Il sorpasso fantastico di una locomotiva a vapore

Come la balena bianca emerge oltre gli scogli, sorgendo immensa contro l’azzurro cielo. Ma il suo colore è quello della notte. Muovendosi a 90-100 Km/h, emette il suo richiamo. Quindi s’immerge di nuovo, lasciando visibile soltanto il fumo bianco del suo respiro. È un titano su rotaie. È la locomotiva più grande, e al tempo stesso antica, che abbiate mai visto: Santa Fe 3751, costruita nel 1927 presso le ottime acciaierie di Baldwin, nella popolosa capitale dello stato della Pennsylvania, Filadelfia. Per partire, il giorno stesso della sua prima accensione, all’altro capo estremo degli Stati Uniti, dove avrebbe servito per esattamente 30 anni una delle più importanti compagnie del Sud nella prima parte dello scorso secolo: la Atchison, Topeka and Santa Fe, o come usavano abbreviarla fino alla fusione con la Burlington Northern, semplicemente “Santa Fe”. “Laggiù nell’Ohio / dove sono nata / ho avuto molti sogni e fatto qualche viaggio / ma mai ho pensato di vedere il giorno / in cui avrei fatto un viaggio sul Santa Fe” cantava niente meno che Judy Garland, nel suo film commedia musicale del 1946, Le ragazze di Harvey. Con un brano, in parte poetico, in parte pubblicitario, che sarebbe stato in grado di vincere addirittura l’Oscar in qualità di migliore canzone originale. Erano altri tempi, chiaramente, in cui i canoni estetici e auditivi risultavano molto diversi. E il passaggio di un treno come questo, paradossalmente, sarebbe ancora apparso come un qualcosa di relativamente normale. Già, non c’è proprio niente di strano, in 400 tonnellate d’acciaio brunito che corrono lungo una strada statale, mentre gli automobilisti procedono ordinatamente a fianco, tentando per quanto possibile di mantenere l’attenzione davanti. Tranne, guarda caso, l’anacronismo di fondo.
La AT&SF era nata nel 1859, con l’esplicito obiettivo di dare un senso alla città di Santa Fe, capitale del Nuovo Messico, un luogo situato nel pieno mezzo del nulla, dove nelle parole di un viaggiatore del 1849: “La gente [era] talmente povera, che un messicano avrebbe camminato avanti e indietro per un giorno intero, allo scopo di vendere un fascio d’erba dal valore di un nichelino.” L’espansione iniziò a regime, con strade ferrate che si estendevano come tentacoli verso il verdeggiante Texas, da dove avrebbero condotto il bestiame a Nord. Ma tenete conto che a quel tempo, nell’America rurale, ancora sussisteva la dura legge del Far West, dove per farsi valere occorrevano pistole fumanti, ed altre parti del corpo ancor più fumanti. Fu così che quando gli operai si recarono un bel giorno del 1878 per piantare i loro picchetti ferroviari lungo il passo strategicamente fondamentale di Raton, del quale avevano regolarmente acquistato i diritti, lì trovarono il personale di un’altra compagnia, la Denver and Rio Grande Western Railroad (D&RG) ed iniziò un qualche tipo di conflitto armato. Si dice che partirono dei colpi, e diverse persone finirono all’altro mondo. Trasferita quindi la questione in tribunale, le due ferrovie stipularono un patto, secondo cui la via per Santa Fe sarebbe andata ai rivali di Denver. Si trattava, del resto, di una tratta difficile, piena di gradienti e svolte in mezzo ad angusti canyon. E fu così che a partire dal 1880, questo nome svanì letteralmente dalle mappe. Rimanendo, tuttavia, al centro della comunicazione aziendale. Un altra decade trascorse priva d’incidenti. Finché qualche tempo dopo, la crisi finanziaria degli investimenti argentini nota come Panico del 1893 causò un mutamento strategico nei propositi finanziari e commerciali della compagnia, con molti assets venduti a favore di una specializzazione considerata, per l’epoca, decisamente non troppo redditizia: il trasporto di passeggeri. Ma in questo settore la AT&SF avrebbe fatto passi da gigante, con la larga adozione delle prime motrici diesel a partire dal 1909, precedentemente note per la loro presunta poca affidabilità. Eppure così relativamente leggere, e dall’economia del consumo decisamente superiore. Cosa dire, dunque, del vapore? Esso continuò ad esistere in parallelo, ancora per molti anni. Del resto, chi ha detto che il progetto originario di una teiera su ruote non potesse trovare dei margini di potenziamento?

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Le prime tre motociclette al mondo

Definita dagli uomini di scienza “La più incredibile invenzione dei tempi moderni.” Può essere guidata per 7 miglia, ad un ritmo maggiore di qualsiasi cavallo lanciato al trotto. O ciclista umano. Anche in salita. Può raggiungere velocità più elevate di quelle a cui chiunque possa osare guidarla. È affidabile, semplice, risolutiva. È la moto, anzi il velocipede a vapore, dell’inventore Sylvester H. Roper di Boston, Massachusetts. Quel maledetto primo giugno del 1896, giorno più rilevante della sua storia, si trattava ormai di un vista assai nota, presso il quartiere di Roxbury con la sua residenza e fino a Harvard Bridge, dove egli era solito recarsi ogni giorno per testarla in collaborazione con un gruppo di ciclisti locali. Si trattava del miglioramento ingegneristico di un progetto costruito per la prima volta tra il 1867 e il 1869 (l’anno esatto resta incerto) a partire da una scuotiossa dei fratelli Hanlon, ovvero uno di quei mezzi a pedali, antecedenti all’invenzione degli pneumatici ad aria, le cui ruote metalliche facevano letteralmente battere i denti sopra qualsiasi strada che non fosse perfettamente uniforme. Ma avveniristica, sotto molti altri punti di vista, quali la particolare configurazione definita della “bicicletta di sicurezza” che per la prima volta permetteva di avere ruote della stessa dimensione, un’altezza tale da poter mettere i piedi a terra e una maggiore stabilità in curva, grazie alla geometria fuori asse della forcella. Esattamente come qualsiasi due-ruote moderna. Fu per lui, molto probabilmente, amore a prima vista. E l’elaborazione fantastica di un idea.
Per Roper, che era un inventore rinomato, con numerosi brevetti nel campo delle armi da fuoco, delle macchine da cucire, dei sistemi antincendio… La recente rivoluzione dell’automobile a vapore (di cui pure, produsse alcuni pregevoli esemplari) non sembrava essere abbastanza. Così elaborò il più piccolo motore della storia, lo piazzò sulla bici e creò la moto. C’è un’annosa diatriba in merito alla questione, che vorrebbe attribuire lo stesso identico merito al fabbro francese Pierre Michaux, operativo nello stesso triennio della seconda metà del XIX secolo, come piuttosto ai tedeschi Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach, che esattamente un anno prima del sopracitato secondo modello del collega americano (1896) misero in pista una motocicletta con motore a combustione interna, ovvero a benzina. Secondo alcuni, in effetti, tutto quello venuto prima avrebbe rappresentato un “binario morto” non più rilevante per l’evoluzione umana dell’intera genìa neanderthaliana. Tutto ciò è opinabile ed ogni modo, non del tutto rilevante. Ipotizziamo, in questa fase, che la Roper sia stata l’antesignana. Nella versione guidata quel fatidico giorno, che il suo costruttore aveva intenzione di vendere in serie nell’ambiente dei ciclisti sportivi, come strumento per mantenere il ritmo durante gli allenamenti, erano stati apportati diversi miglioramenti rispetto al prototipo (di cui qui sopra, potete osservare una riproduzione) quali una riduzione del peso a “soli” 68 Kg, l’inserimento del bollitore all’interno di un cassone per proteggerlo e migliorare l’aerodinamica ed un incremento significativo di prestazioni. Tanto da poter raggiungere, in condizioni ideali, una velocità di 64 Km/h. Come innumerevoli volte prima di allora, dunque, Roper in persona fece diversi giri del tracciato, dimostrando la straordinaria efficienza del suo prodotto. Con una significativa differenza: quella volta, aveva compiuto i 72 anni di età.
La moto sbuffò vistosamente, rilasciando copiose quantità di fumo bianco. Il pilota veterano, grazie all’esperienza acquisita, tagliava le curve ed effettuava pieghe pressoché perfette, limando ulteriori secondi dal suo record sul tempo del tutto inimmaginabile senza l’impiego di un motore. Il controllo dell’accelerazione era determinato dalla rotazione di entrambe le manopole unite in un’unica sbarra, la cui rotazione in senso contrario, invece, avrebbe attivato il singolo freno. Il cui limitato meccanismo a cucchiaio, appoggiato semplicemente sulla ruota posteriore, iniziava a scaldarsi ma teneva ancora. Se non che verso la fine della sessione di prove, gli venne chiesto di dimostrare, ancora una volta, quale fosse il massimo che poteva dare il suo velocipede. Così accelerò e accelerò, fino al completamento di un giro del tracciato di Harvard Bridge in soli due minuti ed 1,4 secondi. Ma a un certo punto, subito dopo una curva, cadde all’improvviso dalla sella e morì. Secondo gli accertamenti effettuati successivamente, la causa era stato il sopraggiungere di un attacco di cuore. L’inventore della moto, così come il Dr. Frankestein in alcuni seguiti del romanzo, era stato ucciso dalla sua più amata creatura. Così, ebbe inizio la storia…

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Il vero significato della parola “trenino”

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E QUELLA me la chiami locomotiva? Codesto metallico trastullo, vorresti considerarlo un degno cavallo d’acciaio? Una tale cromata cosa, intenderesti consegnarla ai posteri con la nomea di “Gran Signore della Strada Ferrata”? Per piacere, non scherziamo! Macchinista, conducente, manovratore, operatore, locomotorista… Ché qui, le cose sono due: o tu guidavi i treni per davvero, finché un giorno, fulminato dal senso poetico di un tale gesto, non ti sei deciso a farlo pure in casa, ricorrendo al pratico strumento della riduzione in scala. Oppure, la tua più sincera passione è l’energia del possente Vapore. E non c’è davvero limite, in tal caso, a quello che potresti giungere a far sbuffare!
Quando si parla della scala dei trenini più popolare al mondo, volendo essere specifici al massimo (come pretende l’ambito altamente tecnico e quasi ingegneristico di chi guida treni per sport) non ci si sta riferendo ad altro che a quella identificata con la dicitura HO, ovvero la 1:87. Il che, in termini pratici, pone una locomotiva alla lunghezza approssimativa di una matita, mentre prevede le rotaie distanziate di pratici 16,5 mm. Certo, girando il mondo ne esistono di MOLTO differenti. Gli inglesi ad esempio, con la loro usuale propensione a distinguersi, impiegano comunemente la scala OO, leggermente più grande (1:76) mentre in Germania coesiste, in parallelo alla HO, anche la classe dei trenini G, in grado di raggiungere e superare una scala di 1:29: stiamo parlando, per intenderci, di rotaie distanziate di 45 mm, con vagoni lunghi, all’incirca, quanto un avambraccio. Ma è subito al di sopra di questo “ragionevole estremo” che le cose iniziano a farsi davvero interessanti. Perché superando la scala 1:20, succede qualcosa di molto particolare: la fisica terrestre inizia a permettere un qualcosa di particolarmente l’impiego di un sistema di propulsione comparabile, sotto molti aspetti, a quello delle locomotive full-size. Uno spettacolo… Appassionante. Ciò è guardare all’opera Ernie Beskowiney, presso la Bitter Creek Western Railroad in California, ferrovia privata con scartamento di 7 pollici e mezzo (200 mm ca.) mentre mette in condizioni operative la sua spettacolare Canadian National #6060, una riproduzione in scala della locomotiva soprannominata dagli abitanti del vasto Nord Bullet Nose Betty, in funzione della parte frontale dalla forma a cono. Il magnifico apparato, che una volta deposto a terra risulta in grado di raggiungergli l’altezza della vita, ha richiesto all’incirca 35.000 ore di lavoro per raggiungere un simile grado di perizia nella ricostruzione in scala 1:8 dell’originale e può sviluppare, grazie alla sua caldaia a gas propano, fino a 220 Kg di trazione. Il che significa, a voler essere diretti, che può trainare un treno di fino a 48 persone.
Ed è veramente questo, alla fine, il nesso principale della questione? La mera, semplice potenza? Piuttosto che il desiderio di creare un qualcosa di unico, in grado di lasciare il segno all’interno di un àmbito in cui l’espressione personale è tutto, e offrire una visione al mondo della gioia che possono dare i treni, diventa quasi autonomamente il senso ultimo della giornata… Voglio dire, si può anche decidere arbitrariamente che le cose grandi siano in automatico più belle (molti lo fanno) ma il punto distintivo è la funzione. Ciò che serve ad uno scopo  ben preciso,  quale trasportare cose o persone fino alla stazione successiva, può essere ammirevole, stupendo, significativo. Ma mai davvero, buffo e divertente. Diventa quindi tutto, una questione di priorità…

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Il martello più grande che abbiate mai visto

10 Ton Drop Hammer

Un inizio di giornata al fulmicotone, in grado di svegliare anche le talpe preistoriche che vivono in prossimità del centro della Terra. O almeno così sembra, i primi tre-quattro giorni che lavori in officina. Poi ti abitui, addirittura a questo. E l’opera inizia il suo flusso in automatico nel segno del sudore, mentre ogni gesto diviene calibrato, la cooperazione totalmente naturale. Ovvio: sarebbe assai difficile PARLARE, in mezzo a un simile frastuono. Tre operatori, ciascuno in abito ignifugo, protezioni per gli occhi e le orecchie, caschi protettivi di un vivace giallo canarino. Al centro, un addetto al forchettone/diapason d’acciaio incatenato, che serve a trasportare il pezzo riscaldato ad oltre 2000-2500 gradi fino allo stampo di lavorazione. A sinistra il suo assistente, il cui compito principale, oltre a sollevare assieme i materiali più pesanti, è irrorare d’acqua quanto posto in essere, affinché vengano rimosse le scaglie (scales) di metallo distaccatosi dal corpo principale. Mentre a destra nel sapiente trio, risiede il vero regista dell’operazione, colui che al tempo stesso deve faticare meno, eppure ha il compito più delicato e di maggiore responsabilità. Come un regista, o un direttore d’orchestra: il tecnico del maglio idraulico da 10 tonnellate.
È un’esistenza lieve che richiede un certo spirito d’iniziativa, questa dell’addetto metallurgico, poiché la creatività di simili compiti è per forza alquanto limitata. Occorre quindi apprendere il segreto per l’introspezione che non distrae, la fantasia che corre libera mentre le membra fanno ciò che devono. Ma soprattutto, l’orgoglio di fare qualcosa, presto e bene, ancora e poi di nuovo. Il video è stato caricato su YouTube da Hiroki Onoda, chiaramente un giapponese, e non sarebbe poi così stupefacente se l’intera azione si svolgesse proprio nella sua nazione. C’è qualcosa, in questo metodo di forgiatura al tempo stesso antico e dannatamente efficiente, che pare quasi rimandare ai fabbri di katana, gli esecutori ritualistici di un metodo per fare il ferro, poi l’acciaio, infine il taglio leggendario. Qui applicato, in modo forse più prosaico, alla messa in opera di grossi ingranaggi vuoti al centro, ovvero secondo la teoria più accreditata (nonché probabile) dei pignoni per i cingoli di qualche mezzo pesante. Il fatto è che dei tali componenti non possono essere realizzati a fusione, come avviene per la stragrande maggioranza dei prodotti della moderna metallurgia. Questo perché le ruote dovranno, nel corso della propria lunga vita operativa, sopportare non soltanto forti gradi di pressione, ma la forza ben più problematica della tensione, generata dal movimento parallelo di andata e ritorno delle maglie che poggiano sul suolo. Proprio per questo, portare la missione a compimento richiede un approccio basato sulla mera forza bruta, che nel dare forma al pezzo, ne riallinei addirittura la struttura cristallina, massimizzandone la resistenza e la durevolezza. Si, colpi di martello. Ma non del tipo che potremmo, allegramente, manovrare con le mani, bensì un mostro a forma di colonna, in grado di occupare una percentuale significativa dello spazio in officina, fatto muovere grazie alla forza spaventosa dell’idraulica applicata. O in alternativa, e non sarebbe poi tanto sorprendente nel presente caso giapponese, quella ancor più primordiale del vapore, che diede gli inizi a questo mondo rivoluzionario dell’industria più di due secoli fà, e che tutto ha cambiato nella mente e nelle aspettative di chi ha scelto di assolvere alla massima necessità: modificare la natura. Un merito che fu, fin dalla prima epoca moderna, conteso…

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