La battaglia che condannò l’Europa

Battle of Mohi

In bilico sul ciglio di un tremendo cambiamento, il corso delle vicende storiche ha conosciuto dei momenti in cui tutto ciò che era avvenuto fino a quel momento, stava per essere vanificato dal verificarsi di una condizione esterna. Mentre gli avvenimenti futuri, più incerti che mai, si tingevano di un rosso intenso. Si dice: “Soltanto la peggiore crisi può permettere ai coraggiosi di scoprirsi tali” ma non è poi detto, in fin dei conti, che costoro sopravvivano per conoscere il domani. E fu così nell’aprile del 1241, proprio mentre tutti, dall’agricoltore con la falce rovesciata al nobile cavaliere, soffiavano contrariamente al vento nella speranza di arrestare l’avanzata del macigno, quello fece il metro necessario a rotolare fino a valle, travolgendo capra, cavoli e la casa. Poco importa, tutto scorre, il vento cambia…Così pochi mesi dopo, con la morte del Gran Khan, la situazione fu invertita, nuovamente. Colpo di scena, siamo tutti salvi! Ma se a quei tempi fossero esistiti i bollettini di guerra, se qualcuno avesse avuto modo di promuovere il proprio commento ai giorni prima del fortuito evento, se, se… Il titolo sarebbe stato, forse: “THE END” A tal punto fu terribilmente sanguinosa, nonché dimostrativa, l’epocale battaglia di Mohi.
Parliamo, in primo luogo, delle parti. A ergersi, indubbiamente suo malgrado, a santo difensore dell’intera Cristianità, in quel particolare caso fu il re Béla IV d’Ungheria, una figura storica poco meno che trentenne, che già nella prima parte del suo regno aveva dovuto affrontare non pochi problemi, ereditati da alcune scelte politiche non particolarmente fortunate di suo nonno, Béla III. Il quale, influenzato dalla lunga storia di Costantinopoli, dove era stato cortigiano in gioventù, aveva istituito una fondamentale serie di riforme, portate a termine dal figlio Andrea II, che permisero ai baroni e vescovi del regno di acquisire terre, e soprattutto poteri, che in molti avrebbero giudicati fuori scala alle loro prerogative nobiliare. Decidendo che la misura era colma, il sovrano aveva quindi tentato, negli ultimi anni precedenti all’invasione, di accentrare nuovamente lo stato sulla sua figura, sia attraverso l’esecuzione delle sue prerogative, confiscando tutto ciò che riteneva fosse di sua proprietà, sia con gesti simbolici, come bruciare le sedie della sala del consiglio, affinché i suoi sottoposti dovessero restare in piedi quando giungevano per chiedere il suo giudizio. Come sarà facile immaginare, simili gesti non fecero molto per renderlo benvoluto, al punto che, quando venne il momento di marciare contro il pericolo proveniente dal vasto Oriente, molti vassalli omisero di inviare le proprie truppe di rinforzo, limitando l’esercito a “soli” 50.000 effettivi (sia chiaro che, come per molte altre battaglie medievali, la conta dei partecipanti risulta essere tutt’altro che sicura). Certamente, più che abbastanza per conquistare un regno oppure due, soprattutto in quell’epoca disunita, ma appena pari, e invero anche sensibilmente inferiori, a quello che si sarebbero trovati ad affrontare di lì a poco, ovvero la testa di una creatura smisurata, simile a un serpente colossale, che già aveva divorato un territorio molto superiore a quello dello stesso Impero Romano.
Sarebbe facile, a questo punto, usare la metafora del grande drago. Ma la realtà è che quelle popolazioni mongole che fossero tendenti alla vita stanziale avevano, già da molto tempo, superato quella fase. Suddivise e classificate per colore, si erano divise in una serie di khanati, tra cui Orda Blu e Bianca, le quali, all’inizio del secolo XIII, si erano fuse sotto la guida di un valente condottiero, Batu Khan, nipote dello stesso Genghis, che quell’epoca era ormai deceduto da circa una ventina d’anni. E ciò che derivò da una simile fusione, temuto dalle genti di ogni popolo, avrebbe preso un nome dall’assonanza particolarmente significativa: Orda d’Oro, e in funzione del suo spropositato territorio, che si estendeva dalla Sarmazia a buona parte della Russia occidentale, già faceva tremare i monarchi d’Europa sui loro fragili troni. O almeno, quelli tra loro che fossero coscienti del pericolo, perché abbastanza prossimi ai confini del nemico. Ma verso la terza decade di quel secolo, la situazione era ormai fin troppo chiara. Tale era stato il tempo necessario, infatti, ai guerrieri sotto la guida di Djuci, figlio primogenito del primo gran khan, per conquistare il territorio intero del regno di Rus’, arrivando ad uccidere in battaglia lo stesso gran principe Jurij II di Vladimir. (Il presunto erede del grande impero sarebbe poi morto prima di salire al potere, all’età di 45-46 anni) Sconfiggendo gravemente, così narrano le cronache, anche i suoi alleati di provenienza turca, l’armata nomadica del popolo Cumano. Il quale, piuttosto che capitolare assieme alle alte cittadelle che gli avevano dato ospitalità, scelse di rifugiarsi in Ungheria, presso la corte dello stesso Bela IV.

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La sfida medievale del Baranta, arte marziale d’Ungheria

Baranta

La riscoperta e costante pratica di un’antico repertorio di tecniche guerresche, potenzialmente risalenti all’antica storia di un popolo, è sempre fondamentalmente positiva, poiché la sapienza è sempre utile anche se desueta, specialmente quando innegabilmente associabile a un sistema di valori e condizionamenti, sia sociali che privati, da sempre parte dell’inconscio collettivo. È un sistema complesso. È un simbolo imperituro dell’orgoglio nazionale. È uno stile di vita, libero e selvaggio. Ma anche e sopratutto, serviva a rendere temibili i cavalieri delle grandi steppe, coloro che verso la fine del nono secolo varcarono i Carpazi per scacciare i popoli stanziali dalle ricche terre ad est del Danubio, da cui far partire terribili saccheggi in quello che era stato, fino a poche generazioni prima, lo splendido e stratificato impero carolingio. Di certo, se avessimo modo di chiedere una valutazione a un fiero generale dell’epoca dei meriti strategici e combattivi dei Magiari, la confederazione delle sette tribù di lingua ugrica che sconfissero a più riprese, dapprima la popolazione turca degli Avari, quindi la Moravia, il Primo Impero Bulgaro e infine il Regnum Francorum orientalium, ovvero la Germania dei Teutoni, la risposta di un generale o mercenario d’Occidente non sarebbe stata piena di eccessive lusinghe: ciò perché il cavaliere dell’Asia siberiana, fin dall’epoca di Attila l’Unno, era solito impiegare approcci e stratagemmi, per la visione dell’epoca, tutt’altro che onorevoli. L’imperatore di Bisanzio Leone VI detto il Saggio (866-912) grande storico e commentatore della sua epoca, ne parlò approfonditamente nel suo trattato Tactica, descrivendo tra le altre cose un’approccio alla ritirata strategica associabile al tiro partico, dal nome dell’antica popolazione iraniana dei Parti, che consisteva nel mostrare la schiena al nemico, fuggendo rapidi a cavallo, soltanto per voltarsi all’ultimo momento, al fine di bersagliarlo di frecce tramite l’impiego del piccolo e maneggevole arco delle steppe. I guerrieri Magiari inoltre, egli ci racconta, combattevano con un’arma in ciascuna mano e spesso una lunga lancia sulle spalle, pronta all’uso in caso di necessità. Come guerriglieri, dunque, schermagliatori, esperti approntatori di trappole o assalti repentini e inaspettati, questi membri dell’orda che seppe farsi stanziale usavano spostarsi ancòra con un seguito di armenti e cavalli, finalizzato secondo alcuni a “farli sembrare maggiori di numero” scoraggiando così il nemico. Non che ne avessero davvero bisogno, o almeno così sembra.
Soprattutto guardando all’opera gli attuali migliori rappresentanti dell’associazione del Baranta dell’Ungheria settentrionale, ufficialmente fondata nel 2008 da Gábor Kopecsni, con il fine di raccogliere in un solo luogo alcune delle più preziose conoscenze sopravvissute all’antica genesi della propria identità nazionale. La prima e più significativa distinzione possibile tra questa evoluzione dell’antico repertorio, talvolta sportiva con finalità di competizione, molto più spesso etnica e finalizzata ad un rituale d’appartenenza culturale, rispetto alle più celebri arti marziali cinesi e giapponesi dell’epoca moderna, è l’assenza di una tradizione che può essere fatta risalire a un singolo maestro, proprio perché le singole componenti deriverebbero da un’aleatoria, quanto pervasivo, concetto di Sapienza Popolare. Il termine Baranta, stando alle divergenti fonti reperibili online, può avere diverse etimologie, tra cui l’evoluzione del verbo della vecchia lingua proto-ungara per “annientare”, piuttosto che quello riferito al concetto di “addestramento” e per metonimia del luogo effettivo in cui un tale compito veniva svolto dai guerrieri. Ma forse il significato maggiormente poetico ed interessante è quello citato in lingua inglese presso il sito stesso dell’associazione nazionale, che lo definisce in base ad antichi scritti come un appellativo onorifico per i “guerrieri del Sole” o [coloro] che si alleano con il Sole. E ciò deriva proprio dall’antico ruolo, una vera mansione sociale, che spettava ai guerrieri addestrati i nel corpus di discipline guerresche dei Magiari, essenzialmente uno dei repertori più versatili del territorio europeo di allora.

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Il carro armato che può spegnere gli incendi

Big Wind Tank

C’erano teorie, all’epoca, sul fatto che sarebbe stata la catastrofe ecologica più grave nella storia del nostro pianeta. 17 Gennaio del 1991, l’inferno sulla Terra: le forze armate della coalizione internazionale formata per insabbiare i sogni espansionisti di Saddam Hussein inizia l’attacco aereo sistematico dei bersagli strategici in Iraq e Kuwait, tra cui artiglieria, infrastrutture di comunicazione e fabbriche di armi. Verranno effettuate, nel corso dell’intera operazione Desert Storm, oltre 100.000 sortite, scaricando un totale di 88.500 tonnellate di bombe, con danni non indifferenti ai centri urbani e la popolazione locale; ma ciò non fu quasi nulla, in confronto alla risposta dell’esercito nemico. Rendendosi subito conto come mantenere lo schieramento su di un fronte così ampio fosse letteralmente impossibile, prima di ritirarsi i comandanti iracheni ordinano l’esecuzione di un piano di rappresaglia del tutto senza precedenti: far saltare in aria, con delle cariche posizionate ad-hoc, una percentuale significativa dei pozzi petroliferi del Kuwait. Tra i 605 ed i 732 impianti di trivellazione vengono immediatamente scoperchiati, dando luogo ad una nebulizzazione fosca e velenosa. Le colonne di fumo convergono naturalmente in una sola grande cappa, che giunge ad assorbire il 75-80% delle radiazioni del Sole. Il petrolio di ciascun pozzo, senza macchinari che ne dosino l’enorme pressione, fuoriesce con una potenza tale che non ha nemmeno il tempo di bruciare completamente. Così, attorno a ciascun luogo del disastro si formano dei veri e propri laghi incandescenti, che filtrando gradualmente tra le sabbie, vedono la trasformazione spontanea di 40 milioni di tonnellate di suolo in un’ibrido fra catrame e cemento, denominato tarcrete. Lo scienziato Paul Crutzen, con uno studio pubblicato sulla rivista Nature, dichiarò che ci trovassimo sulle soglia di un vero e proprio inverno nucleare, che avrebbe portato all’abbassamento repentino della temperatura del pianeta di 5-10 gradi, con conseguenze ecologiche del tutto deleterie. Il celebre divulgatore televisivo Carl Sagan paragona l’evento all’esplosione del vulcano Tambora del 1815, che secondo le cronache coéve privò il mondo dell’estate immediatamente successiva; ma in effetti nessuno, davvero, sapeva.
L’intervento è pressoché immediato: assieme alle truppe di terra, che iniziano la contro-invasione del Kuwait il 24 Febbraio di quell’anno, vengono spediti sul luogo i tecnici di 27 compagnie specializzate nel controllo degli incendi petroliferi, tra cui le statunitensi Red Adair, la Wild Well Control e i Boots and Coots, che cooperando con le maestranze di quei luoghi avrebbero fatto il possibile per contenere la devastazione. Anche gli interessi economici, inutile dirlo, erano preponderanti. Come ben sapevano i vertici dell’Iraq Ba’athista, le preziose risorse chimiche da loro incendiate avrebbero continuato ad ardere per un tempo variabile tra i 2 ed i 5 anni, mettendo in ginocchio non soltanto l’economia del proprio vicino geografico, ma anche quella di una buona parte dei paesi occidentali. Per queste ed altre ragioni, la battaglia fu pregna e ardente nelle retrovie, almeno quanto apparve a noi quella narrata dai telegiornali, con i continui aggiornamenti e i feed video provenienti dalle telecamera dei veicoli da guerra, in un nuovo stile dell’informazione che a posteriori sarebbe stato definito della “guerra videogioco”. Prima ed ultima? Chissà. Ma è innegabile il fatto che un veicolo come l’ungherese Big Wind, colloquialmente noto come Windy (il Ventoso) paia uscire direttamente da un RTS strategico dei primi anni 2000. È anzi probabilmente l’ispirazione diretta per l’estetica dei tank incendiari della serie Command & Conquer, benché presenti una significativa differenza: piuttosto che incoraggiare le fiamme, le combatte alacremente, in un’inversione di quello che era stato il paradosso del romanzo Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury, sempre attuale grido di allarme contro i mali del progresso disumanizzante. Si trattava, essenzialmente, della riconversione di un carro armato russo T-34 della seconda guerra mondiale, temutissimo dalla Wehrmacht hitleriana per lo spessore della sua corazza, con la torretta sostituita da una piattaforma speciale, progettata e costruita presso i laboratori della MB Drilling, divisione del gruppo MB dell’Oman. Sopra di essa campeggiavano, oltre a sei pompe ad alto potenziale, due turbine per aerei MiG a reazione, in grado di sviluppare una spinta equivalente a quella di un soffio dei Titani. L’effetto sul fuoco non è difficile da immaginare, nevvero?

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L’esperienza accidentale di essere sommersi dagli insetti

Sabula Mayflies

Un incontro certamente inaspettato, quello che ha coinvolto questi poliziotti dello Iowa chiamati sul ponte tra le cittadine di Sabula e Savanna, sopra il vasto e quieto Mississipi. Con la scusa che, emergenza! La carreggiata è diventata letteralmente impraticabile per la quantità di ali sfarfallanti, code biforcute e zampe arcuate di un particolare tipo di visitatori occasionali, se non proprio alieni nei fatti, per lo meno preoccupanti. Nonché problematici senza essere nocivi, semplicemente per quanto sono differenti da ogni altra specie di animali. Si tratta niente meno che di uno sciame di mayflies, mosche di Maggio, l’ultima generazione degli appartenenti a un genere d’insetti preistorici, che nel quinto periodo dell’era Paleozoica giungevano a misurare fino a 45 cm d’apertura alare. Ma i quali persino oggi, ben più ridotti nelle dimensioni (tra le specie innumerevoli, la media si assesta intorno ai 5 cm) possono fermare il traffico grazie alla loro semplice presenza, che può manifestarsi nei fatti in un qualsiasi periodo che vada dalla primavera all’autunno, non soltanto il mese da cui sono denominate. La ragione, chiaramente, va cercata nella quantità: immaginate un patto stretto tra tutte le nostre comuni mosche domestiche, che le portasse tutte a radunarsi dietro a un mobile, in attesa che la casa si sia momentaneamente liberata dai suoi proprietari. Quelle che erano soltanto una decina di ospiti indesiderate, aumenterebbero nel tempo e in modo esponenziale, per l’arrivo dei fratelli dalle zone circostanti. Finché in quell’attimo fatale di chiusura della porta, con un ronzio feroce, spunterebbero centinaia, quando non migliaia d’individui alati, diventando per qualche attimo di gloria le signore indiscusse del proprio territorio… L’unione, nella maggior parte dei casi, per gli insetti fa forza. E persino lo spietato ago della selezione naturale, manovrato dall’incedere dei predatori, non può che tendere verso il fatidico SI, quando le potenziali vittime sono tanto numerose da sfidare l’immaginazione, e così sacrificabili, individualmente, proprio perché vivono per poche ore. Ma il bello, dopo tutto, è ciò che viene prima: lungi dal materializzarsi per partenogenesi, come spesso si credeva anticamente, questi insetti restano uno sciame dall’attimo fulmineo della propria nascita e fin quando non raggiungono quel duro giorno della verità. Alla schiusa delle uova si presentano con l’aspetto di una creatura acquatica che misura dai 3 ai 30 mm, la ninfa (o naiade, dal nome delle protettrici divine dei fiumi dell’antica Grecia) con tre segmenti e un paio di zampe per ciascuno. In questo stadio, vivono per un tempo che può raggiungere anche i due anni, durante il quale crescono mangiando alghe diatomee o detriti, cambiando il proprio esoscheletro più volte. In alcune specie dell’insetto, raggiunte le dimensioni sufficienti si trasformano in pericolosi predatori, in grado di prosperare ai danni delle larve dei cugini. Finché ad un segnale a noi inaudibile, in effetti largamente misterioso, non decidono che è giunto il tempo di cambiare. A quel punto, ai nostri occhi d’imprecisi osservatori, tutto il resto viene cancellato! Emersione, migrazione e diffusione! Perché succede allora, come periodicamente narrano i telegiornali degli Stati Uniti, che interi edifici, o ponti, vengano ricoperti da queste creature, la luce del sole oscurata, come nelle piaghe bibliche, dal terribile vibrare delle loro ali. Il che sarebbe una tragedia se potessero arrecare un qualche tipo di danno, ma non c’è neanche il tempo di porsi la domanda, che le mosche sono già del tutto morte. Ma non prima che…

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