Fluttuando nella foto tridimensionale più grande del mondo

Floating in the Milky Way

Il concetto stesso del grande vuoto è sempre stato particolarmente inafferrabile, ai filosofi di tutte le epoche, perché in effetti non esiste. Manca nei deserti tropicali, che un tempo si ritenevano privi di vita, in cui prosperano i rettili e gli uccelli più diversi. Ci elude nell’oscurità dei mari più profondi, dove rane pescatrici cacciano seguendo i tiepidi lucòri di lanterna. Se chiudiamo gli occhi, persino allora, il buio è disturbato dai lampi ed i bagliori delle fotopsie, per non citare le visioni immaginifiche spontaneamente generate dalla mente senza stimoli ulteriori. Finché non si iniziò a puntare i telescopi verso il cielo, spronati da pericolose idee, ritrovando in certe zone solamente il nulla più totale: “Certamente” affermò l’astrologo dell’era delle sperimentazioni: “Il cosmo appare fatto di qualche scintilla, una manciata di pianeti. Per il resto è privo di sostanza apparente!” Era tutta una questione di proporzioni. Ma soprattutto, mancava ancòra l’utile tecnologia. Tra il 18 e il 28 dicembre 1995, il telescopio spaziale Hubble punta tutti i suoi strumenti in una piccola regione in prossimità dell’Orsa Maggiore, dove a quanto già sapevamo molto bene, non v’era traccia di stelle fisse a noi visibili con qualsivoglia apparato. Così facendo, cattura tutto: le radiazioni dei raggi cosmici, le tracce dei detriti spaziali. Consuma, in pochi giorni, una parte considerevole del suo prezioso liquido di raffreddamento a base d’elio, avvicinando in modo significativo il giorno del suo esaurimento (sopraggiunto nel 2013). Segue un lungo periodo di disanima dei pixel, durante il quale gli studiosi ripuliscono le ben 342 foto, le adattano, le abbinano tra loro. Ciò che ne deriva, con il nome ufficiale di Hubble Deep Field, è probabilmente la singola immagine più importante nella storia dell’umanità: un quadrato in prevalenza nero, con un angolo a gradoni, ovvvero la solita irregolarità dovuta alla particolare disposizione delle lenti di Hubble, ma in cui campeggiano numerosi corpuscoli biancastri e/o colorati. L’occhio esperto, osservandoli, noterà presto che queste non sono semplice stelle, soprattutto per le forme e i colori troppo differenti tra di loro. Ma un qualcosa di assai più vasto e più lontano, invisibile fino a quell’emozionante giorno: dozzine, centinaia di GALASSIE, ciascuna vasta e variegata quanto la nostra Via Lattea o la vicina Andromeda, con letterali miliardi di stelle, molte delle quali, come stiamo iniziando grazie ai nuovi progressi del rilevamento ottico, circondate da pianeti di ogni tipo. E se in una piccola sezione del cielo notturno apparentemente vuota, che potremmo coprire con il pollice durante una notte d’estate, albergava questa quantità di luoghi pressoché infinita…Come si può dire che la serie di eventi che hanno portato allo sviluppo delle nostre molte civiltà sia in qualche modo unica, irripetibile, speciale! L’unico gesto possibile è continuare a scrutare alla ricerca della verità.
Nell’impresa ci aiuta, con questo suo incredibile video, l’astronomo canadese daveachuk, che negli ultimi anni deve aver avuto l’occasione di lavorare in prima persona, oppure semplicemente assistere i colleghi dotati di prezioso tempo prenotato a loro nome, nell’attività di gestire un altro grande e più moderno telescopio orbitale, il potente Spitzer ST. Dedicato al fisico teorico statunitense Lyman Spitzer e costruito, a differenza del ben più celebre Hubble, per osservare soltanto una sezione dello spettro luminoso ed in particolare quella degli infrarossi, normalmente non visibili dall’occhio umano. Lanciato nel 2003, come ultimo fondamentale pilastro del programma dallo scienziato della NASA Charles Pellerin, che aveva teorizzato 9 anni prima l’esigenza di far lavorare assieme quattro Grandi Osservatori, ovvero oltre ai due citati (rispettivamente per la luce visibile e gli infrarossi) il Compton (1991 – raggi gamma) e quello che sarebbe diventato il Chandra (1999 – raggi X), allo scopo di comporre immagini che potessero dirsi realmente complete di determinate zone o fenomeni distanti. Ma che forse non immaginava, ben prima della fioritura degli strumenti digitali ed informatici dei nostri tempi, il modo in cui qualcuno avrebbe sfruttato simili ricerche per comporre un’espressione significativa d’arte visuale.

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Che fatica! Dal Messico al Canada in una sola camminata

Pacific Coast Trail

Probabilmente l’aspetto più incredibile del Pacific Crest Trail, o Sentiero delle creste del Pacifico, resta la sua semplice esistenza. Ovvero il fatto che non singoli visionari scriteriati, né pochi coraggiosi, ma un’intera sottocultura di avventurieri scelga di percorrerlo ogni anno per l’intera estensione dei suoi 4286 Km, lungo valli, deserti e ripide salite, in un susseguirsi praticamente ininterrotto di magnifici paesaggi e incalcolabile dispendio di acquisita civilizzazione. Si stima che ogni anno un numero variabile tra i 250 e i 300 individui si faccia trasportare fino al punto di partenza ufficiale, presso il confine tra la California e il Messico, per attraversare quindi in rigida sequenza le molte catene montuose di quello stato (Laguna, Santa Rosa, Tehachapi, Sierra Nevada…) E poi imboccare la più significativa parte emersa del cosiddetto Anello di Fuoco del Pacifico, lungo l’intera estensione dell’interminabile Cascade Range, le cui vette dall’origine vulcanica rientrano tra le più celebrate risorse paesaggistiche degli interi Stati Uniti. Attraversando, tra una scalata e l’altra, 25 foreste e 7 parchi nazionali, con un tempo limite perfettamente definito: guai, a percorrere meno di 20 miglia giornaliere di media! Il sopraggiungere della candida neve basterà ad apporre la parola fine sulla spedizione. Non mancano naturalmente gli anti-conformisti, che per aggirare quella problematica scelgono invece di partire in estate dal Parco Manning in Canada, presso il Boundary Monument 78, facendosi strada fino ai deserti erbosi del profondo sud. In entrambi i casi: un’esperienza comparabile, e invero addirittura superiore, a quella della Compagnia dell’Anello tolkeniana, che stando alle stime degli appassionati avrebbe camminato per “appena” 2990 Km, per di più ricorrendo occasionalmente, quando possibile, a cavalli, barche o mistiche aquile senzienti. Ma la motivazione è tutto: tutti quegli hobbit, elfi e nani erano spinti innanzi dal bisogno di fermare il ritorno di un antico male. Mentre invece, cos’è che induce tanti uomini e donne, relativamente conformi ai loro amici e parenti, a lasciare un giorno tutto indietro, per allontanarsi per un tempo approssimativo di 5-6 mesi in mezzo agli orsi e ai puma di montagna? Non è questa una domanda a cui rispondere da un mezzo Oceano di distanza.
Anzi, probabilmente gli unici a cui porla sarebbero loro, linfa vivente in scarpe da trekking del PCT, per cui l’acronimo è un passaggio necessario, come del resto per la maggior parte dei concetti americani: brevità=efficienza, il massimo della convenienza. Tranne che in un caso tipologico, il bisogno di una vera e propria trasformazione, che trascenda la semplice apparenza. Vedi, a supporto dell’idea, questo video-racconto di Mac il Mago, titolare del canale e blog di viaggi Halfway Anywhere, che nel 2013 decise non soltanto d’entrare nel club esclusivo di coloro che possono fregiarsi dell’ideale coccarda frutto di questa epica missione individuale, ma di farlo in modo ben documentato per la collettività, tramite la realizzazione di esattamente tre secondi di riprese per ciascuna giornata di cammino, scelti accuratamente o per il vezzo del momento ed il suo intuito cinematico. Il risultato sono questi sette minuti in cui ci è dato d’osservare il modo in cui varia, dal profondo sud al gelido e remoto settentrione, l’aspetto naturale di questo confine occidentale di uno dei paesi più grandi al mondo, in cui il peso della storia non si avverte tanto nel catalogo di luoghi e eventi appartenenti alla sfera degli umani, quanto piuttosto nel susseguirsi epocale di mutamenti geologici, crescita naturalistica e il contrappeso irrefutabile dell’erosione entropica del mondo. Un semplice click, l’attesa breve per conoscere a sommi capi l’esperienza forse più indimenticabile di un’intera vita, per di più incline a muoversi e spostarsi tra i diversi luoghi significativi della Terra. E comprendere, almeno in parte, la ragione e il nesso della camminata verso…

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L’uomo che comprime le tempeste

Ryan McGinnis

Guardare verso l’alto: un gesto che facciamo tutti i giorni, per una miriade di ragioni, quasi sempre di natura auditiva. Forse si è sentito il distante rombo di un tuono, magari il volo starnazzante di un uccello. È anche possibile che un rombo artificiale, ovvero la combustione di un ettolitro di carburante, stesse facendo da pacere tra il vuoto celeste e la pesante essenza di un velivolo artificiale, l’ennesima gabbia di metallo in grado di sfidare il rischio della gravità. Possibile? La tecnologia degli uomini può fare molte cose. Ma non è invero, nulla… Al confronto dell’energia fenomenologica della natura. Possiamo anche ricevere con vaga preoccupazione, ascoltando la radio e/o la televisione, la notizia di un incipiente fronte di bassa pressione, l’araldo climatico del concetto di paura. Non è difficile, da possibili sassetti sopra il suo percorso, fingere-di-comprendere la pericolosa contingenza di fattori, punto d’origine per due minuti, forse venti di pioggia incontrollabile o venti che sferzano il terreno a una velocità di oltre 25 metri al secondo (circa 100 Km/h, il limite oltre il quale una tempesta viene considerata “seria” dagli enti meteorologici statunitensi). Che vuoi che sia, giuso il ritmo di un’automobile sulle lunghe strisce asfaltate interstatali. Peccato che la massa d’acqua e di vapore che noi definiamo nube, l’alto miraggio di un castello sopra il vuoto, abbia un peso medio stimato di centinaia e centinaia di elefanti, tante tonnellate quante sono le propaggini della sua forma frastagliata. E c’è chi vorrebbe metterla su schermo, sperando che sia resa almeno in parte la maestà di quella cosa! Si può fare (tutto si può fare) però ecco, occorre coltivare approcci tecnici e soluzioniassai particolari.
Questo video è fatto con le riprese in alta definizione ed accelerate di due scenografiche bufere nord-americane, la prima nata attorno a Kearney nello stato medio-occidentale del Nebraska e poi andata a dissolversi presso Grand Island, la seconda concentrata sulla cittadina di Burwell, nella Garfield County dello stesso stato; entrambe verificatosi il 16 giugno del 2014, a una distanza approssimativa di 144 Km l’una dall’altra. Eppure riprese dalle telecamere di una persona sola: Ryan McGinnis, fotografo e cacciatore di tempeste. La sequenza è di fatto un crescendo montato ad arte, in cui l’assembramento di nubi sopra i campi delle Grandi Pianure si sposta alla maniera di un gregge spropositato, poi pare assembrarsi, sul segnale di un cane da pastore invisibile ed immortale, in un’unica massa indistinta, grigia e carica d’umida aspettativa.
Se la storia finisse a questo punto, come tanto di frequente avviene qui da noi in Europa (e per fortuna, aggiungerei) verrebbe da chiedersi perché guidare tanto a lungo, consumare benzina e spazio sui propri hard disk che un tempo sarebbero state pellicole, per uno sguardo grandangolare verso un fenomeno tanto incolore. Ma il Pianeta, seppur uno, non è certo bidimensionale quanto quelli che compaiono sui libri e film di fantascienza. Mondo desertico, mondo ghiacciato? Magma lavico ed oceani sconfinati! Tutto in uno, per chi vive da una parte oppure l’altra dell’azzurro spazio globulare. Quindi è allora, soprattutto, che prende a scatenarsi la furia leggendaria della sconvolgente supercella, l’unione tra un temporale e un mesociclone qui tanto ben rappresentato.

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L’uomo che voleva essere The King of Fighters

KOF Man

Partite a paintball tra le mura diroccate di un trascorso centro commerciale, gare di automobiline impazzite che si rincorrono sparandosi a vicenda noccioline. Storie di cani o gatti trasformati in viaggiatori cosmici dell’ultramondo, in grado di pilotare veicoli, brandire spade fiammeggianti… L’orbita ellittica del globo digitale d’intrattenimento visuale fatto in casa, o per usare un termine internazionale homebrew, evidenzia i limiti del possibile e li abbatte, a più riprese, per il gusto di un minuto appena di follia. Oppure due ma è alquanto raro, vista la durata media d’attenzione di clicca per raggiungerti, poi vola via. Ciò che si ha di fronte, la riduzione perfettamente funzionale di uno spezzone hollywoodiano, non può davvero impedirci di capire la realtà dei presupposti rilevanti: fiamme ortogonali, sbuffi pixelati che si rincorrono sui gesti degli attori, altro non sono che la risultanza di un diverso tipo di divertimento digitale. Non proprio un videogioco a pensarci, non-proprio se capite cosa intendo, almeno nel sublime momento dell’operatività informatica post-produttiva in quanto troppe sono le competenze tecniche che trovano l’applicazione, ma comunque una forma di divertimento virtualizzato, per chi guarda come chi lo/li/ur crea. Il giovane guerriero/videomaker noto come Amazing LP 神奇的老皮 (Shénqí de lǎo pí – Vecchia…Pelle? Magica) alias Jason Xie  la cui formazione pre-professionale resta incerta ma che sembrerebbe avere la sua base a Sydney, in quel d’Australia, ci offre una finestra su quel mondo che trova i cardini da un intero genere ludico, ad oggi presto destinato a sprofondare tra le crepe del nuovo sistema commerciale di settore: il caro, indimenticato picchiaduro bidimensionale, nella specifica eminenza degli eccezionali King of Fighters ’98 e ’99. Qualcuno ancora afferma che in quegli anni, dal punto di vista dell’eredità futura, siano stati maggiormente fertili i terreni dell’alternativa CAPCOM-iana, l’iterazione Alpha della serie di Street Fighter, episodi 2 e 3. Quel qualcuno manca il punto, l’ha sempre mancato ed eccone la prova: quindici anni dopo, dagli avveniristici cataloghi dei video di YouTube, emerge la perfetta sfida tra uomo e la più spietata delle macchine combattenti, il coin-op a gettoni. In un tripudio di colori, calore e emanazioni psichiche da (m)ine del (f)ondo, inclusa la fedele riproposizione poligonale di un Boeing AH-64 Apache, altro mito elicotteristico di quegli anni in cui di guerra si parlava meno, oppure forse in modo maggiormente spensierato. Irresponsabile.
Dal punto di vista delle risorse impiegate, la sostanza del video è chiaramente risultante da un approccio sequenziale: piuttosto che partire con un copione già definito, l’autore/attore/produttore si è procurato in giro su Internet gli asset (elementi grafici) di tutta una serie di prodotti terzi. Tralasciando l’ovvietà degli sprites (personaggi animati) estratti direttamente dai due giochi di due sopra, si nota la presenza di un alto numero di scintille ed altri effetti provenienti, a quanto dicono, da Maple Story, il MMORPG coreano con visuale laterale-da-lontano, tra i pionieri del nuovo modello commerciale di genere basato sulle micro-transazioni. Si nota inoltre la scelta, piuttosto interessante, di sfruttare una location reale che riprende uno dei fondali usati all’epoca in quei videogiochi, in cui lo schermo non era un tramite verso dei mondi a tutto tondo, ma la mera realizzazione animata di un quadro puntinista in 768×576 pixel, almeno qui in Europa. E a noi tanto bastava, per mettere in moto la voglia di premere bottoni alla ricerca della Super-Mossa più spettacolare.

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