È una qualità tipica delle leggende metropolitane, quella di riuscire a prescindere dall’attribuzione precisa di un momento ed un luogo. In alcune versioni di questa storia, i protagonisti sono una coppia di erpetofili americani, che avevano adottato un’anaconda nel caldo e accogliente stato della Florida. In altre, si tratta della disavventura vissuta da un ricco imprenditore indiano, che per accrescere il suo prestigio aveva scelto di accogliere in casa sua un pitone… Piuttosto grande. Diciamo, tra i 5 e i 6 metri di lunghezza. Ebbene indipendentemente dalla specie o paese di appartenenza, il racconto prosegue descrivendo il fenomenale appetito della creatura, cresciuta sin dalla sua giovane età nutrendola con degli esseri che corrispondessero al suo diametro maggiore: dapprima topi, quindi, polli e conigli man mano che cresceva, per giungere quindi ai maiali ed alla fine, almeno una volta ogni tanto, delle luculliane carcasse di cervo surgelate. Così che, ogni qualvolta uno dei proprietari apriva il terrario illuminato per accarezzare il proprio scaglioso amico, era il caso di frapporre un oggetto di qualche tipo tra esso e la mano umana, affinché nel suo vorace entusiasmo non finisse per mordere proprio l’unica persona che riusciva a riconoscere ed a suo modo, ad amare. Tutto ciò finché un giorno, all’improvviso, la bestia smise all’improvviso di mangiare. Completamente, per giorni che ben presto diventano settimane. Preoccupato per il benessere del suo serpente, il padrone decide quindi di trascorrere più tempo con lui, ed aperta la gabbia trasparente inizia a trascinarlo con se a fare il bagno, in giardino, persino sul letto matrimoniale di casa sua. Quest’ultima prassi, in particolare, sembra rassicurare il grosso rettile che sul morbido materasso, diventa completamente calmo, immobile e sembra distendersi a lato del suo padrone, mostrandosi totalmente timido e più che mai mansueto. Ed è a questo punto che nello svolgersi del mito, entra a pieno titolo il personaggio del salvatore: si tratta di un veterinario abituato alle visite a domicilio, contattato tempo prima dai padroni dell’anaconda o pitone, il quale telefona a tarda sera direttamente a casa del suo cliente: “Dove si trova adesso [REDACTED] e cosa sta facendo? Allontanatevi immediatamente, ripeto, lascia subito la stessa stanza in cui si trova il serpente. Stamane ho finalmente avuto modo di conversare con un esperto, ed ho scoperto l’origine del vostro problema: il rettile non ha perso l’appetito. Lui ha soltanto rinunciato temporaneamente al cibo, per prepararsi ad un pasto PARTICOLARMENTE grande. Hai misurato di recente il diametro raggiunto da [REDACTED]? Perché posso garantirti una cosa: ogni qual volta saliva sul letto, lui stava misurando il TUO. Questa creatura, questa selvatica, preistorica, gigantesca creatura, è probabilmente ormai pronta ad avvolgere le sue spire attorno ad un essere umano. Credo che a questo punto, avrai compreso di chi si tratta…”
Un’altra caratteristica di simili storie, almeno quelle migliori, è che esse contengono una certa percentuale di fantasia, ed un’altra di verità. È ad esempio del tutto privo di base logica che un grosso serpente costrittore, per quanto possa trattarsi di creature dotate di una certa subdola intelligenza, sia in grado di “misurare” l’ampiezza o lunghezza del suo pasto, né di fare scelte in merito all’alimentazione sulla base di grossi banchetti futuri. Come tutti i predatori del mondo animale, è assai più probabile che l’anaconda o il pitone colga l’occasione nel momento stesso in cui percepisce che gli si trova innanzi. E se successivamente non dovesse riuscire a digerire un boccone troppo grande, potrà semplicemente provvedere a rigurgitarlo. Risulta invece ampiamente possibile, per non dire acclarato, che un serpente di questo tipo uccida e riesca fagocitare un essere umano. Diversamente da quanto si afferma generalmente sugli squali, per i quali un mammifero molto più piccolo di una foca e pieno di ossa costituisce un pasto assai poco soddisfacente, nel caso del mega-rettile possiamo tranquillamente affermare che un uomo o donna adulti corrispondano perfettamente ad una tavola imbandita in un pregevole ristorante. Nel caso dell’anaconda verde (Eunectes murinus) ad esempio, chiamata nel Sudamerica serpiente mata-toro (uccisore di tori) esistono plurime testimonianze di esseri umani attaccati e secondo alcune fonti, persino uccisi dall’animale. Spesso si trattava di situazioni in cui il serpente, per qualche motivo, si era sentito minacciato, inducendo in lui il riflesso automatico di balzare addosso all’umano, avvolgendovi attorno le sue spire e impedendo la circolazione del sangue, fino alla morte (contrariamente all’opinione comune, questi serpenti non uccidono per asfissia). Gesto a seguito del quale, inevitabilmente, hanno provato a fagocitare la propria vittima più o meno accidentale. Non si hanno notizie invece di anaconda domestiche che abbiano attaccato il proprietario, benché ciò possa essere attribuito alla comprensibile rarità con cui un serpente dal peso medio di 50-70 Kg venga accolto all’interno di un’abitazione. Anche se, come potete osservare nel video di apertura girato dall’Università di Guadalajara per le scienze biologiche ed agricole, a casa di una donna amante dei rettili che resta purtroppo priva di un nome da ricercare, si tratti di una casistica tutt’altro che inaudita. Ed è palese, osservando la signora bionda col suo adorabile beniamino, che abbraccia ed accarezza sopra i cuscini del divano, lo stato pacifico e quasi sonnolento di un simile animale per lo più acquatico, il quale tirato fuori dal suo ambiente naturale, accetta di buon grado l’offerta di cibo periodica e le pacate moine. Diverso può essere invece il caso, a quanto è stato precedentemente chiarito da alcuni spiacevoli fatti di cronaca, delle creature appartenenti alla famiglia dei Pythonidae, suddivisi in 8 generi e 31 specie diverse. Tra cui le più grandi, notoriamente, vengono considerate “addomesticabili”. Almeno, da alcuni dei coraggiosi sostenitori di questo particolare segmento di mercato…
allevamento
Questo gatto non è un lupo mannaro
Che cosa ha molto pelo alla nascita, poco pelo una volta raggiunta l’età adulta, e di nuovo un folto manto color roano per tutto il corso della propria vecchiaia? Orecchie morbide e flosce. Piedi lunghi e talvolta, palmati. Con un muso parzialmente glabro in grado d’incrementare, con la giusta luce, l’impressione della profondità. Di sicuro, non è uno Sphynx. Il nobile e famoso gatto anallergico, la cui caratteristica principale è la presenza di un gene che impedisce la keratinizzazione, prevenendo di fatto il funzionamento dei follicoli e producendo di fatto un animale del tutto glabro. E neanche un topo-lupo-gatto-creatura-misteriosa, come sembrano voler affermare innumerevoli testate di curiosità, articoli semi-seri o disquisizioni relativamente disinformate sui principali hub memetici del web. Bensì un gatto vero, celebre per la sua intelligenza e l’indole giocosa ma possessiva, stranamente simile a quella di molte tipologie di cani. E a partire dal maggio del 2017, una razza effettivamente riconosciuta dal TICA (l’Associazione Nazionale Felini) qualificata per questo a competere nei concorsi di fama internazionale, a patto di possedere l’appropriato pool di caratteristiche, conformi a quelle della stirpe originaria. Un importante punto di distinzione, quest’ultimo, poiché il termine identificativo Lykoi (parola greca per il termine “lupo”) sembra essere usato ad oggi dagli amanti dei gatti in due contesti simili ma diversi: uno è l’esemplare, di qualsiasi aspetto, forma o dimensione, caratterizzato dall’assenza topica di sottopelo e che piuttosto che seguire una muta stagionale, sembra perderlo e riguadagnarlo durante fasi diverse della propria esistenza. L’altro è la discendenza dell’incrocio creato a partire da due specifiche cucciolate di quelli che vengono convenzionalmente definiti Domestic Shorthair, ovvero gatti privi di pedigree, venute entrambe in possesso della coppia di allevatori Johnny e Brittney Gobble nello stato del Tennessee durante il mese di luglio dell’anno 2010, con la collaborazione di Patti Thomas. Che contribuì a trovare un nome per quella particolare collezione di geni che tutte le personalità citate, pressoché subito, ritennero meritasse di essere preservata.
Nonostante l’opinione del pubblico. Contro le aspettative del senso comune. Il problema affrontato spesso dagli allevatori è che essi vengono ritenuti, fin troppo spesso, completamente responsabili delle loro supposte “creazioni” come se essi, lavorando in una sorta di laboratorio del Dr. Frankenstein, s’industriassero per garantirsi i maggiori e più proficui presupposti di guadagno. Una concezione questa che sembra trovare la massima espressione nella corrente di pensiero, assai popolare al giorno d’oggi, secondo cui l’unico modo legittimo di procurarsi un animale domestico sia sceglierlo presso un canile, sulla base della propria preferenza estetica o senso d’altruismo innato. Il che in effetti, non può che generare alcuni significativi problemi: perché chi mai adotterebbe un gatto o una gatta che pur godendo di ottima salute, al primo, secondo e terzo sguardo sembrano effettivamente malati di rogna? Proprio questa potrebbe essere la domanda che si posero i Gobble all’epoca, o forse si trattò semplicemente dell’occhio esperto di due sinceri amanti degli animali, che seppero intravedere nei loro nuovi beniamini un diverso tipo di bellezza, del tipo che molti dei cosiddetti benpensanti sarebbero stati pronti a giudicare in tutt’altro modo. Di certo, i cinque capostipiti elencati sul sito ufficiale Silver Lining Wolfie, Ray of Hope, Hillbilly Moonshine, Eve Havah e Opossum Roadkill (mai nome fu maggiormente carico di sottintesi) non assomigliavano ad alcun altro gatto che fosse stato fotografato o mostrato con orgoglio prima di allora, risultando piuttosto conformi ad un certo tipo di stereotipo, che potremmo avvicinare, come vuole la convenzione, all’interpretazione cinematografica classica dell’uomo lupo.
Una creatura sovrannaturale e composita, imprevedibile, soggetta alla furia trasformativa, nonché sanguinaria, della luna piena. Lo sterminatore di cacciatori impreparati, indipendentemente dalla quantità di munizioni argentee che questi ultimi abbiano portato con se all’avventura. Non proprio il tipo di suggestioni considerate desiderabili in un gatto, se è vero che ancora esistono persone che cambiano strada, qualora un felino di colore nero dovesse azzardargli a transitargli davanti in senso perpendicolare alla marcia. Eppure non è forse vero che qualsiasi animale, indipendentemente dal suo aspetto o caratteristiche ereditarie, dovrebbe avere diritto a una seconda possibilità? E chi ha detto che il brutto anatroccolo debba necessariamente diventare un cigno, per assumere un ruolo di primo piano tra il consorzio più o meno pennuto del vasto stagno attraverso il procedere delle Ere…
L’inaspettata indole guerriera del tapiro della Malesia
Per la terza volta, il piccolo Ryusei gridò all’indirizzo della sua finestra “Oh potente Baku-san, scaturisci dalle tenebre e divora il mio incubo!” Come trascinato dalla strana forza che appartiene alle regioni esterne del dormiveglia, il bambino si alzò quindi a metà dal letto, con gli occhi spalancati dal terrore: mostri indefiniti circondavano la sua coscienza, ai margini di un campo visivo immaginario generato dalla somma totale delle esperienze spiacevoli di una giornata. Mentre lui, impreparato al centro di un’aula fiammeggiante, doveva ripetere la lezione delle vacanze alla maestra di storia inviperita. Fu in quel preciso attimo che un suono roboante sembrò penetrare dallo spazio tra gli stipiti e la persiana, erroneamente chiusa in questo inizio settembre ancora caldo quanto i mesi più torridi dell’estate. Quindi un’ampia e cupa forma iniziò a penetrare attraverso la materia solida, avvolta da una luce azzurrina sovrannaturale. Aveva un’enorme testa simile a quella di un maiale, col corpo di orso, occhi da rinoceronte e zampe di tigre, mentre il pelo ispido ed irsuto pareva assomigliare a quello di una capra. Mano a mano che l’imponente creatura penetrava all’interno della piccola stanza, l’angoscia pareva in qualche modo attenuarsi. Ryusei comprese allora che non avrebbe potuto muoversi di un solo millimetro, semplicemente perché, suo malgrado, stava ancora dormendo. A quel punto un’arto a forma di tubo parve muoversi ai margini della sagoma che non riusciva totalmente a definire. “Accidenti!” Sarebbe stata l’esclamazione del bambino, se soltanto la sua lingua avesse potuto muoversi: “Che lunga proboscide che hai, Baku-san.” È per succhiare meglio, avrebbe risposto lui. Mentre l’appendice aliena si estendeva con un movimento indefinibile, ricoprendogli la faccia di amorevole calore e un bicchiere abbondante d’umida saliva…
Non è davvero chiaro, persino per gli storici più informati, in quali esatte circostanze la civiltà giapponese dell’epoca Muromachi (XIV-XV secolo) abbia avuto modo di entrare in contatto con una creatura tipica delle foreste pluviali e distante geograficamente come il tapiro, usata come ispirazione estetica per uno dei suoi yōkai (mostri notturni) più popolari nel mondo dell’immaginario moderno non-del-tutto-globalizzato: Baku il divoratore di sogni. Sappiamo tuttavia almeno per inferenza, che la specie in questione doveva necessariamente essere il Tapirus Indicus o tapiro dalla gualdrappa, anche detto “della Malesia” in funzione del suo paese di provenienza. La ragione di ciò è da ricercarsi nella stessa distribuzione delle cinque specie rimaste di questa antichissima creatura, quattro delle quali si trovano nelle giungle del continente agli antipodi dell’America Meridionale. Eppure nessuno, nel catalogare le caratteristiche estremamente distintive della versione asiatica, potrebbe mai dubitare della sua appartenenza allo stesso ramo dell’albero della vita, con una quasi assoluta corrispondenza di ciclo vitale, caratteristiche fisiche e abitudini comportamentali. Inclusa un’innata e spesso sottovalutata propensione, nel caso in cui venga minacciato dai suoi nemici naturali della tigre, il leopardo o il giaguaro, a difendersi strenuamente con la sua forza simile a quella di un cinghiale dal peso di 300-500 Kg, assieme a denti seghettati che normalmente, non avrebbero ragione di trovarsi nella bocca di un “pacifico” divoratore quotidiano di verdura. Tanto che, data la sua predisposizione territoriale paragonabile a quella di un ippopotamo, più di una madre tapiro col cucciolo si è dimostrata capace d’infliggere ferite piuttosto gravi ai malcapitati umani che transitavano da quelle parti, benché fortunatamente, nessuno abbia ancora riportato le conseguenze finali. Esiste almeno un resoconto straordinariamente vivido, tuttavia, che non può fare a meno di lasciare un senso d’ansia latente e timore nell’angolo più remoto dei propri pensieri…
Il gusto e il pelo senza pari della pecora-maiale
1843: difficile dimenticare quella volta in cui la macchina del tempo, scoppiettando e cigolando ancora più di quanto faccia normalmente, ha esaurito all’improvviso il carburante, andando ad impattare clamorosamente in mezzo ai colli ungheresi del Burgenland, un giorno destinati a fare parte del territorio dell’Austria ma a quel tempo facenti parte del territorio di Giuseppe Augusto d’Asburgo-Lorena. Lontano, per fortuna, da Dio e dal mondo, eppur non abbastanza perché un pastore di passaggio, sulla strada sottostante, rivolgesse per un attimo lo sguardo verso l’alto, incuriosito dal rumore totalmente inaspettato. Il che ci costrinse, come da prassi comportamentale del dipartimento, a scendere rapidamente a valle, cannone spara-memoria in spalla, nella speranza di riuscire a ritrovarlo in tempo prima che il suo racconto di seconda mano, spontaneamente trasferito agli abitanti del villaggio, andasse a sovrascrivere gli eventi generazionali. E la maniera in cui, una volta che arrivammo a un centinaio di metri di distanza, ohibò, il gregge iniziò a prendere una forma più evidente. Circa 3 dozzine di bestioni tondeggianti, il corpo tozzo e le zampe ungulate, la testa a punta e un gran paio d’orecchie a ricoprirne il profilo. Tanto che ricordo molto bene di averti detto: “Ma che strani… Ovini.” Fin quando una simile comitiva, disturbata dall’arrivo di noialtri, non emise in tono di baritono perfettamente coordinato, quello che poteva essere descritto unicamente come un tonante, interminabile grugnito. Fu allora che il pastore si volto di scatto, sollevando il suo bastone che era in realtà un archibugio per proteggersi dai lupi. E le cose iniziarono, d’un tratto, a farsi orribilmente complicate…
Fedele, scaltro, attento, intelligente addirittura più di un cane. In grado di scovare anacronistici visitatori. Il Mangalitsa, o Mangalica, o Mangalitza, è la razza di suino concepita per la prima volta in via specifica allo scopo di nutrire la famiglia reale del Palatinato d’Ungheria, poi diffusosi a tutte le classi sociali, per le sue caratteristiche considerate di gran pregio, e infine (temporaneamente?) allontanato, dal corso dell’allevamento e degli eventi, relegato ad una semplice curiosità o talvolta, un gradevole ma impegnativo animale di compagnia. Il che, come è noto, per le razze suine equivale ad un decreto d’estinzione, poiché molto poche sono le persone disposte ad accudire, nutrendola, una bestia che a 13-14 mesi raggiunge il peso di 180 Kg. Problema di questo maiale, caratterizzato da un pelo ispido e riccio che ricorda vagamente quello della pecora, è il suo appartenere alla categoria oggi dimenticata degli animali cosiddetti “da lardo”. Quella sostanza che, prima della raffinazione degli oli vegetali, trovava una collocazione fondamentale quasi ovunque dentro le case: candele, sapone, cosmetici, o persino nei lubrificanti industriali e negli esplosivi… Per non parlare dell’uso, pressoché irrinunciabile, nell’attività essenziale della buona cucina. Prima che la cognizione moderna, assieme alla tendenza naturale degli esseri umani ad esagerare, non relegò il grasso animale ad una sorta di purgatorio gastronomico, consigliato solamente ai più spericolati e obesi degli individui, tra quelli non-vegetariani e non-vegani. Finché il moderno Rinascimento della cultura del cibo, unito a una rivalutazione scientifica dei dati acquisiti, non hanno permesso di comprendere che la parte più saporita del porco costituiva allo stesso tempo la più naturale delle sostanze contenute in esso, non necessariamente nociva per la salute delle nostre arterie, soprattutto se inserita in una dieta che avesse per lo meno un briciolo di senso. Finché adesso, fortunatamente, in tutto l’Est Europa e per importazione pregressa nei soliti Stati Uniti (patria di tutto ciò che è carne) una nuova ondata di allevamenti ha portato alla rinascita e la diffusione di questa razza, relegata fin quasi all’estinzione a seguito della seconda guerra mondiale. Ma siamo decisamente ben lontani dalla diffusione estrema della metà del XIX secolo, quando uno straniero giunto entro una certa quantità di chilometri da Vienna avrebbe anche potuto convincersi che i maiali a pelo corto fossero letteralmente sconosciuti, da quelle parti, o che le pecore avessero un aspetto (e un verso) dannatamente strani. La principale fortuna del Mangalitsa, invece, a quanto pare ha un’identità straordinariamente precisa ed un nome e cognome, Peter Toth…