Un’altra vittima del cactus più veloce del West

Teddy Bear Cholla

Non è che la natura lo faccia di proposito, sia chiaro. E qui nemmeno siamo di fronte a una temuta situazione del tipo “Chi estrarrà la spina dalla gamba, sarà re di Inghilterra.” In primo luogo, perché di punte all’interno del malcapitato arto ce ne saranno almeno una dozzina lunghe (visibili) più altrettante piccole (invisibili) destinate a infliggere dolore nei momenti maggiormente inaspettati al proprietario, per settimane oppure addirittura mesi. E poi del resto, qui non ci troviamo di certo nella fredda terra di re Artù, in prossimità del cupo Settentrione. Ma verso la metà assolata di quell’altro continente, stretto e lungo, che si estende da un polo del Pianeta fin quasi all’altro, attraverso un tripudio di paesaggi che chiamare mutevoli, oppure variegati, sarebbe estremamente riduttivo. Non tutti egualmente ospitali, eppure ciascuno innegabilmente perfetto, dal punto di vista dell’evoluzione degli organismi che si sono adattati a viverci attraverso le generazioni. Così capita al turista, un giovane venuto in Arizona fin dall’umido e remoto Michigan, di appropinquarsi con fare scherzoso e farsesco ad una pianta di Cylindropuntia bigelovii, quella che i nativi chiamano, con sardonico sense-of-humour dovuto al suo aspetto falsamente morbido e grazioso, la Cholla Orsacchiotto di Peluche. Quasi come non fosse la singola esistenza vegetale più odiata dell’intera area geografica che si estende dal Sud-ovest degli Stati Uniti al Messico del Nord, ivi incluso il vasto deserto del Colorado e di Sonora, quello del Nevada e la sottile penisola della Baja California. La ragione del cui sentimento appare più che mai giustificata, dalle successive tragiche tribolazioni: il ragazzo infatti non sapeva, o in quel momento non ricordava, della problematica abitudine di questo vegetale a perdere letteralmente i pezzi, un po’ come fossero foglie d’albero in autunno. Ma a differenza di quelle altre cose, per l’intero corso dell’anno, e con lo scopo ben preciso di attaccarsi a tutto ciò che gli capita a tiro con le loro acuminate spine. Così egli ne calpesta uno con i sandali aperti, soltanto per ritrovarsi quest’oggetto impossibile da toccare saldamente attaccato alla suola dell’impropria calzatura… Che cosa avrebbe potuto fare? Se non dare un gran calcio, nel tentativo di far volare via lontano l’orribile granata vegetale. Lancio che prontamente si verifica secondo il progetto, ma orribilmente, inaspettatamente, proprio all’indirizzo di un suo compagno di viaggi rimasto fino a quel momento fuori dell’inquadratura, colpendolo all’altezza della caviglia sinistra.
Ora, se l’amico fosse stato dotato di blue jeans piuttosto spessi, o pesanti pantaloni da lavoro, forse gli sarebbe andata pure bene. Come del resto, se soltanto si fosse trovato un po’ più in la. Se, se… Ma naturalmente, qui non siamo in clima adatto a un abbigliamento invernale, e lui non poteva fare a meno di assistere ai vezzi proto-naturalistici del compare. O almeno così sembra. Fatto sta che il pezzo di pianta, conclusa la sua parabola, non soltanto perfora la gamba dell’indumento, ma anche quella del proprietario. E lì rimane, allegramente conficcato. Assurdo. Un attimo di panico. L’involontario responsabile, colto da un improvviso moto d’empatia e dispiacere, corre per assistere la vittima saltellante ed in preda alle imprecazioni, ritrovandosi quasi immediatamente un certo numero di spine nelle dita della propria mano. Il ragazzo appare sempre più sofferente e dispiaciuto, ed arriva ad esclamare per assurdo: “Ok, ok, più tardi potrai lanciarmi anche tu un cactus [e saremo pari!]” mentre ancora tenta faticosamente di rimuovere il crudele corpo estraneo. Operazione che finalmente riesce, grazie ad un provvidenziale tubo dell’acqua, che liberato il tutt’uno creato dal proiettile, permette di tirare su la gamba del pantalone, per assistere finalmente al…Disastro completo. La gamba è ridotta alla stregua del peggior puntaspilli immaginabile, con già sangue, gonfiore e irritazione a profusione. Ciò che inevitabilmente viene dopo, quindi, è la complessa fase di estrazione degli aculei vegetali. Una missione in se e per se particolarmente gravosa, a causa di certe speciali caratteristiche della pianta…

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Le tre flotte fantasma sui confini degli Stati Uniti

Suisun Bay

Mentre il vento della guerra soffia e infuria la tempesta, i pollini del desiderio e dell’ingegno imperversano sui mari della Terra. Sono fatti di metallo, plastica fibra di vetro. Plutonio, tritolo e petrolio; dove attecchiscono, nascono le navi. Incommensurabili e possenti, oppure rapide, agili e scaltre: gli strumenti dell’umanità in guerra sono tutto, tranne che uguali a loro stessi. E persino la prototipica capacità di variare delle cose naturali, al loro confronto, impallidisce nella sua essenza. Perché in quell’altro luogo, in cui vige il passo dell’evoluzione, tutto è costruito sulla base di una logica, che sopra ad ogni cosa aborrisce gli sprechi. Laddove le nazioni, fallibili quanto coloro che le costruiscono e sostengono, talvolta operano in forza del “Se puoi farlo, fallo. L’utilità? La troveremo. Altrimenti…” Sopraggiunge l’abbandono, inevitabile, tragico e indesiderato. A tal punto che non c’è mai stato, nella storia militare degli Stati Uniti, un momento in cui qualcuno ha detto: abbiamo troppo di QUESTA particolare cosa. E tanto meno ciò è avvenuto nell’ambito della marina, dove c’è un intero ente, il MARAD (United States Maritime Administration) che tra le sue molte mansioni, annovera il custodire e mantenere semi-operativo l’intero catalogo in arretrato degli scafi-surplus della sua nazione. Un proposito operativo non esattamente semplice, quando si considerano gli impressionanti costi implicati dall’operazione ed un budget che, per quanto tutt’altro che insignificante, non può fare a meno di essere influenzato dalle fisime della finanza odierna. Ma sopratutto, così terribilmente, mostruosamente ingombrante…
Al momento culmine della sua storia verso la metà degli anni ’50, la Flotta Nazionale di Riserva (NDRF) contava ben 2.277 navi, ripartite tra otto distinti siti di ancoraggio: Astoria, Oregon; Stony Point, New York; Wilmington, North Carolina; Mobile, Alabama; Olympia, Washington; James River, Virginia; Beaumont, Texas e Suisun Bay, California. Le navi ivi custodite, ancora dotate di una certa patina residua d’utilizzabilità, furono impiegate in diversi significativi casi, con il ruolo di trasporti di approvvigionamento, oppure per le truppe stesse da inviare al fronte, in Corea e Vietnam. Oltre a servire da risorsa ipotetica, da utilizzare in caso dello scoppio di una nuova guerra mondiale, furono inoltre tenute presenti, e qualche volta schierate, in diversi momenti di crisi del commercio internazionale. Ma col trascorrere degli anni, gli effetti dell’erosione atmosferica, dell’acqua salata e della ruggine hanno intaccato l’antica patina di splendore e funzionalità, lasciando solamente il guscio e l’apparenza di quello che un tempo era stato tanto formidabile. Oggi sopravvivono soltanto tre degli antichi siti: James River, Beaumont e Suisun Bay. In buona parte, sono diventati dei veri e propri cimiteri sul mare.
Il termine tecnico è mothballed fleet – flotta (messa) sotto naftalina. Una metafora in realtà tutt’altro che calzante, visto come la strutturale risultanza della nostra ingegneria navale non possa, purtroppo, essere tratta in salvo alla maniera dell’abbigliamento, venendo chiusa dietro le ante di un sicuro armadio. Ma purtroppo sia costretta, per la sua imponenza e attraverso il corso dell’intera vita operativa e pensionamento, a giacere nell’equivalenza di un lenzuolo, attaccato a un filo del bucato e poi lasciato a sventolare, tra le alte e basse pressioni di mesi, anni, generazioni. I risultati, purtroppo, sono difficili da trascurare. In particolare il punto d’approdo più famoso, che si trova a poca distanza dalla città di San Francisco, in prossimità del delta risultante dalla confluenza dei fiumi Sacramento e San Joaquin, offre uno spettacolo impressionante e senza eguali nel mondo, con le poche navi residue ancora saldamente ancorate al fondale basso della baia, a perenne monito di chi comprende a pieno l’ardua verità: non c’è niente, senza tempo. Tranne il tempo stesso. E quegli svettanti pennoni d’altri tempi (in realtà ben più prosaiche e moderne antenne) svaniscono nella nebbia, all’orizzonte…

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