolombiana, giungendo a stabilire un predominio pari o superiore a quello di un antico impero di matrice indoeuropea, è semplice individuare l’importanza di poter portare sostentamento, e prosperità, mediante l’applicazione di una serie di sistemi e metodologie agricole particolarmente distintive. Distribuiti attraverso un paesaggio molto vario e non particolarmente accogliente o fertile, al punto da costituire secondo la definizione dell’antropologo John Victor Murra un “arcipelago verticale” essi riuscirono a creare un metodo di organizzazione del lavoro in cui l’economia del baratto, comunque presente, era subordinata alla concessione e conduzione di corvèe, nei confronti degli ayllu o clan familiari e sempre in base alla fondamentale regola della reciprocità. Questo perché una costante, più di qualsiasi altra, accomunava i diversi recessi comunitari delle diverse istituzioni amministrative: la necessità di lavorare molto duramente, trasformando in modo significativo la natura, affinché potesse anche soltanto iniziare a piegarsi alle necessità della gente. Immaginate dunque un mondo in cui non esistevano bovini, né cavalli o altri animali capaci di assolvere a mansioni pesanti. Né d’altra parte, i remoti recessi montani ove trovava collocazione il terreno fertile sarebbero stati raggiungibili da altri che i singoli esseri umani. Come avreste proceduto voi, verso l’obiettivo di smuovere la terra compattata da solide radici erbose, al fine di prepararla per piantare gli imprescindibili semi di patata, quinoa, pomodori, peperoni e mais? La risposta a questa specifica domanda, lungo le catene montuose che seguivano la costa pacifica del Sudamerica, avrebbe dunque assunto la forma di un riconoscibile strumento, che forse ai conquistadores provenienti dall’Europa avrebbe potuto apparire con l’aspetto di un’alabarda o altro tipo di rudimentale arma inastata, finché non avessero notato la maniera in cui veniva sfruttato nel contesto per il quale aveva ricevuto un millenario perfezionamento. Un passo indietro, un colpo obliquo, il piede posto a premere sopra l’apposito punto d’appoggio, mentre la testa dell’attrezzo in pietra o d’osso penetrava in modo significativo nella dura terra. Un passo indietro, un colpo obliquo… Sempre uomini e di un’età sufficientemente giovane, perché la forza fisica richiesta era senz’altro significativa, mentre le loro mogli, sorelle o figlie si occupavano di seguirli spostando a lato la terra smossa, preoccupandosi allo stesso tempo di gettar nel solco le sementi ricavate dal raccolto precedente. Un’opera non meno spossante, sia ben chiaro, soprattutto alle altitudini e con l’ossigeno rarefatto dei più elevati campi coltivabili, dove è stato rilevato che nessun altra mansione fosse altrettanto dispendiosa, in termini energetici, che la preparazione di un singolo andén (plurale andénes) o terrazzamento agricolo intagliato direttamente nel fianco scosceso della montagna.
La prima rappresentazione grafica che abbiamo della cosiddetta chaquitaclla o tirapie risale dunque all’opera del nobile quechua Felipe Guaman Poma de Ayala, famoso per essere stato l’interprete e assistente del frate Cristóbal de Albornoz durante la sua complessa campagna religiosa condotta tra il 1560-70, nel tentativo di eradicare la setta del Taki Unquy, un gruppo di indios convinti che gli spiriti wak’as delle Ande, inquieti per la progressiva diffusione del cristianesimo, avessero iniziato a perseguitare le persone, costringendole ad effettuare una sorta di danza selvaggia simile alla possessione del demonio. Nella sua famosa opera Nueva corónica y buen gobierno, ricca d’illustrazioni estremamente dettagliate nonostante fosse privo di una formale preparazione artistica, compaiono alcuni lavoranti intenti ad impugnare una versione perfettamente riconoscibile di tale attrezzo, in ogni aspetto tranne lo strano manico dalla forma spiraleggiante, forse concepito al fine di favorirne l’impugnatura in ogni fase del duro lavoro. Ma che per il resto, non sarebbe apparso in alcun modo differente dalla versione destinata ad essere impiegata per i molti secoli a venire e che in talune circostanze o contesti geografici, viene utilizzato tutt’ora…
Il minuscolo pavone sudamericano che sa far battere le proprie ali 80 volte al secondo
Per svariati millenni, ed attraverso civiltà indistinte, la collettività degli uomini si è chiesta cosa sarebbe potuto accadere se fosse riuscita a catturare il vento. Instradarlo ed asservirlo alle proprie priorità di esseri terreni, diventando come foglie trasportate in refoli dal gelido intento. O umido e pesante d’opportunità contestuali, come può succedere soltanto entro i confini tropicali di questo pianeta, dove per ogni desiderio esiste un animale, per ciascun recesso un fiore, un cespuglio ed un pianta. Ciascuno frequentato, sulla base delle circostanze presenti, da colui o colei che ha il desiderio e la capacità di trarne nutrimento, ovvero farne il significativo segnalibro nella naturale progressione delle proprie pagine, attraverso il grande libro dell’evoluzione. Insetti, soprattutto, ma non tutto ciò che ha uno scheletro esterno chitinoso e sei piccole zampe luccica, per così dire, del bagliore che riflette di seconda mano dalla luce delle stelle che sovrastano le loro peregrinazioni. Quando il senso stesso di essere un “uccello”, per casi pregressi e accumulatisi attraverso il susseguirsi delle Ere, è stato sovvertito dal profondo stesso delle proprie cognizioni maggiormente imprescindibili. E così vuolse là dove si puote, colibrì. Oppure hummingbird(s), come li chiamano presso gli anglofoni lidi, con riferimento al tipico ronzio prodotto dalla punta delle loro ali, non soltanto mera conseguenza del particolare movimento che permette loro di sfuggire all’attrazione gravitazionale, ma un letterale metodo auditivo di comunicazione e preavviso tra i membri delle molte differenti specie a noi note. Così tante, e varie, in effetti, che ne esistono talune che risultano capaci di sfidare l’immaginazione. Avevate mai pensato, ad esempio, che il prototipico esponente della famiglia Trochilidae, effettiva realizzazione del concetto stesso di volo aerodinamico, potesse trovare posto nella sua morfologia per una svettante cresta decorativa, diretta corrispondenza frontale di quanto uccelli dalle dimensioni ben maggiori sono soliti innalzare dalla parte posteriore della loro nobile presenza? Di sicuro non l’avevano fatto Pieter Boddaert, scopritore scientifico nel 1783 del primo esemplare descritto formalmente di un Lophornis, oppure Louis J. P. Vieillot, che nel 1817 aggiunse il membro “magnifico” di tale genere (Lophornis m.) al grande albero dell’esistenza. O ancora Temminck, Lesson, Salvin, Godman e tutti gli altri naturalisti di chiara fama che, compiendo l’irrinunciabile viaggio presso il continente sudamericano nel corso delle loro celebrate carriere, alzarono allo stesso modo gli occhi verso la canopia sovrastante, scorgendo quelle che potevano sembrare solamente grosse farfalle o falene. Finché qualcosa, nei loro movimenti e l’effettiva progressione tutto attorno ai rami degli alberi, non permise ai loro occhi allenati di approcciarsi gradualmente alla verità.
Questo perché un fondamento stesso nella strategia di sopravvivenza inerente, in questo variegato gruppo di uccelli raramente più lunghi di 8-9 cm, è l’inclinazione a passare per quanto possibile del tutto inosservati, mentre si aggirano muovendo il posteriore alla su e giù alla maniera di un lepidottero alla ricerca di possibili fonti di sostentamento e/o compagne con cui compiere il fondamentale atto riproduttivo. Controparti femminili che tendono a essere sensibilmente più grandi (sebbene non quanto avvenga in altre varietà di colibrì) ma molto prevedibilmente prive della sfavillante corona di piume rosse, così come di quelle a forma di scaglie che alcune specie possiedono in corrispondenza delle proprie guance, ai lati del becco aguzzo dalla punta scura. E forse anche per questo, ancor più pronte a rimanere colpite dalle rituali danze con movimenti e forma di U, e ripide picchiate paragonabili alle manovre in picchiata di un jet da combattimento, compiute dagli aspiranti mariti per tentare di rapire l’attenzione delle proprie possibili controparti amorose. Nient’altro che un giorno come tutti gli altri, nell’adrenalinico, irrefrenabile susseguirsi dei giorni nella vita di un piccolo divoratore di nettare, così formato…
Lo strano uccello di caverna che si orienta sfruttando l’eco del suo richiamo
E fu così che Alexander von Humboldt, il naturalista, esploratore e geografo più influente della sua epoca, fece un passo nelle tenebre e udì perfettamente il grido corale dei dannati. Un canto intenso e modulato, stridente e che pareva riecheggiare di tutte le sofferenze, il dolore e le ansie del mondo. Egli si trovava sottoterra, ovviamente. Era l’anno 1800. E come il Sommo di cui ben ricordiamo i versi era lontano da casa, aveva disceso un lugubre passaggio “nel mezzo del cammin di nostra vita” e si trovava in quella che senza ombra di dubbio avremmo potuto definire “una selva oscura”. Eppure difficilmente, avremmo potuto chiamare un tale luogo “l’Inferno”. Il grande scienziato ed il suo amico e collega Nicolas Baudin, che lo aveva accompagnato con l’intenzione originaria d’incontrare Napoleone in Egitto, erano perciò saliti l’anno precedente su un’imbarcazione diretta nelle colonie americane, e da lì verso Tenerife, Cumanà e la foce del Rio Negro. Ma prima di raggiungere tale meta nel remoto meridione del continente, avrebbero compiuto una sosta presso la cosiddetta Cueva del Guàcharo (“Orfano”) a 12 Km dalla città di Caripe, in Venezuela. Così chiamata per la popolazione di singolari volatili che la abitavano, anche chiamati alternativamente diablitos (piccoli diavoli) per i loro occhi rossi e l’evidente appartenenza uditiva al mondo sovrannaturale, alternativamente associata al pianto di un orfano che cerca aiuto e protezione. Una collocazione contestuale che non gli aveva impedito, all’arrivo dei europei, di guadagnare un altro e ben più pragmatico soprannome: quello di oilbird o uccello dell’olio, per il ricco contenuto nel suo organismo di tale sostanza, particolarmente utile alla fabbricazione di candele. E lo stesso Humboldt in quel particolare frangente, sfruttava forse proprio una simile fonte di luce, mentre rivolgeva l’attento sguardo alla volta cupa e brulicante dell’ampia grotta. Sopra cui, abbarbicati ad ogni antro, anfratto e spelonca, figuravano degli esseri chiaramente diversi dalla tipica genìa dei pipistrelli. I quali piuttosto, possedevano un manto piumato, le dimensioni approssimative di un piccione e un becco dall’aspetto crudele e ricurvo. Erano loro, molto chiaramente, ad emettere quel suono. Ogni qualvolta, disturbati dall’imprevista intrusione, si staccavano dai loro appigli, volando sicuri verso gli angusti pertugi e i tunnel della caverna, emettendo degli schiocchi particolarmente penetranti che rimbalzavano contro le pareti rocciose. Ora se all’inizio del XIX secolo, una mente insigne come la sua, avesse posseduto una nozione anche soltanto preliminare del concetto di ecolocazione dei volatili, probabilmente Humboldt avrebbe dedicato almeno un capitolo a queste creature nella sua grande enciclopedia “il Cosmo” che avrebbe iniziato a scrivere 40 anni dopo ed a sublime coronamento della sua carriera.
Ma le atipiche caratteristiche, fisiologiche e comportamentali, di quelli che la scienza avrebbe definito Steatornis caripensis sarebbero comparse nella conoscenza collettiva unicamente dopo un ulteriore periodo di 138 anni, con gli studi ed esperimenti effettuati sui pipistrelli da Donald Griffin e Robert Galambos, soltanto successivamente applicati anche alle cognizioni allora disponibili su alcuni dei più imponenti mammiferi marini. Nessuno sembrò tuttavia notare in quei frangenti ed ancora per qualche tempo a venire, come almeno due tipologie d’uccelli possedessero la stessa capacità di emettere un suono e usarlo per orientarsi nella notte: talune specie di rondini, interessate alla caccia d’insetti volanti. E il guàcharo sudamericano mangiatore di frutta, diffuso in Guyana, Trinidad, Venezuela, Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù e Brasile. Ma soprattutto associato a quella particolare località di Caripe (da cui il nome scientifico) e la relativa esperienza di Humboldt, così come al significato dell’altro termine latino steatornis (grasso) per l’imponenza e rotondità per nulla trascurabili facilmente raggiunte dai pulcini durante l’epoca del loro sviluppo, prima di smagrirsi con finalità aerodinamiche al raggiungimento dell’età adulta. Apparirà chiaro, dunque, come ci troviamo di fronte ad uno dei casi atipici nel mondo naturale in cui il “piccolo” è in effetti più imponente dei propri genitori, risultando la materia prima preferita dei suddetti produttori di candele in epoca coloniale, ma non necessariamente alcun tipo di carnivoro e/o rapace facente parte del sistema ecologico della catena alimentare. Questo per l’abitudine a risiedere, per una parte significativa del loro tempo, in luoghi semi-sepolti e irraggiungibili, le immutabili profondità del mondo…