L’attrazione turistica di un sito di smaltimento nucleare

L’ombra della collina, grigia ed incolore, incombeva dalla finestra dell’edificio, disegnando una forma riconoscibile sul pavimento dall’aspetto vagamente marmorizzato. “La cella di contenimento di Weldon Spring è sicura al 100%” recitava a chiare lettere il cartello esplicativo posto al centro del piccolo museo: “Ogni agente contaminante è stato accuratamente raccolto e posizionato all’interno dell’area definita, quindi 100.000 yarde cubiche di pietra, detriti, metallo e ghiaia sono state usate per ricoprire l’ammasso di scorie. Persino le tute anti-radiazioni usate dagli agenti di depurazione sono state chiuse all’interno di barili a tenuta stagna, quindi aggiunte alla pila degli oggetti da seppellire.” Il piccolo Timmy, in visita al Museo Interpretativo della piccola cittadina nel Missouri, si guardò attorno alla ricerca di una rassicurante conferma. E fu allora che notò, all’interno di una teca di esposizione, il casco e la palandrana color fluorescente di quella che non poteva esser altro che uno di quegli stessi abiti, preservato affinché lui, a distanza di parecchi anni, potesse avere l’onore di prenderne visione. Al che si fece immediatamente due domande: primo, se davvero ne fosse valsa la pena. E secondo, perché mai, fra tutte le gradevoli attrazioni del Missouri, i suoi insegnanti avessero scelto di portarli proprio lì. Non è questa, come forse potrebbe sembrare, la scena di un film distopico sulle catastrofi o una sezione liberamente visitabile dei videogiochi della serie Bioshock, bensì un luogo reale creato a partire dall’incuria e l’urgenza percepita da parte un governo, dapprima spinto dalle esigenze di una grande guerra. E poi quelle di restare competitivo, durante la frenetica corsa agli armamenti che ebbe inizio il giorno stesso degli accordi finali.
Siamo in un luogo che ha conosciuto, negli anni, parecchi veleni: dapprima quelli prodotti dall’impianto della WS Ordnance Works, principale produttore di esplosivi sul territorio nel corso del secondo conflitto mondiale, quindi le acque tossiche prodotte da niente meno che il progetto Manhattan, lo sforzo nazionale per la produzione della prima bomba atomica, il cui effettivo e drammatico utilizzo, alle spese di due intere città giapponesi, conosciamo fin troppo bene. A partire dalla metà degli anni ’50, sempre qui venne collocata la WS Uranium Feed Materials Plant, chiamata talvolta con l’eufemismo “Impianto chimico” presso cui veniva trasportato uno stadio intermedio di lavorazione del più diffuso ed omonimo materiale radioattivo, affinché esso potesse venire processato nella forma di una polvere giallognola nota come yellow cake. Ogni singolo edificio, naturalmente, conteneva generose quantità di amianto, considerato all’epoca imprescindibile per le sue capacità ignifughe e d’isolamento. E i trasformatori elettrici, oltre agli impianti meccanici, erano riempiti di miscele PCB (Policlorobifenili) composti organici dalle presunte capacità cancerogene e lesive per l’organismo umano. Fu attorno a quel periodo che il complesso prese il nome popolare di Città Meccanica, per gli strani suoni che sembrava emettere a ogni ora del giorno e della notte. Ben presto, nell’area iniziarono a circolare voci di gestioni improprie del rischio, con fuoriuscite di liquido contaminato, esplosioni di polvere sottile di triossido d’uranio e pozze di smaltimento insufficienti a contenere l’intera quantità del materiale. Inoltre, gli abitanti locali iniziarono a notare la presenza di rane stranamente gobbute, sottoposte a mutazioni genetiche niente meno che orripilanti. Il governo degli Stati Uniti, che aveva potuto contare sul sacrificio più o meno cosciente e l’operato produttivo di chi lavorava da decadi in questi luoghi, pensò allora di riconvertire ulteriormente l’impianto: con il protrarsi della guerra del Vietnam, successivamente alla chiusura dell’impianto chimico avvenuta nel 1966, si pensò di riaprirlo per mettersi a produrre ingenti quantità dell’Agente Arancio, il temuto ed efficacissimo erbicida impiegato per disboscare ettari interi della penisola del Sud-Est Asiatico, mentre qualcuno iniziava, timidamente, a far notare il suo alto contenuto di mortifera diossina. Poi per fortuna la guerra finì, oppure l’amministrazione preposta cambiò, oppure un briciolo di coscienza sembrò penetrare nella mente dei politici e degli addetti all’approvvigionamento militare. Così la parola fine venne finalmente scritta col fuoco sul tronco di questo albero malmesso, mentre sotto la spinta delle associazioni civiche ambientaliste, il Congresso decise che dopo tutto, un qualche tipo di intervento si era reso palesemente necessario. Gli anni passarono vertiginosi mentre i casi di cancro e leucemia nell’intera regione continuavano “misteriosamente” ad aumentare (la burocrazia, si sa, ha i suoi tempi e sopratutto, i suoi metodi) finché il 15 ottobre del 1985, un giorno lungamente atteso, il sito di Weldon Spring venne iscritto alle Priorità Nazionali del progetto Superfund, una lista di luoghi contaminati da scorie, per lo più di tipo nucleare, per le quali sarebbero stati messe in atto procedure di contenimento destinate ad essere efficaci per un periodo minimo di 1.000 anni. Il fato di quest’area un tempo verdeggiante, a quel punto, era segnato.

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Quanto tempo ci voleva per vestirsi all’epoca di Maria Antonietta?

Esiste un detto anglosassone che recita, letteralmente: “La bellezza non va più a fondo della pelle” (Beauty is just skin deep) che si fonda sull’utilizzo del termine beauty il quale, rispetto al nostro equivalente, ha ben poche connotazioni astratte e in genere, si riferisce soltanto all’aspetto visuale della questione. Un’individuo dal carattere degno d’encomio, in inglese, è più solita ricevere l’appellativo di good person, il che gli permette al tempo stesso di essere deep, ovvero profondo. Questo non ha mai voluto dire, del resto, che al di sopra dell’involucro dell’organismo umano fosse impossibile arricchire se stessi, costruendo in altezza, piuttosto che all’interno dello spazio metaforico dell’io pensante. Portando in tal modo, attraverso i secoli, alla nascita del concetto stesso di moda. Poiché condividere se stessi, la propria figura esteriore e dare un significato evidente alla propria venuta nel contesto sociale, significa condividere dei valori che sono tanto variabili quanto arbitrari, frutto dell’influenza dei pochi e il beneplacito dei molti….Disposti a far tutto, pur di apparire in qualche modo memorabili.
In questa intrigante ricostruzione offertaci da Pauline Rushton, curatrice del dipartimento costumi del Museo Nazionale di Liverpool, Inghilterra, viene mostrato il complesso ed elaborato processo di vestizione di una donna di buona famiglia verso la metà del XVIII secolo, quando l’estetica roboante del tardo Barocco stava già lasciando il passo alle forme più organiche e naturalistiche del Rococò, ma le corti d’Europa sembravano ancora fermamente intenzionate a rendere complessa la vita di chi aspirava, un giorno, a farne parte. Il punto di vista dello scenario mostrato è in effetti esplicitamente British, come reso esplicito dall’opera d’arte ispiratrice della sequenza: il dipinto facente parte della collezione della galleria noto col titolo di “Mrs Paine & Co” in cui due giovani londinesi suonano il clavicembalo sotto lo sguardo rapito di un’anziana signora. C’è una storia interessante dietro a quest’opera datata 1765, del pittore Joshua Reynolds, che l’usò per pagare un architetto dei lavori effettuati sulla sua abitazione: per molti anni la figura della probabile nonna delle fanciulle era stata cancellata tramite l’applicazione di un’ulteriore strato di pittura, prima di essere riscoperta in epoca moderna. Chissà poi perché? L’abito mostrato nel nostro video, ad ogni modo, è una fedele ricostruzione di quello indossato dalla figura in primo piano nella scena. Il che lo colloca in un ambiente che interpretava l’estetica francese soltanto in maniera indiretta, rientrando piuttosto nella corrente che oggi prende il nome di Colonial Dress. Proprio così: stiamo parlando della stessa visione, in materia di abiti femminilio, che di lì a poco sarebbe stata esportata al nascente Nuovo Mondo, e che oltre un secolo e mezzo a venire sarebbe rimasta un punto cardine delle gentildonne del cosiddetto Sud (Alabama, Kentucky, Mississippi, Louisiana… Dritti fino alla Georgia di Via col Vento, ambientato parecchie generazioni dopo). Ma non abbiate dubbi sul fatto che tutto questo, a conti fatti, incidesse in alcun modo sull’impressionante complessità della sua composizione, tale da richiedere, regolarmente, l’assistenza di una o persino due domestiche
Questa procedura di vestizione, così curiosamente simile a quella di un cavaliere che si avvia in battaglia, ne è la prova diretta ed inconfutabile: la scena inizia, per ovvie ragioni, con l’attrice che già indossa lo shift, una lunga sottoveste che costituisce, essenzialmente, l’unica biancheria femminile di quell’Era. Questo per varie ragioni: intanto perché i drawers (una sorta di rudimentali mutande) indossati sotto i calzoni dagli uomini erano visti come eccessivamente mascolini e inadatti alla conformazione fisica delle donne, e poi perché in effetti, sarebbe stato pressoché impossibile slacciarli per andare in bagno sotto i letterali chilogrammi di stoffa che stanno per essere sovrapposti al primo di questi strati. Seguivano quindi degli alti calzini, generalmente di lana, che venivano assicurati al di sopra del ginocchio con dei nastri legati manualmente, talvolta spostati più in basso, quando la signora prevedeva di camminare o danzare nel corso della giornata. A questo punto, si aggiungeva la prima delle petticoat, le sottogonne. Per dare il via a una lunga sequela di aggiunte che dal punto di vista di noi moderni, non può che apparire ai confini del surreale…

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Il mostro che solleva la proboscide del dubbio

Non tutto ciò che è antico risulta essere anche prezioso, soprattutto quando ci si orienta sulla base di periodi geologici risalenti a molti milioni di anni fa. Avete mai provato a sollevare una piccola roccia in un campo e provare ad immaginare da quanti anni una tale cosa abbia occupato spazio sul pianeta Terra? O in altri termini, abbia graziato il mondo con la sua esistenza? Tutto ha una storia, persino ciò che non sembrerebbe averne un briciolo secondo la convenzione predeterminata. Persino il carburante che brucia nelle nostre stufe o centrali elettriche, l’oscuro, sporco, combustibile carbone. Una ricchezza in determinati territori, che gli permise nei secoli di diventare un polo economico della moderna società delle risorse. Depositario di una fondamentale seppur trascurata verità: che in corrispondenza di ogni singolo giacimento sperduto in mezzo a una radura, sulle propaggini di un deserto o una regione infertile e priva di vita, esisteva un tempo una foresta rigogliosa, popolata di creature che la nostra mente fatica duramente ad immaginare. Come avveniva per gli uomini nei romanzi di Robert E. Howard, che parlavano di grandi civiltà antecedenti a una catastrofe che causò il rimescolamento dei continenti (e la scomparsa di Atlantide) ci sono luoghi che un tempo avevano un volto del tutto differente. Spazi geografici come l’acquitrino di Mazon Creek, lagerstätte sedimentario non troppo distante da Chicago, nell’Illinois, dove fino a un paio di generazioni a questa parte lavoravano alacremente le ruspe, e adesso si recano invece schiere di aspiranti paleontologi, armati di pala e piccone, alla ricerca di un particolare tipo di pietre con qualche cosa di nuovo da raccontare. Delle concrezioni risalenti al Pennsylvaniano (318-299 milioni di anni fà) ovvero agglomerati di materiale geologico nati attorno ad un nucleo più resistente, che ad uno sguardo esperto mostrano l’immagine chiaramente stampata di piante ed animali risalenti a quel tempo mostruosamente distante. Tra cui una, sopratutto, ha saputo colpire la fantasia dei paleontologi offrendo la ragione di una disputa pluri-decennale che giusto questa settimana, si è arricchita di un capitolo nuovo: il Tullimonstrum gregarium, più amichevolmente definito mostro di Tully. O mostriciattolo, viste le dimensioni di appena una trentina di centimetri. Ma quanta stranezza, in un tale compatto ed immortalato contenitore!
Se voi poteste entrare, proprio adesso, in una macchina del tempo, e ripercorrere il sentiero delle ere fino a quando un tale luogo si trovava ad appena 10 gradi dall’equatore, per effetto del fenomeno della deriva delle masse continentali, non fatichereste probabilmente ad individuarne qualcuno. La quantità e varietà di fossili ritrovati, benché non ve ne siano più che uno ogni cento concrezioni di Mazon, hanno infatti permesso di comprendere che questo animale, all’epoca, era tutt’altro che raro, da cui il nome scientifico, per l’appunto, di gregarium, ovvero comune. La bestiolina si avvicinerebbe alle vostre caviglie, incuriosita per l’improvviso movimento, tastandole col suo principale organo sensoriale: una lunga proboscide articolata, dotata di un’arto prensile all’estremità, con fino a 16 piccoli denti acuminati  non troppo dissimili, per lo meno concettualmente, da quelli presenti sulla lingua del mostro di Alien. Oggi l’opinione più diffusa tra gli scienziati è che tale parte anatomica non fosse in effetti la bocca dell’animale, probabilmente sita in una collocazione simile a quella dei cefalopodi a cui vagamente rassomiglia, bensì un fondamentale strumento usato per procurarsi il cibo. Ma le stranezze, come potete facilmente desumere dall’illustrazione soprastante di Sean McMahon tratta dall’articolo dell’Università di Yale sull’argomento,  non finiscono certo qui. La creatura aveva un corpo tozzo e allungato come un dirigibile, con due pinne simili a quelle di una seppia ed un paio di occhi situati su lunghi peduncoli, non dissimili da quelli di un granchio del cocco. È probabile che la distanza dal corpo in cui questi erano posizionati avesse lo scopo di permettergli di scorgere meglio cosa stesse afferrando con la proboscide dentata, mentre setacciava il fondale alla ricerca dei piccoli esseri di cui si nutriva, simili a gamberi, crostacei o microrganismi di vario tipo. Ma qui stiamo entrando nel regno della più pura speculazione. Ciò che qualunque fossile di questo tipo può meramente costituire, in effetti, è soltanto una semplice foto, molto spesso incompleta, di qualcosa che da un lunghissimo tempo non è più fra noi. Ogni tipo di speculazione, a partire da una simile presa di coscienza, è campo fertile per le nostre più assurde idee…

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Quanto è armato l’uomo più armato degli Stati Uniti?

Gestire un museo delle armi da guerra non affatto semplice, qui da noi in Europa. Indipendentemente dal paese di provenienza, occorrono permessi particolari, uno spazio sicuro guardato a vista 24 su 24, la garanzia di aver effettuato operazioni di disarmo e disinnesco su tutti gli ordigni e le munizioni di maggiore pericolosità. Osservate, per comparazione, l’opera della vita di Mel “Dragonman” Bernstein, il proprietario della Dragonmans Firearms, la più incredibile commistione di poligono di tiro, pista da motocross, spazio espositivo ed arena da paintball, che ospita nel suo capannone sito non troppo lontano dalla città di Colorado Springs fucili, mitragliatrici, granate, bombe aeronautiche, mezzi d’assalto, carri armati… Un personaggio dall’eloquenza ed il fascino certamente singolari, che in questo tour di circa 20 minuti recentemente girato con l’aiuto di suo fratello e pubblicato sul canale YouTube – Hot Brass and Bullets, non fa che riconfermare quanto molti di noi avrebbero sospettato: “La vedete questo cannone anti-carro, questa cassa di munizioni? Niente di tutto questo ha lo scopo di fare scena. È tutto carico e pronto all’uso” (Ready-To-Go). La ragione per cui ciò è possibile va ricercata primariamente nell’aspetto normativo dell’intera questione, e nel particolare funzionamento delle leggi federali sulle armi vigenti negli interi Stati Uniti. Esistono 11 diversi tipi di licenze che possono essere concesse ai proprietari seriali d’implementi bellici, generalmente legate ai diversi tipi di attività commerciali legate ad esse (riparatore, banco dei pegni, importatore, produttore…) e tra queste, una delle più flessibili è quella di tipo 3, pensata per i collezionisti di pezzi storici e “curio” ovvero letteralmente, chincaglieria. Questo perché con l’atto sulle armi da fuoco del 1986, approvato durante la presidenza di Ronald Reagan in risposta al pericolo d’infiltrazione sovietica, è stato grandemente limitato il commercio alla popolazione civile di armi automatiche e dall’alto potenziale distruttivo, fatta eccezione per quelle ricevute in eredità, d’importanza o valore storico, o connesse per l’appunto ad un’attività comprovata di divulgazione archeologica a vantaggio della popolazione. E non credo che nessuno possa negare, in effetti, la valenza notevole del museo di quest’uomo, a meno di scegliere coscientemente di rinnegare il valore della cultura bellica e tutto ciò che ne deriva. Ma ciò potrebbe derivare soltanto da una profonda ammissione di disonestà intellettuale, nevvero? Tanto più assurda, in un paese che della venerazione per le armi e ciò che rappresentano, ha fatto un distintivo e un tratto di riconoscimento, spesso indossato con orgoglio da entrambi gli schieramenti politici che si succedono al comando del paese. Chi non ricorda, a tal proposito, la famosa frase dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto durante la seconda guerra mondiale, il quale affermò: “Non ci sarà mai possibile invadere il suolo degli Stati Uniti. Troveremmo un fucile nascosto dietro ogni singolo filo d’erba.”
È una visione del mondo che si evolve attraverso le decadi, pur restando costante attraverso la storia di quelle terre: la cognizione dello stato di pericolo costante che deriva da possedere un qualcosa, ed il bisogno che ne deriva di proteggerlo ad ogni costo, anche a costo di doverlo fare da soli. Quel qualcosa, naturalmente, è la Libertà. Ogni eventuale retrospettiva non può che riconfermare tale affermazione: ci provarono in molti, a forare questa scintillante stella appuntata sul bavero dello sceriffo. Da principio gli inglesi, durante l’epoca del colonialismo e del residuale diritto divino, non ancora disperso dai lumi della rivoluzione. Quindi la terza parte dell’Asse, cavalcando l’onda del Pacifico su poderose portaerei. Seguiti dall’alleato scomodo dell’Unione Sovietica, trasformatasi negli anni della guerra fredda in un sincero e profondo affronto verso l’eredità stessa dei Padri Fondatori. Durante gli anni oscuri di una tale epoca nacque, inevitabilmente, un’intera mitologia moderna attorno a una nube dell’incombente disastro, legata agli avvistamenti degli UFO, le cospirazioni dei rettiliani, la cognizione di un paese pieno di mostri e creature misteriose. Mentre osservate, per comparazione, l’onnipresente figura odierna dello zombie d’ispirazione afro-caraibica: un morto senza cervello, senza soldi o particolari prospettive. A suo modo, ancor più temibile di qualsiasi testone Grigio fornito di sonda anale. Perché affetto da una malattia per la quale l’unico antidoto possibile è una generosa dose di piombo, somministrata a distanza con il maggiore calibro a disposizione in base al momento corrente. E si, a scanso di equivoci: di bersagli a forma di zombie Mr. Dragonman ne possiede parecchi nella sua area dedicata alla prova pratica dei reperti meno rari e delicati. After all, è proprio QUELLO che piace ai giovani d’oggi, giusto?

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