Titanico vapore: tutti a bordo del tirannosauro ferroviario americano

E tutti sollevavano, in maniera inconscia, il labbro superiore, lasciando entrare l’aria nel formare un’espressione totalmente rapita: l’ora, il giorno e quel momento, l’attimo infuocato del ritorno. Di un oggetto il cui valore come simbolo non può prescindere, in nessuna maniera, dal suo effetto significativo sulla materia. Avevano detto che era impossibile, il frutto di una tecnica dimenticata… Eppure, eccola qui: con 3600 tonnellate al seguito, esattamente 16 Statue della Libertà (avete mai sentito una misura maggiormente Americana?) distese in senso metaforico lungo l’estendersi di un serpeggiante binario in salita. Quello che collega Ogden, nei pressi di Salt Lake Ciy nello Utah, a Cheyenne, Wyoming, una tratta che oggi non conserva più il suo antico valore strategico di appartenenza. Soltanto uno tra molti, dunque, dei collegamenti che attraversano la parte brulla degli Stati Uniti, sul confine dei deserti occidentali; laddove un tempo questo mostro, e i loro simili, erano la fonte di ogni merce ed ogni bene di consumo ad uso popolare o meno, salvo quello che giungeva sulle coste via mare. Eppure c’è un qualcosa di marittimo, nell’enorme sagoma che taglia in due il paesaggio degli accidentati monti Wasatch, sbuffando rumorosamente vista l’enfasi del suo ritorno: forse l’alta ciminiera, circondata da una nube oblunga di vapore. Forse le 548 tonnellate di metallo, perfettamente ben distribuite, che compongono la forma complessiva del Big Boy.
Ragazzone…Un termine, un programma: tracciato a quanto dicono per pura contingenza da uno degli operai della Union Pacific, che in quell’epoca remota ebbe l’iniziativa di tracciarlo con il gesso, in barba alla definizione progettuale assai generica di “Wasatch”. La più grande locomotiva a vapore che fosse mai stata costruita su questa Terra. Il culmine ulteriore ed inimmaginabile, di oltre un secolo di perfezionamenti, correzioni, innalzamento delle aspettative del committente. Il che basta per farne, in maniera del tutto inevitabile, una produzione tarda della sua Era, ovvero il proverbiale canto del cigno, situato cronologicamente al 1941. Precorrendo di pochi attimi l’apice più sanguinario della seconda guerra mondiale. Il che significa, riuscite a immaginarlo? Che ogni singolo proiettile, carro armato, componente di aeroplano, prodotto dalle fabbriche dell’entroterra, sarebbe stato in seguito imbarcato verso il teatro del Pacifico a partire dalle sferraglianti ruote, di un così massiccio e appariscente dinosauro. Molto meno, bastò in precedenza, per delineare le caratteristiche di un simbolo della Nazione.
Gioia, giubilo e possenti grida d’esultanza. Il progetto è stato completato. E il cerchio, finalmente, chiuso in occasione del 150° anniversario della UP. Con la più eclettica, sincera e memorabile delle celebrazioni…

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La freccia che ferisce se il proiettile fallisce

Il bianco e nero indica l’appartenenza a un altro tempo. Così come, con pari evidenza, il particolare soggetto che viene trattato all’interno del video: l’addestramento alla guerra non convenzionale del Gruppo 19° delle Forze Speciali, una divisione militare facente parte del corpo della Guardia Nazionale statunitense, formata in larga parte da cittadini riservisti. Sembra una contraddizione in termini: un documentario con intendo propagandistico che non mostra tanto il massimo della tecnologia, della preparazione fisica, tattica e logistica, bensì quello che potrebbe essere un gruppo di amici con una serie di hobby piuttosto particolari. Come avventurarsi tra il gelo in mezzo alle montagne dello Utah, arrampicarsi sulla roccia nuda mediante l’impiego di attrezzatura da alpinismo, praticare il judo ed altre tipologie di arti marziali, fare il tiro a segno con diverse tipologie di armi. Ed è proprio in quest’ultimo frangente di un pomeriggio del 1961, che implicitamente, veniamo invitati a porci un’insolita domanda: c’è ancora una ragione bellica effettiva, nel mondo moderno, per tendere un comune arco da caccia e scagliare i propri dardi all’indirizzo del nemico? Certo, se l’esigenza è farsi strada senza dare l’allarme. Persino un’arma con il silenziatore, nella maggior parte dei casi, produce un suono che è possibile sentire a diversi metri di distanza. Ma la voce impostata del commentatore qui fa da preambolo a una prova tecnica di tutt’altro tipo. Uno dopo l’altro, i soldati conducono la dimostrazione. Rendendo evidente come in determinati casi, una freccia possa avere effetti più devastanti, persino delle armi a proiettili del mondo contemporaneo.
Lo scenario è marcatamente artificiale e se vogliamo, non direttamente riconducibile a una situazione effettiva di conflitto. Uno dei soldati dispone, sulla posizione rialzata di una balla di fieno, una scatola di cartone con sopra disegnato un bersaglio. Quindi tale oggetto viene riempito, avendo cura di non lasciare dei vuoti, con una certa quantità di ghiaia e terra, poi diviso da tre partizioni da materiale cartaceo di medio spessore. A questo punto, entrano in scena i soldati 1, 2 e 3. Mr. Uno è un tipo decisamente spietato, con sguardo assassino e armato di pistola Colt M1911. La posa professionale a tre quarti, il dito delicato sul piccolo grilletto, egli scaglia il suo proiettile nel centro dell’occhio di bue (Bull’s Eye!) ottenendo, tuttavia, un risultato piuttosto deludente. Il proiettile penetra a malapena la prima partizione del bersaglio. Il soldato Due è invece freddo come il ghiaccio, compunto e distaccato, mentre prende la mira con la sua carabina calibro .30 M1 a canna corta, un’arma che sarebbe rimasta in uso  tra le forze statunitensi fino ai duri anni della guerra nel Vietnam. Di nuovo, il secondo pezzo di cartone resta del tutto integro a seguito del suo sparo. Al turno del soldato Tre, dunque, le cose iniziano a farsi più serie: armato di un riconoscibile fucile M1 Garand, un’arma risalente alla seconda guerra mondiale ed allora già ritirata dal servizio attivo, il riservista fa fuoco con un’espressione indecifrabile. Se non fosse per il contesto decisamente formale, potremmo arrivare a definirla come un certo grado di speranza; piuttosto ben riposta, aggiungerei. Visto come il suo messaggio a base di piombo, prevedibilmente, penetri il primo ed il secondo pezzo di cartone, andando a fermarsi nella terza intercapedine della scatola piena di ghiaia. Il miglior risultato? Forse in alcuni contesti, l’arma sarebbe stata promossa senza il condizionale, e la faccenda chiusa immediatamente lì. Ma nel corpo 19° dove lo stesso emblema raffigurato sulla spalla delle uniformi è una spada attraversata da tre fulmini, all’interno di uno stemma con la forma di una punta di freccia, mancava ovviamente un’ultimo capitolo alla questione. Con passo cadenzato, avanza dunque sulla scena il numero 4. Senza un minimo d’esitazione, questo individuo che per la maggior parte del tempo avrà fatto il banchiere, o magari l’impiegato alle poste, piuttosto che il negoziante, incocca la freccia, tende la corda fino al suo orecchio destro, lascia che la fisica faccia il suo corso. Volando sicura fino al bersaglio, la punta penetra in profondità. Molto in profondità. Con voce trepidante, il commentatore sottolinea il momento in cui l’inquadratura viene spostata. Ed a quel punto non ci sono più dubbi: il dardo non soltanto ha perforato primo e secondo pezzo di cartone. Come se niente fosse, è finito per fuoriuscire dalla parte opposta della scatola piena di ghiaia. Arco e freccia si sono dimostrati, con evidenza preponderante, migliori del fucile. Possibile che Robin Hood fosse più forte di Rambo, in uno scontro frontale?

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La trappola dei canyon inondati all’improvviso

Un padre e uno zio, che arrancano a fatica insieme a due bambini nella spettacolare depressione di Little Big Horse Canyon, non troppo distante dal celebre Goblin Park. Ai lati, le pareti verticali di un avvallamento eroso in centomila anni tra le alte pareti di uno spento colore rosso ocra. E sopra, sotto, accanto, da ogni parte, c’è soltanto quella cosa: acqua, acqua a profusione. Che scende copiosa, che turbina e che vortica dapprima alle caviglie. Poi alla vita degli adulti, che corrisponde al petto dei loro futuri eredi. Si sente il più piccolo che fa al fratello: “Ho paura, my heart is pounding!” (Mi batte forte il cuore) mentre l’altro tenta di rassicurarlo: “Continua a camminare, siamo quasi arrivati.” Ma nessuno dei due era cosciente, all’epoca, del reale pericolo che stavano correndo. Della situazione così tragicamente analoga, almeno in linea di princìpio, a quella che costò la vita ad 11 persone nel 1997 presso la popolare località turistica di Antelope Canyon, e di nuovo nel 2015 ad altri sei nel Keyhole Canyon. Il fatto è che non sempre, nei territori aridi statunitensi, un inondazione è il prodotto delle condizioni meteorologiche pendenti in quel particolare luogo e momento. C’è un effetto incontrollabile di traslazione…
Il Grand Canyon, le cascate del Niagara. Dicono che nessun vero americano, nato in patria oppure all’estero, possa realmente dire di aver vissuto, se non visita nel corso della propria vita almeno uno di questi due fantastici fenomeni della natura. Ma che fare se egli non avesse il tempo, oppure le risorse, per vederli tutti e due? Dopo tutto, si trovano quasi agli estremi opposti degli Stati Uniti, separati da oltre 2.300 miglia di distanza! Niente paura. Dovendo scegliere, basterà optare per la grande depressione scavata dal Colorado River nel suolo friabile dell’Arizona, a patto di raggiungerla durante un giorno di pioggia relativamente intensa. Molti hanno narrato, su Internet, la portata di una simile esperienza: le decine o centinaia di cascate, che si formano istantaneamente dalla cima della gola, riversandosi con un ruggito dentro l’acqua sottostante, tra gli sguardi affascinati dei visitatori. Nel giro di pochi minuti, il seminterrato di un’intero deserto semi-arido, e per nulla permeabile, si trasforma nel suo unico condotto di drenaggio, mentre la diffusa coltre di sottili goccioline formano la base per migliaia d’imprevisti arcobaleni. È uno spettacolo fantastico, un ricordo destinato a rimanere negli annuari. Una fatale unione di acqua ed altitudine, in qualche maniera affine a quella del distante salto a ferro di cavallo, sito a suggellare la barriera tra gli Stati Uniti e la regione canadese dell’Ontario. Ma c’è un tempo e un luogo, un modo e un’occasione per qualunque cosa. E così come un getto fuoriesce placido e spontaneo, dal tubo per annaffiare il giardino, scaturendo invece come un fulmine, qualora si vada a bloccare in parte l’apertura con un dito, la magnifica visione può istantaneamente diventare un incubo, se soltanto ci si trova tra pareti più ravvicinate, magari un po’ più a nord, nel territorio ancor più brullo dello Utah. Un luogo in cui notoriamente, i crepacci scavati dai fiumi tendono ad assumere un aspetto molto peculiare, tortuoso e profondo, fantastico a vedersi, ma sopratutto stretto, angusto come l’andamento di un serpente a sonagli. Svariati sono i nomi che appartengono a questa lista, a parte quelli già citati poco più sopra: the Narrows nello Zion National Park, la più antica e celebre di tali attrazioni turistiche; il riconoscibile Glen Canyon, vicino a quella patria nazionale di determinati sport estremi che è il lago artificiale di Powell, creato nel ’63 da una delle dighe più imponenti degli interi Stati Uniti. E poi la miriade, una letterale costellazione di fessure che si trovano nei territori a sud dell’Interstatale 70: Buckskin, Escalante, Lamatium, Peak-a-Boo… Ciascuno dei quali associato, secondo la disciplina tipicamente statunitense del canyoneering (una sorta di alpinismo all’incontrario, perché scende, poi sale) ad un preciso codice che ne indica la difficoltà ed il rischio: da 1, la proverbiale passeggiata, a 5, canyon tecnico con la necessità di usare attrezzature speciali; da A, secco, a C, con corsi d’acqua significativi; e da I a VI, in base al tempo richiesto per portare a termine l’esplorazione. Ma naturalmente, come abbiamo dimostrato in apertura, i risultati possono variare in modo significativo sulla base alle condizioni meteorologiche vigenti…

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La creatura vivente più antica e pesante del pianeta Terra

Pando Populus

80.000 anni. Quando è nato Pando, i mammut erano ancora la preda preferita dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori appartenenti al Medio Paleolitico. Mentre il popolo dei Neanderthal, destinato presto all’estinzione, si trovava all’apice della sua largamente misteriosa civiltà, probabilmente priva di un linguaggio.  Si può credere davvero fermamente all’esistenza di qualcosa così come, usando l’arma del senso comune, auto-convincersi che un particolare essere non potrà mai farci visita, scrutarci coi suoi occhi o sorgere dalla sua tana nel profondo della notte, per lasciare la sua grande impronta sulla storia dell’umanità. “I giganti? Pura fantasia!” Le leggi della fisica impongono dei limiti a ciò che può ergersi al di sopra del suolo, per la forza di gravità, i venti che minacciano tempesta e la quantità pur sempre limitata di risorse messe a disposizione dalla natura. Che cosa potrebbe mai mangiare, una creatura del peso di 6.600 tonnellate…Pura aria? La luce del Sole? Il glucosio risultante dalla…Fotosintesi clorofilliana!
È una questione piuttosto nota, nella regione dello stato americano dello Utah in cui si trova la Foresta Nazionale di Fish Lake. Eppure, molti di coloro che passano con la propria auto sulla Route 25, un importante punto di raccordo tra due strade statali, non gettano che uno sguardo distratto nella rilevante direzione, per prendere coscienza di quello che sembrerebbe essere, a tutti gli effetti, un riconoscibile bosco dei cosiddetti aspens o pioppi americani (Populus tremuloides) di 43 ettari. Luogo dal nome collettivo attribuito di Pando (termine latino che significa “Io mi diffondo”) tutti maschi nonché geneticamente identici tra loro. Una visione ed un concetto tutt’altro che rara sulle coste dell’Atlantico distante, ma che qui, in effetti già può dare da pensare. Per il semplice fatto che, da studi ecologici piuttosto approfonditi, è stato determinato che nell’area occidentale del Nord America semplicemente non è esistito un clima adatto all’affermarsi di tale vegetazione fin dall’epoca esatta di 10.000 anni fa. Il che significa, in parole povere, che ciascun singolo albero di questo tipo che si trovi in simili regioni ha, in un senso tutt’altro che figurativo, gettato le sue radici pochi giorni dopo il termine dell’ultima totale Glaciazione. Tutti, nessuno escluso. È una questione che potrebbe facilmente generare un immediato senso di dubbio e spiazzamento. Eppure, a ben pensarci, non è poi così strano: prendete in mano un semplice sasso in una valle di campagna, e contemplate quella forma piccola e bitorzoluta: da quanto esiste, esattamente quella piccola ed insignificante cosa? Prima di tutto, occorre definire il significato del concetto di “esistenza”. Ma non è poi così assurdo pensare che la minuscola roccia in questione fosse già qui, magari ancora conglomerata ad un tutto più grande, al raffreddamento del manto magmatico che avrebbe costituito la stessa crosta superficiale della Terra. Sono soltanto i rappresentanti del mondo animale, con la loro complicata evoluzione, con le loro ali, pinne e zampe, con la filosofia e la letteratura, a doversi accontentare di una vita breve come un’alito di vento. Mentre il regno minerale, perfettamente statico ed immoto, non ha limiti temporali di sorta. E il regno vegetale, conseguentemente…Diventa una perfetta via di mezzo.
Un pioppo, dunque, non è eterno. Ma ci va molto vicino. Questo perché ciò che noi consideriamo un gruppo d’alberi di questo tipo in realtà, non è che la minima parte di un essere tentacolare, che si estende molti ettari al di sotto dei nostri stessi piedi. Un ammasso di radici, nascoste agli elementi, ai predatori, persino all’evento distruttivo degli incendi boschivi, che sostanzialmente non conoscono le avversità. E che per ogni tronco che crolla, come i catafratti immortali dell’esercito di Serse, ne generano presto un altro, affinché possa prenderne il posto, sotto il Sole nutritivo. Per continuare a crescere e gettare più lontano la propria lunga, significativa ombra.

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