La tangibile irrealtà di camminare in mezzo ai funghi tra i cieli andalusi

Terribile può essere, quando ci si trova al suo cospetto, l’effetto paralizzante dello sguardo sovrannaturale di Medusa. “Guardiana” o “Protettrice”, terza delle figlie degli Dei marini Forco e Ceto, noto agli uomini del Mondo Antico con il nome collettivo di Gorgoni. Sarebbe totalmente ragionevole presumere, tuttavia, che la maggiore esibizione del suo potere possa essersi verificata non durante la venuta di un celebre eroe all’interno della sua caverna, neanche quando accompagnato dalla narrazione di un celebre aedo (il cantore della tradizione epica greca). Bensì nel molto più recente 2007, quando i lavori iniziati tre anni prima per la costruzione di un parcheggio presso piazza de La Encarnación al posto di un vecchio edificio del mercato, nel pieno centro storico di Siviglia, progredirono fino al punto di riuscire a ritrovare sotto terra le rovine di una residenza di epoca Romana. Ed all’interno di quest’ultima, una rappresentazione perfettamente conservata di quella mostruosa effige, completa di serpenti e la caratteristica smorfia minacciosa. Abbastanza da pietrificare non soltanto gli operai con le vanghe, né soltanto i loro supervisori, oppure gli archeologi dell’ente per i Beni Culturali immediatamente accorsi per documentare l’eccezionale scoperta. Bensì nella realtà apprezzabile dei fatti, una città intera, che pur avendo già investito oltre una decina di milioni di euro nel progetto, si sentì obbligata a decretare un immediato arresto delle opere, per riuscire a definire come intervenire per salvare l’importante testimonianza. Se non che, come voi saprete anche troppo bene, la maniera in cui si dipanano simili situazioni è che le autorità amministrative mettono da parte una particolare quantità di fondi; ma quando un imprevisto cambia le carte in tavola, altre questioni altrettanto dispendiose finiscono per avere la priorità. Così passarono i mesi, che poi diventarono anni, quattro per la precisione. Durante cui la piazza un tempo importantissima di La Encarnación diventò uno spazio vuoto e derelitto, un mero punto di passaggio tra quartieri più interessanti del centro culturale ed economico della Spagna meridionale, o nelle parole dello stesso quotidiano Diario de Sevilla: “Uno spazio recintato per i topi”. Persino il potere pericolosissimo di una simile figura mitologica, tuttavia, non può che scemare dinnanzi all’implacabile avanzata della natura. Come l’onda di marea sulle coste del Mar Mediterraneo, oppure l’energia rinnovatrice del micelio successivamente a un significativo scroscio di pioggia, cui tende a far seguito la prevedibile emersione di una serie di surreali ombrelli nel sostrato umido del sottobosco.
Funghi commestibili o magari velenosi, grandi, piccoli o persino alti 28,5 metri… Ovvero abbastanza da far ombra ad un’intera galleria commerciale, un mercato al chiuso, un museo archeologico e un ampio spazio per gli eventi cittadini. Così come previsto inizialmente nel 2011, ad opera del progetto vincitore dell’appalto per la riqualificazione di questi spazi ad opera dell’architetto ed artista Jürgen Mayer, già creatore di una certa quantità di celebri edifici modernisti in diverse città tedesche e del resto d’Europa. Ed osservando oggi il risultato completo in ogni sua parte, sarebbe difficile negare la validità di una simile scelta, nonostante le critiche inevitabile degli abitanti maggiormente tradizionalisti, accompagnate dall’osservazione di taluni critici che tali linee sinuose possano adattarsi malamente a quel particolare contesto di realizzazione. Giudicato sulla base delle proprie sole qualità, ad ogni modo, il Metropol Parasol, chiamato ormai da tutti Setas de Sevilla (i Funghi di Siviglia) è un letterale capolavoro d’estetica naturalistica e vagamente surreale, creato grazie ad un reticolo di elementi in legno interconnessi in senso ortogonale, sostenuti a molti metri dall’asfalto sottostante grazie all’impiego di una serie di leggiadri pilastri. Nonché, incidentalmente, l’effettiva struttura costruita in tale materiale più imponente al mondo, con i suoi 150×70 metri d’estensione, tutti percorribili mediante quello che potremmo definire come l’elemento maggiormente caratterizzante dell’intera struttura: la lunga passerella serpeggiante, alla base di una delle esperienze panoramiche più affascinanti sopra i tetti di una città storica d’Europa…

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L’emblema battagliero costruito per accogliere i tifosi del Qatar

Acciaio, vetro, cemento armato e la visibile realizzazione di un’idea: che il simbolo visuale di una nazione, trasferito nello spazio fisicamente visitabile di una costruzione urbana, possa trasformarsi nella prima cosa in grado di restare impressa nella mente di un eventuale turista straniero; perché è proprio in questo luogo, che si troverà ad aprire le sue valige, una volta messo piede nella stanza progettata per accogliere la sua presenza in uno dei 36 piani dei due edifici. Posta all’apice di quella che potremmo definire, in base alle apparenze, la più grande “scimitarra” del pianeta Terra. Una metafora, a volergli attribuire una definizione. Oppure la similitudine, di quello che potrebbe assomigliare, con soltanto un quantum d’ambizione immaginifica, allo stemma progettato nel 1976, dal gruppo di grafici selezionati dallo sceicco Ahmad bin Ali Al Thani. E a guardarlo bene, non manca proprio nulla: le palme quasi troppo perfette per essere reali; il mare increspato dalla brezza del Golfo Persico; una nave dalla caratteristica vela triangolare araba che prende il nome di Dhow? Immagino che possa anche passar di lì. E naturalmente, lui: il nuovo albergo noto come Katara Towers, i cui lavori ebbero inizio nell’ormai remoto 2013 per finire idealmente pochi anni dopo, se non che incontrati ostacoli di varia natura nel finanziamento, l’organizzazione e l’ottenimento dei permessi, ha finito per veder spostata innanzi la sua data di completamento ancora ed ancora. Fino a un’ipotetico ed ancora vago “2022”, giusto in tempo per i mondiali di calcio che coinvolgeranno a partire dal novembre prossimo proprio il cosiddetto Stadio Iconico di questa stessa Lusail City. E basterà un singolo sguardo, direi, per capire che stavolta ci siamo: ogni spazio definito, le facciate rifinite fino all’ultimo dettaglio. Manca solo di rimuovere, con la dovuta cura, le alte gru ed i macchinari mobili sfruttati per plasmare i materiali attraverso i lunghi anni di quest’opera alta esattamente 211 metri.
Spade curve e molto più leggere, rispetto a quelle utilizzate dai crociati medievali che si trovarono a combatterle, nel primo e turbolento incontro tra le contrapposte civilizzazioni dal diverso credo e un contrapposto stile di vita. Al punto che attraverso gli anni, la scimitarra sarebbe diventata un simbolo strettamente interconnesso alla natura del mondo arabo, tanto che portarla al fianco, ancora all’epoca di Shakespeare, costitutiva per gli attori di teatro un chiaro segno di stare interpretando un personaggio proveniente da quelle terre. Arma in realtà d’origine turca, successivamente diffusa a macchia d’olio nei paesi limitrofi per la sua brutale e comprovata efficienza, essa presentava un’ampia serie di vantaggi, a discapito di un solo, singolare punto debole: l’impossibilità di effettuare affondi all’indirizzo di un nemico appiedato. Ma una volta brandita dalla sella di una cavalcatura e usata di taglio, come nell’ideale originale del suo impiego, la sua curvatura permetteva di accentuare naturalmente il gesto di ciascun fendente, senza rimanere intrappolata nell’armatura o lo scudo del suo bersaglio. Abbastanza da creare la continuità di una leggenda, destinata a trasportarla negli attuali vessilli o sigilli di un’ampia serie di nazioni dell’attuale mondo mediorientale. Eppur forse nessuna, come il Qatar stesso, che ne fece dichiaratamente il proprio emblema successivamente all’indipendenza guadagnata dall’Inghilterra, in qualità di santuario pronto a difendere (con le armi, se necessario) i diritti dei propri abitanti di fede musulmana.
Fast-forward di qualche anno, e l’analisi di un mondo formalmente in pace, nonostante le differenze economiche e incompatibilità tra i paesi dai trascorsi storici radicalmente contrapposti, per trovare un Qatar capace di distinguersi nel suo profondo da quella stessa unione di emirati che oggi prende il nome di Arabia Saudita. Ma particolarmente incline, cionondimeno, a perseguire gli stessi fondamentali obiettivi. Incluso quello d’investire le finanze provenienti dal suo ricco patrimonio petrolifero, finché durano, all’interno dell’industria dell’intrattenimento e del turismo, ora più che mai. Il contesto all’interno del quale, essenzialmente, s’inserisce questo intero progetto del lungomare di Lusail, un sobborgo settentrionale della capitale Dohan. Autodefinitosi, con un certo innegabile diritto, come “Il più eccitante progetto di rinnovamento urbanistico attualmente in corso…”

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I magnifici colori dei serpenti rari che assediano l’aeroporto di San Francisco

Dalla cabina di pilotaggio del grande aereo di linea, sotto la luce intensa di una luna marezzata al centro di quel cielo sgombro del colore di una divisa da steward degli anni d’oro della compagnia di bandiera, la Città d’Oro dimostrava chiaramente la ragione del suo soprannome: lo scintillante aspetto di una collettività perennemente sveglia ed operosa, intenta a correre ed a svolgere le miriadi di mansioni previste dalle norme della civilizzazione moderna. Ma di fronte alla linea chiaramente illuminata della pista di atterraggio, sospesa presso il punto in cui l’asfalto si perdeva e trasformava nelle acque riflettenti della baia di San Francisco, ed in effetti perpendicolarmente ad essa, campeggiava casualmente un’area larga e tenebrosa, attraversata unicamente da un certo numero di strade sopraelevate. Mentre controllava attentamente i suoi strumenti di riferimento, il co-pilota rivolse un rapido sguardo all’indirizzo di quell’intero isolato verde scuro, venendo notato con la coda dell’occhio dal suo capitano. “Ah, quello?” Disse l’uomo, la barba bianca increspata dall’accenno di un sorriso. “Non farci caso, a quest’ora dormiranno tutti… Hic sunt serpentes. Ah, ah, ah! Non andare corto con l’atterraggio, mi raccomando!” Una vibrazione lieve percorse la carlinga del velivolo; il carrello era abbassato e tutto era pronto per toccare terra, appena qualche decina di metri dopo la versione contemporanea della buca vichinga per l’esecuzione dei condannati, la temibile Ormegård. E fu allora che al copilota, nonostante l’assenza pressoché totale di nubi, sembrò chiaramente di sentire il rombo di un tuono distante, al di sopra dei quattro motori del potente jet.
Fossa dei serpenti, affilano quei denti. Attendono il proprio momento, senza sentimenti. O almeno questo è quello che sarebbe lecito aspettarsi, mentre ci si appresta ad attraversare una delle più notevoli menagerie situate all’interno di un grande centro urbano statunitense. Quella venuta a costituirsi un po’ per caso, ma soprattutto grazie all’aiuto dei naturalisti ed altri praticanti esperti delle tecniche di conservazione animale, nel luogo che fondamentalmente era sempre appartenuto a un simile animale: Thamnophis sirtalis tetrataenia, la “corda bungee vivente” o per usare un’espressione maggiormente descrittiva e meno metaforica, quello che in molti chiamano il serpente più magnifico dell’intero territorio statunitense. Una vera gemma oblunga e sinuosa, dai colori nero, verde acqua ed arancione intenso, intervallati in una serie di strisce parallele accentuate dal rilievo delle sue scaglie. Che potreste forse riconoscere quando chiamato con il termine d’uso comune di serpente giarrettiera, nonostante la limitata somiglianza con il più iconico indumento di biancheria intima utilizzato fino all’inizio del secolo scorso, il cui scioglimento era considerato un simbolo dell’inizio della vita matrimoniale. Dopo tutto chi porrebbe in tale posizione delicata un rettile come questo, nelle parole stesse dell’unica vera sovrana di questo regno, la biologa dell’USGS (Servizio Geologico) Natalie Reeder, “Una delle categorie maggiormente incomprese ed ingiustamente odiate tra gli animali di questo mondo.” Soprattutto quando si considera la natura per lo più innocua dei suoi protetti, dotati di un veleno innocuo per gli umani e inoculato unicamente tramite l’impiego di una saliva lievemente tossica prodotta dalle gengive nella parte più retrograda della bocca. Il che potrebbe d’altra parte essere considerato come un problema di entità piuttosto significativa, quando si considera l’apprezzamento dimostrato attraverso gli anni da parte d’innumerevoli estimatori e collezionisti, così tipicamente inclini a catturare esemplari di questa notevole creatura, almeno fino alla proclamazione dell’Atto di Conservazione delle Specie a Rischio del 1966, il cui testo includeva il diritto per il Dipartimento Agricolo Statunitense di requisire terreni di particolare importanza strategica per assicurare la continuità di specie eccezionalmente rare. Una prerogativa forse mai esercitata in maniera tanto eclatante, quanto quella che avrebbe portato alla segregazione tramite installazione di un alto recinto di un appezzamento tanto esteso nella zona maggiormente popolosa di una delle città più significative dell’intera costa Ovest del paese…

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Il villaggio sul macigno che resiste alle correnti del progresso yemenita

Un tempo qui scorreva un fiume con un impeto selvaggio, sufficientemente colmo da scavare nella roccia, scolpendo forme frastagliate e disegnando canyon sulla superficie di una piana rigogliosa e piena di vita. Al termine dell’ultima grande glaciazione quindi, i continenti ormai posizionati nell’attuale configurazione, l’intera parte meridionale della penisola arabica divenne caratterizzata dall’attuale condizione climatica, di un paese più arido di molti, maggiormente incline all’effettiva desertificazione degli ambienti. Così l’antico letto del corso d’acqua, poi diventato un torrente, si trasformò infine in un wadi, valle secca per buona parte dell’anno tranne una breve ma intensa stagione delle piogge, non più sufficiente ad alterare ulteriormente il paesaggio. Di un luogo da cui ancora oggi, speroni scoscesi e preminenze emergono come molluschi attaccati al guscio di una colossale tartaruga, del tipo mitologico capace d’ospitare intere comunità umane. Molte parole sono state spese, e ricerche effettuate, su quale possa essere stata l’origine pre-islamica di quella che sarebbe stata identificata in seguito come cultura araba di base, indipendente dai confini tra califfati, emirati e moderne identità nazionali. Fino al raggiungimento di un consenso nei contesti di studio che vedrebbe proprio un particolare territorio dello Yemen meridionale, come possibile fonte originaria di un tale complesso di elementi culturali e schemi comportamentali della società. Ciò anche in forza di una serie di caratteristiche altamente distintive, tra cui trova una collocazione di primo piano l’affascinante architettura vernacolare locale, così straordinariamente rappresentata dal villaggio sopraelevato di Haid al-Jazil, capace di assumere l’aspetto attuale attorno al XVI secolo e lontano dall’autorità dei principali potentati medievali, come molti altri insediamenti della regione di Hadhramaut.
Spesso paragonato nelle trattazioni online a un luogo degno di comparire nel Signore degli Anelli e Guerre Stellari (per non parlare di Dune!), con chiaro riferimento alla sua fantastica collocazione distante da eventuali vermi delle sabbie, così arroccato sopra quella che doveva anticamente costituire un’isola lungo il corso del grande fiume dimenticato, esso compare infatti ulteriormente caratterizzato da una serie di oltre 50 edifici dalla forma squadrata, interconnessi da ponti e separati da stretti e angusti vicoli, del tipo idealmente associabile a innumerevoli scene d’avventura cinematografica ed esplorazione di culture radicalmente distintive, per non dire addirittura aliene. Eppure nella lunga storia della settima arte, il luogo geograficamente ed esteriormente più vicino a questo utilizzato come set fu la ben più grande città di Sana’a, dove venne girato nel 1974 “Il fiore delle Mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini, notoriamente un grande estimatore, come ebbe modo di dichiararsi a più riprese, dell’affascinante approccio yemenita alla costruzione di svettanti spazi abitativi. Ovvero i cosiddetti grattacieli del deserto, capaci di raggiungere fino a sette livelli sovrapposti grazie all’uso di una semplice struttura in legno e mattoni di fango, in cui il primo e secondo vengono dedicati alla funzione di magazzino, il terzo e il quarto sono salotti per gli uomini, il quinto e il sesto sale per le donne, e nel settimo risiedono i bambini, oppure le giovani coppie sposate. Una configurazione che senz’altro si trovava alla base, su scala forse più ridotta, del sistema organizzativo di questo villaggio nell’epoca d’oro della sua storia, quando qui vivevano forse centinaia di persone capaci di trarre sostentamento dall’allevamento di animali ed un sofisticato sistema di cisterne per instradare l’acqua giù dalle montagne circostanti. L’arrivo di sistemi sociali maggiormente organizzati, coadiuvata dall’aspirazione verso uno stile di vita più pratico e conveniente, avrebbe portato molti degli abitanti a trasferirsi in luoghi più conformi all’idea contemporanea di vita comunitaria, portando alla progressiva disgregazione di una tale antica magnificenza. Ciò in quanto gli edifici costruiti con materiali simili, per loro intrinseca natura, richiedono manutenzione continuativa nel tempo, pena il progressivo disfacimento delle mura con conseguente ingresso di termiti, capaci di erodere letteralmente le fondamentali infrastrutture lignee contenute all’interno. Un destino oggi toccato, come possiamo facilmente scoprire, ad una buona parte dell’antico Haid al-Jazil, abitato da sole 17 persone secondo il censo del 2004, probabilmente diminuite ancora nel periodo degli ultimi 15 anni…

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