L’artista che costruisce i libri più sofisticati al mondo

matthew-reinhart

L’ultimo di Matthew Reinhart è un vero capolavoro di alta tecnologia. Chiuso nel suo involucro altamente trasportabile, dal fattore forma di un grosso tablet con funzioni di e-book 3D, appare sostanzialmente più leggero della concorrenza. Inoltre, risparmio e semplificazione non da poco, può persino fare a meno della custodia! Durante il suo giro di dimostrazione, l’oggetto dimostra tutte le capacità di un processore grafico all’avanguardia: basta aprirlo sulla prima pagina per ottenere una schermata in alta risoluzione con il motto dei Transformers, More Than Meets the Eye. Un grande aereo bianco da combattimento campeggia tra un paesaggio brullo e montano; ma basta tirare la levetta aptica perché…Esso si trasformi. Guardatelo, è Jetfire! Il più veloce degli Autobot. Accanto a lui Bumblebee, il robo-maggiolino inspiegabilmente sostituito da una fiammante auto sportiva dall’epoca dei film di Michael Bay, esegue anch’egli la sua metamorfosi d’ordinanza. L’effetto tridimensionale è talmente convincente che le sue braccia sembrano fuoriuscire dal riquadro della pagina, ed estendersi con entusiasmo verso il cielo. Ma prima di premere NEXT ed inoltrarvi più in profondità nel meccanismo, siate messi a conoscenza della sua dote maggiormente significativa: il pop-up book, mezzo capolavoro semi-dimenticato, non può assolutamente esaurire la batteria. Perché non c’è neanche un grammo di litio al suo interno…
Con l’invenzione del telefonino touch, è finalmente diventato evidente a tutti come l’interfaccia migliore non sia quella più completa o ricca di funzioni, bensì un metodo d’interazione essenzialmente trasparente, che una volta che l’utente si familiarizza, scompare. Tira una levetta per salvare il file. Gira una manovella per convertire la misura imperiale. Trascina l’angolo per voltare pagina. Così le ultime evoluzioni dei due sistemi operativi più popolari al momento, allo stesso modo delle app che ci vengono fatte funzionare, iniziano ad essere valutate anche in funzione della loro capacità di trasformare un gesto nato dall’istinto in pura e semplice reazione, senza richiedere l’effettivo inserimento di parametri o dati. Questa apparente semplificazione in merito delle aspettative funzionali è in realtà la risultanza del bisogno di trovare una diretta corrispondenza tra il mondo fisico e digitale. Che cessa sostanzialmente di esistere, nel caso in cui si resti fermamente posizionati all’interno della sfera tangibile, ovvero fatta di carne (carta) e sangue (inchiostro). Come innumerevoli generazioni, ancora prima che nascessero i nostri terzi trisavoli da parte di padre e madre. Il che significa che nel creare un libro interattivo, non c’è più bisogno di limitarsi a ciò che appare logico dal punto di vista istintivo: l’apertura della pagina diventa come un motore. E quell’energia, se si è davvero abili, può essere impiegata in qualsiasi modo.
Oggi, una simile categoria editoriale viene associata quasi esclusivamente al mondo dei bambini, e forse l’ultima generazione che è riuscita a goderne a pieno si trova da tempo all’università. Persino per loro, assai probabilmente, non costituisce altro che un pensiero a margine, un vago ricordo dell’infanzia del regalo di zie o nonni, appezzato sinceramente per ciò che era, ma poi deposto nella libreria a vantaggio dell’ultima uscita per Gameboy Advance o Amiga CD32 (Ahah!) Il che è purtroppo endemico: per apprezzare realmente una di queste vere e proprie opere d’arte cartacee, occorre non soltanto essere Adulti (mentalmente se non fisicamente) ma prendere atto del’effettiva sapienza tecnica, preparazione e lavoro che c’è dietro ciascun libro davvero degno di questo nome. Un qualcosa che emerge, straordinariamente evidente, da questo breve segmento del canale Sci-Fri sull’opera di uno degli autori più accreditati del momento, due volte vincitore dell’unico premio assegnato annualmente dalla Movable Book Society, intitolato a Lothar Meggendorfer, leggendario illustratore tedesco dell’inizio del ‘900.

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Falegname tenta di segare il legno con la carta, e…

Paper Saw

Sangue, sangue! Se sei fortunato, e la ferita va abbastanza a fondo. Altrimenti segue questa sofferenza che dura nel tempo, per la dannata presenza di alcuni dei nocicettori più efficaci del corpo umano. Chi lavora in ufficio, o usa spesso le stampanti per una qualsiasi ragione pubblica o privata, certamente ben conosce l’immediato rischio che si corre nel momento saliente, in un certo senso addirittura liberatorio, dell’apertura di una nuova risma da 500, 1.000, 1.500 fogli conservati nell’apposito scompartimento. Il suono prodotto dallo scollamento dell’involucro di carta, disgregato grazie all’insistenza d’insistenti polpastrelli, e la candida emersione di quei petali quadrangolari sovrapposti, l’uno più magnifico, e puro, e liscio, e sottilissimo di tutti gli altri. Ma ogni rosa più o meno metaforica, è del tutto inevitabile nel quotidiano, presenta almeno un giro di spine attorno al suo flessuoso stelo. Nel caso della carta, queste finiscono per ricordare una tremenda lama di rasoio; rigido/affilato attrezzo di vendetta, che per puro “caso” si ritrova sul passaggio delle nostre dita, soltanto perché (accidenti!) uno dei fogli sporgeva di mezzo millimetro rispetto agli altri. E così premuto con forza da entrambi i lati, è riuscito ad assumere una rigidità di molto superiore a quella consigliabile durante l’uso. Dote che, assieme all’innata sottigliezza e quindi al grado di pressione per singolo micron, basta e avanza per creare un taglio sul collagene che tiene assieme la pelle delle dita o mani. Con le conseguenze ed il dolore che fin troppo orribilmente conosciamo…
È una questione certamente deleteria, negativa sotto innumerevoli punti di vista. Quasi tutti, tranne uno, che del resto ricompare in molte branche dello scibile, così costituendo il “bordo argenteo” (come dicono gli americani) delle nubi fosche e tempestose all’orizzonte. Sto parlando della dote di certe persone, da sempre così preziose attraverso i secoli, di trasformare la sofferenza pregressa in arte. O come in questo caso, sorprendenti e curiose invenzioni. Lo conoscete? Questo è John Heisz, YouTuber all’apparenza canadese (o almeno così sembra dal suo sito ufficiale, recante l’estensione .ca) noto creativo operante in ogni campo del fai da te, nonché astuto montatore di sequenze video che non sfigurerebbero all’interno di un documentario ingegneristico in Tv. Ultima invenzione: la sega circolare da legno fatta con la carta. Un concetto che si è rivelato già in grado di portargli, in queste giornate di un lungo e lento agosto, quasi 6 milioni e mezzo di visitatori nel momento in cui scrivo, con indubbiamente molti altri in arrivo. E lo credo bene! Perché mostra un’insospettabile correlazione tra due materiali onnipresenti nella nostra civilizzazione, l’uno notoriamente solido e resistente, l’altro flessibile, insostanziale… Con la vittoria, inutile specificarlo, proprio di questo secondo. Altrimenti noi tutti, qui, che cosa ci staremmo a fare?
Si comincia con la creazione di un perfetto disco tracciato su carta, mediante l’impiego di un compasso tecnico piuttosto interessante, quindi ritagliato con mano estremamente ferma ed un paio di passaggi del sapiente taglierino. Il risultante oggetto, a seguito di questo, viene sostituito alla sega circolare metallica di una delle più classiche macchine da officina: il piano di taglio. Quindi ha inizio la fase più delicata e saliente dell’esperimento.

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Il mago delle armi giocattolo costruite in casa

Coat Hanger Gun

“Si lo so, starò attento ai sovietici. L’ho vista anch’io, l’altro giorno, la tv!” Giunto all’uscio di casa, il piccolo soldato Johnny scrutò sapientemente l’orizzonte, prima di fare un passo fra la luce di un tiepido mattino di aprile. Ancora una volta era domenica, e questo poteva significare solamente una cosa: tempo di far la guerra. Naturalmente, dopo la sesta battaglia del quartiere Five Points, la stesura di un piano non era più davvero necessaria. La sua sapienza di un veterano di 13 anni, unita alla visione ripetuta di dozzine di film con Roy Rogers, Hopalong Cassidy e Davy Crockett, gli permetteva di non aveva il benché minimo dubbio sui luoghi in cui aspettarsi agguati, cecchini e il principale schieramento degli indiani, ovvero la squadra scolastica di pallavolo capeggiata dalla bionda guerrigliera della IV C. Inoltre, grazie all’arma segreta ricevuta in dono per il suo compleanno, almeno per quest’oggi non c’era il benché minimo dubbio: avrebbe vinto lui. Socchiudendo gli occhi per schermarsi dal sole, Johnny tirò fuori dallo zaino il plasticoso ma potente fucile che portava il suo stesso nome con la J, altresì talvolta definito in modo più anonimo come l’O.M.A. (One Man Army) della Deluxe Reading. Uno strumento bellico dal peso di quasi due Kg e lungo poco meno di un metro, dotato di sette terribili modalità di fuoco. Era dai tempi della crisi dei missili cubani, risalente a circa un paio d’anni prima, che mandavano a ripetizione la pubblicità in tv. Controllando che le diverse munizioni fossero facilmente raggiungibili dalla tasca frontale, laterale e interna del gilet, fece un sorriso furbo e prese ad avviarsi di buona lena verso il parco cittadino, dietro la scuola media dell’East High.
Il primo assalto non tardò ad arrivare. Mentre Johnny guardava a destra, poi a sinistra prima di attraversare la strada, come gli era stato inculcato faticosamente dai suoi genitori, udì il grido belluino che annunciava l’immancabile assalto del suo vecchio amico e commilitone Kevin Wilson, reduce dal 10 e lode al compito di matematica, premiato con l’acquisto dal “Piccolo fucile spaziale dell’astronauta” che come lui ripeteva ossessivamente dall’altra mattina: “Spara veramente, te lo giuro, spara veramente!” Prima ancora che l’amico potesse balzare fuori dall’aiuola, Johnny si era già voltato, aveva aperto il sostegno pieghevole dell’O.M.A. e si era gettato a terra, alla maniera di Clint Eastwood nel suo ultimo spettacolare film, Per un pugno di dollari. In quel solo fluido gesto, aveva estratto la granata ovoidale e l’aveva collegata all’asticella di lancio, mentre la potente molla raggiungeva in automatico la massima tensione. Kevin, alla sua rapida reazione e soprattutto comprendendo al volo l’amico stesse realmente tenendo in mano, esitò per un singolo momento. Più che sufficiente ad essere raggiunto in pieno petto dal proiettile, in un colpo che ben sapeva essere risolutivo. Le regole del gioco erano scritte nella convenzione: chi non aveva armi giocattolo, come naturalmente le compagne di classe, poteva limitarsi ad usare un vecchio modello, facendo BANG! Con la voce. Mentre un colpo diretto non avrebbe consentito la sopravvivenza.  Il bersaglio non sembrò, tuttavia, risentirne granché: “Ma…Ma… Quella…È…” Johnny sorrise. “…Te lo confermo. Che te ne pare?” Fantastico, rispose lui. Così alleatosi per la giornata, i due proseguirono verso il fronte di battaglia.
I cancelli del giardino si spalancarono come le fauci di un dinosauro giapponese, mentre un lieve vento iniziava a soffiare tra le fronde, silenziosi testimoni dell’evento. Il distante gorgogliare della fontana dedicata ad Alan Shepard, primo astronauta e nuovo eroe americano, non poteva che coprire totalmente i passi del nemico. Tuttavia, ancora una volta, Johnny sfoderò il suo rinomato sesto senso. “Kevin, smetti di gongolare e corri verso a ore 15, mettiti dietro quell’albero. Kevin! Hai capìto? Si. Perfetto. Io le aspetterò qui.” Erano in quattro, dai lunghi capelli per lo più bombati, in un solo caso raccolti in una coda di cavallo. Le larghe gonne alle ginocchia decorate con graziosi fiorellini assumevano l’aspetto di mimetiche militari, mentre l’odiata Susan, vincitrice del trofeo scolastico, sollevava il bastone nodoso che aveva avuto lo spudorato coraggio di chiamare Il suo mitragliatore. “Ah, dannazione!” Mormorò tra se e se il soldato Johnny: “Io non le capisco proprio, le ragazze.”

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L’arte di tagliare la carta innanzi a un pubblico estasiato

Shoraku kamikiri

Il kamikiri che è, naturalmente, una tecnica tipicamente giapponese. Rinforzando ulteriormente lo stereotipo, rigorosamente positivo, secondo cui quel popolo ha prodotto alcuni tra i migliori tecnici della creatività, in grado di veicolare i propri sentimenti e l’immaginazione tramite gli approcci più diversi. E c’è davvero da meravigliarsi dagli oltre 1700 anni di storia del paese, non ci è mai giunta notizia di un filosofo nel senso puramente occidentale, ovvero un individuo dedito allo studio del pensiero? Quando un qualsiasi stato d’animo poteva palesarsi tramite l’impiego di parole in versi, qualche pennellata su di un rotolo, la lavorazione del legno, della lacca o dei metalli…Per non parlare della carta washi. Forse in nessun altro luogo si è mai trasportata a un tale lido d’eccellenza l’ampia varietà di stili, approcci e metodi per trasformare un tale bianco materiale, tradizionale frutto delle fibre del gelso o del frumento, in via d’accesso al mondo della trascendenza. Origami: figure tridimensionali create unicamente ripiegando un foglio su se stesso, tra cui la celebre gru, che fabbricata mille volte avrebbe dato accesso al paradiso dei buddhisti. Kirigami: una creazione che si configura grazie all’uso delle forbici e talvolta, anche la colla, intagliando configurazioni di un’estrema complessità, come la spettacolare kusudama, la sfera basata sulla ripetizione matematica di un modulo. Pepakura: un’espressione più moderna della stessa cosa, spesso mirata alla ricostruzione in miniatura di personaggi, veicoli o robot dei cartoni animati. E ciascuna di queste, un’arte frutto non soltanto di una lunga pratica, ma un certo periodo d’impegno personale e solitario per ciascuna produzione, affinché tutto sia perfetto, l’espressione di un sapere antico.
Mentre il kamikiri è follia pura in movimento, frenesia creativa, il senso di creare che diventa ribellione frenetica, contro il senso della quotidianità insistente. Un solo uomo, seduto sul riconoscibile palco del genere teatrale d’intrattenimento yose, che si agita e canta, tenendo in mano due strumenti: un foglio e un paio di forbici estremamente affilate, tramandate nella sua famiglia assieme al còmpito e il segreto. Per chiamare il pubblico a partecipare di un sublime quanto memorabile divertimento. Funziona così: qualcuno, dai sedili del teatro, chiama una figura, che può essere naturale (animali, piante) tradizionale (un personaggio di qualche dramma o celebre leggenda) o impossibile (l’uomo invisibile, il vento, “la nostalgia”). Al che l’artista, qualche volta dondolandosi o cantando, altre intavolando un buffo ed insensato monologo, si mette di buona lena, realizzando in pochissimi minuti la sua migliore interpretazione di quanto richiesto. Nessun disegno preparatorio, niente piano operativo. Certamente, ben poco della massima concentrazione e il silenzio a cui si associa normalmente il gesto del creativo; ma alla fine, il risultato…Parla da sé! Una delle immagini che non possono mancare in una singola sessione di kamikiri è la fanciulla con il glicine, una figura in kimono, e in genere il cappello, che trasporta sulla spalla un grosso ramo di quel rampicante, possibilmente fiorito. La realizzazione delle foglie e dei fiori, straordinariamente irregolari nelle forme, richiede decine di rotazioni del foglio, mentre colui che opera con sicurezza preternaturale sa comunque molto bene, che un singolo errore può bastare a rovinare tutto quanto. Ma questo non succede. Incredibilmente, volta dopo volta, un maestro del kamikiri porta la sua arte fino alle estreme conseguenze, creando dal semplice il complesso, e da qualche minuto d’intrattenimento, un’esperienza degna di durare. Colui che vediamo all’opera nel video di apertura è Hayashiya Shoraku (林家正楽), terzo del suo nome, vera celebrità nazionale nonché uno dei principali ambasciatori nel mondo di questa suggestiva forma d’espressione personale. È inutile dire, poi, che ne esistono innumerevoli varianti.

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