Digerito dallo stomaco eversibile del verme-cobra

Bipalium

Una strana vibrazione nell’aria, che si trasmette virulenta fino al suolo, generando un moto impercettibile dell’erba. L’energia di una mattina che all’improvviso appare tersa e nitida, i contorni delle cose più accentuati. E tutto questo solamente perché tu hai scoperto, d’improvviso, che non tutti i vermi sono prede. Anche se le prede migliori, generalmente, sono tutte vermi. Perché li mangiano gli uccelli, i rettili e gli anfibi. Li divorano anche i piccoli mammiferi carnivori, come la donnola, l’ermellino, la lontra. Per non parlare degli eterni roditori, onnivori per eccellenza, che del lombrico sanno fare un pasto, dell’anellide un convivio. Non parrebbe in effetti esserci, in questo ampio e diversificato un mondo, una creatura maggiormente indifesa, priva di risorse o mezzi difensivi, che colui che striscia sottoterra, fuoriuscendo a seguito della battente pioggia. Ma prova tu, ad assaggiare il gusto acre del Bipalium, questo viscido geoplanide di terra, che possiede nel suo codice genetico il segreto per produrre la tetrodotossina, un veleno che può accomunarlo al pesce palla. Non a caso, pare che qualunque creatura si sia azzardata ad assaggiarlo, ben presto abbia introdotto cambiamenti rilevanti nella sua quotidiana, guardando da quel dì con diffidenza verso il sottobosco, dove si annidano creature come questa. E poiché la natura non consente l’esistenza di pacifiche vie di mezzo ciò significa, in parole povere, che il ruolo ecologico del pasto mancato diventava a questo punto, consumare gli altri e farsi spazio tutto attorno. La vista all’opera di uno di questi pericolosi predatori, che appartengono allo stesso phylum dei vermi piatti parassiti (Platyhelminthes) è tale da ispirare un senso d’istintiva repulsione, per ciò che può sussistere sotto i nostri piedi inconsapevoli, tra le foglie e in mezzo ai rami di un’ecologia purtroppo poco nota, per quanto essenziale alla nostra sopravvivenza.  Eppure, sarebbe difficile non approvare, almeno in parte, gli strumenti evolutivi di cui dispone questa vorace creatura, la facilità con cui riesce a sfruttare i recettori chimici nella sua testa a freccia, per individuare la scia lasciata dal proprio pasto quotidiano…
Tutti hanno ben chiara nella mente la questione dell’utilità dei metameri anellidi (i cosiddetti lombrichi) nella costituzione di un sostrato fertile, adatto alla crescita di un buon giardino. La loro opera laboriosa, da cui derivano innumerevoli minuscole gallerie, costituisce un importante metodo di arricchimento e mescolanza del suolo, per non parlare dell’utile areazione che permette alle popolazioni di batteri sotterranei di sopravvivere e di prosperare. Inoltre, la loro stessa propensione a riprodursi in modo esponenziale gli permette di sostenere, con il proprio sacrificio reiterato, intere catene alimentari ben distinte e parallele, costituendo un cibo facilmente disponibile e, almeno apparentemente, incapace di esaurirsi. Questo perché è stato chiaramente documentato come alcuni appartenenti alla famiglia dei geoplanidi, tra cui per l’appunto un tale verme aerodinamico, possano giungere a consumare 1,4 lombrichi alla settimana (il decimale è tutt’altro che superfluo, visto che i vermi sopravvivono anche a metà). Il che significa che una popolazione media di 6,5 Bipalium per metro quadro sarebbero in grado di eliminare facilmente una popolazione di fino a 450 vermi comuni a metro quadro. Il che non sarebbe forse un grave problema, se non fosse che queste particolari specie sono, come prerogativa della loro stessa genìa, estremamente prolifiche e adattabili, benché dipendenti da determinate condizioni climatiche, come la temperatura e l’umidità. Ma se quest’ultime dovessero risultare corrette, allora chi li ferma! Originari del Sud Est Asiatico, in particolare Vietnam e Thailandia, oggi questi vermi sono ovunque. Tra gli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, con la diffusione intercontinentale delle piante in vaso provenienti dall’Oriente, accadde infatti che il terreno di supporto contenesse alcune uova o piccoli esemplari di simili vermi, che poi vennero trapiantati, assieme all’adorato vegetale, nei terreni fertili di Stati Uniti e Gran Bretagna. Da allora, questi mostri sono ovunque.

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La strategia dei ragni che impugnano la propria tela

Deinopis

La tecnica di caccia dell’aracnide gladiatore è così attentamente perfezionata, nei metodi e le procedure, che tende a suscitare nel pubblico del web un istintivo senso d’ansia, cui fa generalmente seguito un debole tentativo di sdrammatizzare grazie all’ironia. “Ah, ah, ah. All’improvviso mi sento osservato. Che…Strano” Oppure: “Se fossero lunghi diciamo due metri, puoi contarci, la razza umana si sarebbe estinta da un bel pezzo!” Esclamazione spesso seguìta dalla classica serie di invettive, ormai di carattere più memetico che personale, contro tutto quello che abbia otto zampe che si diramano dal proprio addome e due cheliceri assassini, usati per colpire prede piccole o in alternativa, per lo meno nel senso comune collettivo, piombare sugli umani impreparati, allo scopo d’iniettare orribili veleni. Ora, la realtà è che gli appartenenti il genere Deinopis, talvolta anche chiamato dei ragni lanciatori o “dalla faccia di demone”, per il paio d’occhi frontali bulbosi e sporgenti, non sono dotato di armi chimiche particolarmente nocive, tanto che non si riportano notizie di morsi ai danni di persone. E questo per il semplice fatto che, grazie alla loro straordinaria tecnica per procurarsi il cibo, di simili rischiosi implementi non ne avrebbero neppure la necessità. Pensate che la loro ragnatela, se così può essere ancora chiamata, non è nemmeno appiccicosa!
C’è questa presunzione, estremamente tipica di noi altri umani, secondo cui l’intelligenza delle creature vada misurata unicamente nella somiglianza dei loro processi cognitivi ai nostri. Il che ci porta, generalmente, a tenere in maggiore stima un barboncino che riesce ad eseguire tutta una serie di numeri e graziose acrobazie, rispetto alla volpe che trova un’apertura nella recinzione, striscia silenziosamente tra gli edifici della fattoria e s’insinua nel pollaio, per ghermire una gallina o due. Secondo questa metrica, nulla dovrebbe essere più anonimo e incolore dell’aracnide medio, una creatura perfezionatasi attraverso secoli di evoluzione per compiere il particolare gesto d’intessere una trappola, poi porsi nel suo centro ed aspettare. Peccato che esistano particolari specie, a questo mondo, che non fanno assolutamente questo. Tra cui, per l’appunto, l’erede concettuale del retiarius, quella figura combattente e/o teatrale (le opinioni sono divergenti, ormai da quasi un secolo) che entrava nell’arena dei romani armato di un tridente in una mano, e un equipaggiamento simile a una rete da pesca nell’altra, usato per intrappolare l’avversario, che il più delle volte poteva essere il mirmillone o il trace. Mentre in quest’epoca di artropodi guerrieri, spesse volte è il grillo ensifero o la cavalletta, creature dalla massa facilmente pari o superiore a quella del temuto predatore di 25 mm (la femmina, 23 il maschio) che deve quindi catturarli giocando sapientemente d’astuzia. Così il suo piano tecnologico, eternamente ripetuto, prende il via al tramonto.
I ragni del genere Deinopis sono piuttosto timidi, soprattutto in funzione delle loro limitate capacità di mimetismo. Possono essere talvolta avvistati sotto le foglie dei giardini delle aree tropicali e subtropicali del mondo, con le due specie più famose rispettivamente attestate nel sud degli Stati Uniti e in Venezuela (D. Spinosa) e nella parte orientale dell’Australia e della Tanzania (D.Subrufa) che oscillano lievemente nel vento attaccati ad un filo, tentando per quanto possibile di ricordare dei rametti. Ma la loro attenzione, in quei momenti, è sempre orientata alla creazione del particolare strumento che gli permetterà di sopravvivere ancora una volta, il prodotto dei seritteri sulle sue zampe e del cribellum, una struttura che gli permette di separare le fibre di seta combinandole in una struttura lanosa. Più resistente, ma soprattutto, più elastica. Il che diventerà assolutamente fondamentale, di lì a poco.

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La strana vicenda dei castori paracadutisti

Beaver Parachute

Si, siamo sicuramente…Cambiati. Basta trascorrere qualche giornata tra la polvere del tempo, per trovare negli archivi le testimonianze di quel mondo ormai trascorso, in cui tu, Natura, ed io, uomo, ne facevamo e vedevamo di ogni tipo. Ah, l’astrusa meraviglia dell’inaspettato! Te la ricordi quella volta…E quell’altra! Quando c’erano i castori a Payette County, lungo i fiumi dell’Idaho remoto. Terra selvaggia ed incontaminata, libera dal caotico confronto quotidiano con il resto della massa cittadina. Perché lì, c’era una casa. La seconda dietro la collina. La terza nella valle, ancora più lontana. E così via. Ma tu, probabilmente, hai già riconosciuto la questione: era il 1948, e la gente ritornata dalla guerra, null’altro voleva, che vivere in tranquillo isolamento. Zero danni nel proprio giardino. Soprattutto, senza il rosicchiare di quei denti acuminati, l’albero che cade all’improvviso sotto il roditore, trasformato in legna per la diga e casa familiare delle care, laboriose bestioline. Puoi davvero biasimarci, Splendida rugiada del Mattino, se quel giorno decidemmo di prenderne qualche dozzina con le gabbie, poi decollare per lanciarli tutti quanti da un aereo?
In precedenza si era già parlato online del particolare approccio scelto dal Dipartimento di Caccia e Pesca dell’Idaho, nell’immediato dopoguerra, per trasportare 76 castori fino alla regione del Bacino di Chamberlain, oggi noto come riserva del Fiume di Frank Church “senza ritorno”. Soprattutto, senza strade. Quello che non immaginavamo, perché era un possibilità semplicemente troppo remota, era che dell’intera questione esistessero in effetti non uno, ma ben due video a colori, prodotti al tempo con l’investimento non indifferente di 700 dollari complessivi. Poi lasciati a deperire in qualche magazzino, tristemente lontani dagli occhi del mondo. Almeno finché una dipendente d’ufficio, Sharon Clark, con mansione occasionale di storica del dipartimento, non è capitato di ritrovare nella scatola sbagliata un misterioso film, dal titolo altamente suggestivo di: “FUR for the FUTURE” (il Pelo per il Futuro). Con mano tremante, quindi, preparato il proiettore e/o il videoregistratore, di fronte a lei si è palesato l’improbabile spettacolo, la prova registrata che davvero la questione di cui sopra si verificò. Un generoso spezzone estratto da questa preziosa testimonianza quindi, senza perdere altro tempo, è stato immediatamente caricato su YouTube, a vantaggio dell’ormai pregressa curiosità collettiva. E il suo contenuto, per chi avrà voglia di guardarlo fino in fondo, supera qualsiasi aspettativa.
Dopo un interessante segmento sui topi muschiati, che i ranger catturano mediante l’impiego di trappole a chiusura automatica e poi spostano mediante metodi convenzionali, si giunge presto alla portata principale. Alcuni addetti prelevano, con metodi comparabili, un paio di castori, rappresentanti biologici di quella che potrebbe definirsi una risorsa estremamente importante, soprattutto all’epoca: la pelliccia, usata nella fabbricazione di un tipo particolarmente rappresentativo di cappello nordamericano. Giammai, dunque, costoro avrebbero scelto l’eliminazione completa dei presenti roditori, che andavano piuttosto preservati con cura, nonostante le apparenze. Un cambio di scena e siamo sulla pista di decollo. I castori, trasferiti dalla gabbia ad una strana scatola di legno con un pacco annesso, vengono portati a bordo, quindi l’aeromobile si avvia per la sua strada. In una vertiginosa ripresa da terra, si può osservare il suo rapido sorvolo di uno spiazzo, in realtà quello usato per provare il metodo in questione, prima del suo impiego su larga scala. Ecco che la scatola precipita, il pacco si apre, scaturisce il paracadute. L’intero sistema viene quindi mostrato a consegna effettuata, completamente integro ed aperto. Dall’interno del pacco, timidamente, fanno capolino le armi anti-albero e quella testolina deliziosamente distruttiva. Nel suo incedere perplesso, pare espressa la pregnante locuzione: “Strade? Dove andiamo non ci servono le…gnam-gnam-gnam.”

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Tremate roditori, perché ritornano i terrier

Plummer Terriers

La più grande furbizia del topo è stata quella di imparare, con estrema efficacia, la maniera per passare inosservato. Silenziosamente acquattato nelle tane, le intercapedini dei muri, in mezzo alle radici di qualche albero in giardino, attende sempre il suo momento prima di colpire. Rubacchiando il necessario per moltiplicarsi, finché un giorno… Camminando nella notte per andare al bagno della casa di campagna, non odi nel buio quei passetti che rivelano la verità. Ma a quel punto è troppo tardi per accontentarsi di mettere una trappola. O due. Le fondamenta sono una metropoli squittente, che si muove al ritmo di una musica soltanto: masticare, divorare tutto quanto. I danni che i ratti infestanti possono causare alle proprietà degli umani sono quasi inconcepibili: tanto per cominciare, non soltanto mangiano fino a sazietà, ma una parte ancora superiore di vivande le sottraggono, portandole al sicuro nella buca che è la loro casa. Sono diabolicamente abili, nel fare questo. Ike Matthews, un disinfestatore inglese, raccontava nel suo Full Revelations of a Professional Rat-catcher (1898 – di pubblico dominio e disponibile su Project Gutemberg) diversi episodi vissuti durante la sua carriera più che ventennale, tra cui quello di due ratti, ritrovati all’interno di una cantina, con quindici uova di gallina grosse quanto loro, fatte rotolare fino al ciglio delle scale discendenti, poi letteralmente sollevate in qualche modo misterioso e trasportate fino all’intercapedine presente sotto un’asse del pavimento. Il suo libro è un fantastico viaggio nel mondo dell’orrore, con un ricco catalogo d’esperienze, sempre rigorosamente vissute in prima persona dall’autore e quindi comprovate a nostro beneficio, anche a distanza di oltre un secolo di tempo. Alla sua epoca, i roditori regnavano incontrastati, e non era affatto insolito che causassero decessi, non soltanto per l’effetto delle malattie. Uno di loro poteva, ad esempio, facilmente distruggere per il suo istinto di tenere in salute i propri denti un tubo del gas, portando al verificarsi di un pericoloso incendio notturno. O poteva fare lo stesso con quello dell’acqua, allagando abitazioni o locali commerciali. La soluzione? Allora come adesso, tolleranza zero.
Certo, l’uccisione indiscriminata di una genìa d’animali può sembrare crudele, ma è pur vero che queste creature sono tanto prolifiche e resistenti, che probabilmente sopravviveranno alla maggior parte delle altre sul pianeta. Noi inclusi. E sono due, gli strumenti principali usati da questa vera e propria personificazione del Van Helsing letterario: il tradizionale furetto addestrato creato a partire dalla puzzola europea, una vecchia gloria della de-rattizzazione, ed una grande novità tecnica dei suoi tempi, i piccoli “cani da terra” ottenuti dagli incroci con lo scopo specifico di penetrare negli spazi angusti e muoversi agilmente in luoghi inaccessibili, colpendo infine con mascelle rapide e scattanti. Il chien terrier, un concetto originariamente proveniente dalla Francia, doveva avere determinate caratteristiche innate, tra cui una larghezza del torace inferiore ai 35 cm nonostante la muscolatura ben sviluppata, un’indole aggressiva, un senso dell’olfatto molto efficace e l’intelligenza necessaria a comprendere quando fosse il caso di attaccare, e invece quello di tornare a marcia indietro fino al punto d’ingresso della tana. Caratteristica, quest’ultima, particolarmente importante, visto come in origine il terrier fosse stato creato per la caccia ad animali vicini o superiori alla sua stazza, come la marmotta, la volpe o la nutria, l’opossum e il procione negli Stati Uniti, o addirittura il feroce e pericolosissimo tasso. Ma i più grandi successi, simili fedeli cacciatori, fin da subito li conseguirono contro il topo.

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