Pur considerando tutte le approfondite competenze filologiche e la portata metaforica della mente dei poeti, a volte l’unico strumento veramente in grado di fornirci una prospettiva differente è il contributo dei bambini. Rose-Marie Dusting, all’età di 9 anni, scrisse per gioco una storia nel 1968, che avrebbe cambiato per sempre la percezione di uno dei più trascurati animali del suo paese. Titolo: “Billy il Bilby pasquale australiano.” Strano accostamento. Se pensiamo ai lagomorfi nel continente d’Oceania, l’idea che si prospetta è quella di un’inarrestabile catastrofe delle catene alimentari. Da quando nel XIX secolo, per divertimento e per sport, il tipico coniglio europeo era stato introdotto intenzionalmente, senza la benché nessuna considerazione in merito alla sua capacità di proliferazione e il modo in cui poteva letteralmente invadere ogni valle, collina o prato un tempo unico appannaggio del ricco patrimonio faunistico locale. Non è difficile comprendere, per questo, la maniera in cui l’associazione di una delle feste principali del calendario a un terremoto di simile portata fosse stato lungamente giudicato inopportuno o quanto meno problematico, giustificando l’adozione su larga scala dell’ingegnosa, divertente proposta. Vi sono, dopo tutto, alcuni punti di contatto estetici tra questi animali tassonomicamente distanti. Tutti e due piccoli mammiferi, dal pelo folto e morbido, il corpo tondeggiante, le orecchie lunghe e mobili sopra la testa appuntita, così come la coda nel caso del bilby (Macrotis lagotis) più lunga e caratterizzata da una spessa banda di colore nero. Creature che vivono all’interno di buche nel terreno, benché cosa facciano all’interno, e come organizzino la propria esistenza, tra un riposo e l’altro, non potrebbe essere maggiormente diverso: erbivori i primi, come ben sappiamo, mentre onnivori i secondi, con una parte non indifferente della loro dieta composta da insetti, ragni, larve, lucertole ed qualche volta piccoli mammiferi, principalmente dei topi. Individuati grazie ai sensi straordinariamente sviluppati di questo predatore notturno, capace tra le altre cose di percepire le vibrazioni delle termiti sotterranee mentre si aggira in superficie. Il preambolo, generalmente, di un’intensa sessione di scavo messa in atto grazie alle sue zampe artigliate, con tre artigli ricurvi in grado di penetrare anche la terra più dura. Uno dei molti adattamenti di questa creatura dall’aspetto delicato, in realtà perfettamente in grado di sopravvivere in condizioni estreme come quelle dei vasti deserti australiani, regolando la propria temperatura corporea grazie ad espedienti fisiologici e la già citata tendenza a mantenersi nascosta nelle ore diurne. Finché il desiderio di interagire coi propri simili, oltre alla necessità di procacciarsi il cibo, non ne attira il muso vibrante in modo cauto fuori dalle sue buchette accuratamente mimetizzate…
comportamento
Le curve corna e il folto simbolo sul collo del Re Caprone
Distribuiti con singolare parsimonia, i simboli del potere figurano attraverso le schiere del mondo animale sulla base di un criterio largamente arbitrario, in larga parte oggetto di multiple considerazioni estetiche di tipo largamente soggettivo. È più regale, ad esempio, il gallo con la propria cresta o il pesce dalla pinna ornata? L’insetto dotato di antenne biforcute o il cobra che ha il cappuccio aperto in attesa di poter colpire? Alcuni, d’altro canto, preferiscono le corna, simbolo di distinzione ed un particolare tipo di saggezza, spesso incorporato nell’immagine del diavolo ed ogni circostanza ad egli collegata tra i ducati dell’Inferno sotto i nostri piedi. Ma è salendo, e salendo fino in cima alla catena o cordigliera, che più di ogni alternativa è stata definita a più riprese il tetto “del mondo” si è da sempre presentata l’occasione di vedere l’impossibile a parole: un capro saltellante, agile, maestoso, in cui la doppia preminenza cranica è direttamente accompagnata dal maestoso simbolo della criniera. Che i locali erano soliti chiamare tahr, per analogia col vicino ma più ordinario capricorno dell’Himalaya. Sotto qualsiasi punto di vista rilevante, un erbivoro leonino, minacciato nel suo legittimo contesto di provenienza al pari del supremo sire della savana. Il che offre molto da pensare, quando si considera la tipica natura della sotto-famiglia dei Caprini, esseri ragionevolmente prolifici, adattabili, dotati di singolari risorse per la sopravvivenza. Aprendo una riflessione merito all’estensione e la portata delle attività di caccia non sostenibile in questo paese remoto, per non parlare della riduzione del territorio a disposizione, motivata in modo significativo dalla poca compatibilità di questa tipologia di animali con greggi e armenti di proprietà dell’uomo. Così come le sue coltivazioni vegetali, anche soltanto per un attimo lasciate incustodite. Questo perché il vero tahr, il cui nome scientifico Hemitragus jemlahicus può essere ricondotto al concetto di “mezza-capra nepalese” è sostanzialmente una macchina per la digestione dal peso di 75 Kg massimi, capace di trarre sostanze nutritive da qualsiasi erba, foglia o arbusto dell’ambito rurale, causando non pochi grattacapi a chiunque potesse ritenere di fare un utilizzo alternativo del territorio. Il che non avrebbe impedito, dall’inizio del secolo scorso ed a seguire, l’esportazione di una certa quantità di esemplari verso territori geograficamente distanti, ignorando o sottovalutando l’effetto che ciò avrebbe avuto sugli ecosistemi locali. Siamo qui di fronte, dopo tutto, al raro esempio di una creatura giudicata vulnerabile nelle sue regioni endemiche ed al tempo stesso invasiva altrove. Quanto spesso capita, a tal proposito, di un animale indicizzato dallo IUCN e sottoposto all’eliminazione sistematica di svariate migliaia di esemplari ogni anno, nel singolo paese della Nuova Zelanda? Non che tale attività con la sanzione del governo sia stata implementata senza una quantità spropositata di proteste, da parte di tutti coloro che sull’invasione del caprone asiatico sembrerebbero aver costruito un’industria redditizia e fiorente…
Storie dal paese in cui le antilopi mangiano rane. E hanno le strisce come una zebra
In un aneddoto frequentemente ripetuto fuori dal suo contesto, durante un convegno di criptozoologia uno dei partecipanti mostrò ai colleghi il suo reperto di maggior pregio: una pelle perfettamente conservata, del tutto integra, dell’estinta tigre tasmaniana. Soltanto alcuni tra i presenti, sospettando la verità, sollevarono la questione della cruciale somiglianza del manto di tale animale con un altro essere dell’emisfero meridionale. Anch’esso onnivoro, dalla dimensione simile a quella di un cane di taglia media, dotato di un intelligenza vivace ed aspetti del suo comportamento ad oggi relativamente ignoti. Ma dal canto suo appartenente, senza nessun tipo di ambiguità possibile, al ramo africano della grande famiglia dei bovini, da cui il possesso di uno stomaco capace di digerire le fibre vegetali, sebbene su una scala e con una varietà minore rispetto alle mucche a cui siamo abituati a pensare. Al punto da trovarsi classificato in base allo schema di Hoffman come un ruminante selettivo concentrato, ovvero in grado di specializzarsi unicamente nel consumo di particolari foglie, frutti e semi. Ma poiché il duiker, un membro più o meno zebrato del genere Cephalophus, raramente supera i 45 cm di altezza, esso è frequentemente incapace di raggiungere anche i rami più bassi del fitto sottobosco in cui tende a trascorrere le sue giornate. Il che non gli lascia altra possibilità che integrare la sua dieta con gli altri esseri viventi che riesce a catturare e trangugiare in un sol boccone: insetti, piccoli mammiferi, roditori, lucertoli e l’occasionale anfibio degli stagni boschivi. Per non parlare della leggenda, diffusa all’epoca della sua scoperta e classificazione all’inizio del XIX secolo, secondo cui fosse capace di soffiare dentro il guscio delle tartarughe, spingendole fuori al fine di fagocitarle. Un’immagine piuttosto crudele ed a tutti gli effetti priva di prove concrete, ancorché relativamente appropriata nel comprendere esattamente innanzi a quale tipo di animale ci troviamo davanti: una creatura scaltra, all’erta, agile e non priva di un certo grado d’ingegno. In tutte le sue accezioni e colorazioni inclusa quella originaria della Liberia e Costa d’Avorio, di cui potete osservare una fotografia poco sopra. Mentre i video, su Internet, risultano essere piuttosto rari probabilmente a causa del carattere schivo ed elusivo dell’animale, ampiamente giustificato dalla quantità di esemplari uccisi in modo non sostenibile, persino oggi, nell’acquisizione della cosiddetta bush meat, importante risorsa gastronomica per le genti indigene dell’Africa Occidentale. Il che ci lascia in grado di ammirare, per lo meno nella situazione attuale, questi mammiferi euteri principalmente negli zoo, dove l’ultimo programma riproduttivo relativamente alla varietà dotata di strisce è stato abbandonato, a Los Angeles, verso la metà degli anni ’70. Osservate, dunque, una vera rarità tra gli artiodattili dei nostri giorni…
L’approdo sìculo della formica di fuoco: cosa implica l’avvistamento della Solenopsis in Europa
Dal motto di un Impero alla definizione scientifica d’un gruppo d’imenotteri, invictus è quel termine latino che assicura, nella sussistenza di qualsiasi fattore contestuale, che una cosa o un gruppo non possono essere sconfitti, neppure dal passaggio di quel vento entropico che siamo soliti chiamare “passaggio del tempo”. Così l’essenza del Senato e Popolo Romano, anche dopo la sua divisione ed il collasso che ne avrebbe avuto origine, non fu mai davvero superato, resistendo ai secoli come concetto sovranazionale, reso tangibile dalla monumentale quantità di resti materiali, eredità linguistiche, ancestrali discipline. Eppure non dovremmo tralasciare come, tra coloro che crearono tale aggettivo e il popolo d’insetti che lo ha ereditato, furono i secondi a oltrepassare indenni le generazioni. Comparendo ancora oggi presso il novero degli atlanti dell’ecologia vigente, più potenti e prolifiche che mai. La RIFA: Red Imported Fire Ant o Solenopsis invicta può dunque presentarsi come una delle specie del regno animale di maggior successo al mondo. Se tale traguardo è veramente degno di esser misurato dalla quantità di luoghi dominati dalla sua incrollabile ed irriducibile presenza. Resistente, adattabile, indefessa. Capace di raggiungere gli estremi recessi dei continenti trasportata dagli uomini del tutto inconsapevoli, dal vento, persino dalle correnti. Grazie alla sua capacità di unirsi collettivamente nella formazione di zattere del tutto inaffondabili, destinate a resistere per giorni se non settimane intere. Come la grande arca del profetico Noé, che tanti millenni fa giunse presso le pendici del monte al-Ǧūdī, ad est del Tigri. Mentre queste distanti e zampettanti eredi, guidate dall’istinto ed il bisogno di acquisire nuovi territori, avrebbero un giorno percepito di aver messo piede nella terra promessa di un diverso tipo di appartenenza. E da quel giorno avremmo avuto anche noi, le formiche di fuoco.
Lo studio pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Current Biology, uno sforzo cooperativo dell’Istituto di Biologia Evoluzionistica di Barcellona e le Università di Parma e di Catania, è di quelli che tendono a venire interpretati dalla stampa e gli altri media con terminologia allarmante. Poiché non sottolinea un’incipiente progressione o lieve trend peggiorativo, bensì uno stato dei fatti che si è già concretizzato ormai da diversi anni, tra l’indifferenza o l’incapacità di farne chiara l’evidenza prima di questo illuminato momento. 88 nidi dalle dimensioni significative contati nel corso dell’inverno tra il 2022 e il 2023 sono effettivamente troppi, di gran lunga, perché sia possibile tornare indietro. Il che ci lascia due possibili sentieri a partire dal momento attuale: una dura e intransigente repressione, con pesticidi spesso in grado di arrecare danni significativi all’ambiente. Oppure venire a patti con l’ulteriore, problematica realtà dei giorni a venire…



