La vita proletaria all’epoca degli hoverboard

Hoverboard Tradie

Fluttuando silenziosamente da una strada all’altra, come un fantasma col gilet stradale, l’eccellente operaio della città di Brisbane svolge le mansioni predeterminate. È al settimo cielo: si sente con le ruote ai piedi. “Lavoro, lavoro!” È la gioia, il sentimento, la cognizione di stare assolvendo ad un bisogno che è anche e soprattutto il proprio, molto prima che del committente/pagatore. “Ah, che meraviglia!” Subissati dalle condizioni dei contratti a termine ed interinali, abbiamo finalmente riscoperto come battere su un chiodo in un cantiere, o usare un cacciavite in fabbrica per assemblar le macchine per il caffé con cialde, non fossero in effetti dei diritti di nessuno. Ma veri premi stipendiati, da porsi al coronamento di promesse fatte dal profondo della stessa essenza personale: io non mi arrenderò. Io ci crederò, fino alla fine. Fin da quando avevo 7 anni, ho sempre sognato di <inserire a seconda dei casi>. Io non sciopererò. Perché sarò dedito all’operazione, cosciente della posizione, perfettamente umano e addirittura più di quello; un ingranaggio del Sistema e del Mercato. O ancora meglio, un tradie, come dicono da quelle parti, giù agli antipodi tra squali e pinne di canguro.
Il manovale che sa svolgere almeno un mestiere immediatamente utile, e in funzione di quella rara cosa, può disporre di una posizione certa nella vita. Indipendentemente dalla firma apposta in fondo alla sudata busta paga. E c’è una sorta di ironia celebrativa, a mio parere, nel video buffo recentemente prodotto dal palestrato Jackson O’Doherty, nient’altro che l’ennesimo aspirante regista (comico) affiorante dalla distesa spesso radioattiva, ma pur sempre feconda per il frutto delle idee, che è il portale googleiano di YouTube. Che si occupa della particolare categoria citata e del suo ruolo nella società australiana, che si determina, ovviamente, in primo luogo dai fattori di contesto. E non è dunque vero, gente, che viviamo in un’epoca fondata sulla base della splendida tecnologia? E non è forse altrettanto reale e tangibile, l’umana esigenza di sfruttare gli strumenti a disposizione per massimizzare la propria fallimentare efficienza innata? Da che hanno inventato le biciclette, nessun bambino consegna più i giornali a piedi. E chi mai si affiderebbe a un fabbro che ad oggi, scegliesse nostalgicamente di battere il suo ferro sull’incudine impiegando dei martelli manuali… Non è poi così difficile da riassumere in una mera singola espressione, purché ci si affidi al darwinismo. Diritti del lavoratore: evolversi. Doveri del lavoratore: [evolversi]. Se Tizio e Coso fanno 9, per un prezzo di 5, mentre Caio ne pretende 6, egli può soltanto perire. A meno che inizi a fare 10 in cambio di 6, oppure 8 ma ne chieda 4. Perché la diversificazione dell’offerta è fondamentalmente, mutazione. In una ricerca continua di nuovi metodi per giungere a destinazione. Ed è il viaggio stesso, a questo punto, che diventa molto più movimentato…
Ora, io non so se sia effettivamente probabile, di qui a poco, il realizzarsi di questo scenario distopico, in cui l’uomo dell’elmetto bianco non è più pagato “per camminare” ma soltanto per spingere innanzi con il proprio baricentro quel curioso oggetto semovente, che potrebbe sostanzialmente descriversi come una versione ridotta ai minimi termini dell’originale monopattino auto-bilanciante, l’ormai leggendario Segway. Che prende il nome, per ragioni largamente ignote, dall’ipotesi cinematografica inserita nel secondo Ritorno al Futuro (1989) di un skate privato delle ruote, in grado di fluttuar liberamente nell’aere grazie a singolari meccanismi preter-gravitazionali. Un sogno fantastico ed irrealizzabile. Mentre quello vero, di hoverboard, le ruote le possiede, eccome. Due grosse ed ingombranti, prone a dare tutta una serie di problemi. Tanto da finire per essere odiato un po’ da tutti, negli ultimi mesi, incluso (strano a dirsi) il suo stesso inventore.

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I mostri meccanici che divorano la neve americana

Dc Snow Blower

Potreste averne scorto la sagoma in un notiziario. Oppure, forse no. Del resto, è una creatura semi-leggendaria, persino lì, nel paese dell’hockey e del Super Bowl. Giallo canarino, come si addice a tutti i mezzi da lavoro, con una bocca grande al punto da fare spavento. Ed una lunga proboscide posizionata in verticale, al cui imbocco, invece che due piccoli narici, figurava un grande buco. E tutto quello che mangiava, l’essere su ruote, da lì lo risputava con trasporto, all’interno di un cassone rimorchiato. I passanti con le telecamere ed i cellulari, richiamati dal frastuono, non potevano far altro che voltarsi. E battergli le mani.
Ancora una volta, Mastro Inverno è stato sconfitto dall’opera di un gruppo di campioni, saggi comandanti e alcuni dei migliori stregoni tecnologici sulla piazza, almeno tra quelli che si siano posti al servizio del bene pubblico della Nazione. In un’epica battaglia, che pare sia durata quattro giorni e quattro notti, con spada di fuoco, con benna rotante, con vite infinita, il gelido nemico è stato ricacciato indietro, tra le nubi fosche di perturbazioni climatiche distanti. Ma come per ogni grande vittoria contro l’insofferenza della natura, verso quelle pulci saltellanti che costituiscono la canticchiante umanità, non è davvero il caso di sentirsi sollevati; già i profeti sussurrano tra loro di una tremenda e oscura profezia, che riecheggia nel soffio del vento e l’ulular dei lupi: fra esattamente dieci mesi, col termine della stagione delle piogge, l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al Sole tornerà di nuovo sfavorevole. È noto che ciò porterà ad un accorciamento drastico delle giornate, in una tendenza che si era invertita in occasione dello scorso rituale della grande Festa. E sarà soltanto in occasione della prossima, che Mastro Inverno tornerà. Oh, non è così che sceglieremo di chiamarlo! Noi fantasiosi abitanti degli Stati Uniti, il cui passatempo preferito sono giochi di parole, la creazione di acronimi e di soprannomi. Vedi ad esempio, Snowzilla, Snowpocalipse, Snowcthulhu, Snowmageddon, Snowa-ton… Ecco, un particolare appellativo quest’ultimo, coniato al fine di contenere essenzialmente due parole: il termine di origine anglosassone usato per riferirsi al concetto di neve, e le ultime tre lettere del pre-nome celeberrimo di una città in particolare, la nostra capitale. Washington, District of Columbia (per gli amici, D.C.) Luogo dal clima subtropicale in cui cadono, generalmente, 39 cm di neve in TUTTO l’anno, ma che ne ha avuti 45 in una sola notte, sull’epico finire di questo memorabile gennaio. Una situazione che poteva giungere a paralizzarla per diversi giorni, mentre la popolazione attanagliata soggiaceva nell’attesa di un liberatorio squagliamento. Gente di fondamentale importanza tra cui v’era addirittura il presidente. Se non che…
Si dice che esista un libro, nel Dipartimento della Protezione Civile di ogni amministrazione cittadina, custodito gelosamente all’interno di un ufficio. L’ufficio, naturalmente, del Libro. Ora, non so se la sua copertina sia nera oppure rossa, o rilegata in quale pelle d’animale o d’altra creatura, benché tali considerazioni estetiche siano probabilmente da considerare troppo drammatiche da divulgare. Personalmente, avrei auspicato una colorazione esterna rigorosamente bianca, per meglio simboleggiare la funzione titolare di un simile tomo. Il quale viene definito, non senza un certo grado di responsabilità ed affetto, il grande libro della neve. Ne parlava già nel 1968 la rivista newyorkese Headlight, recentemente citata anche dal portale della ben più celebre Popular Mechanics, definendo in pochi termini il suo contenuto. Ovvero un catalogo di macchinari, sistemi tecnologici e know-how, rigorosamente categorizzato geograficamente, di quanto sia effettivamente disponibile nei vari depositi comunali propri ed altrui, delle città più o meno vicine, per combattere con enfasi, ed imprescindibile alleanza, il feroce ritorno del crudele Mastro Inverno. Perché l’unione fa la forza. Ma il sapersi separare temporaneamente dalle proprie stesse cose, forse, ancor di più!

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Carri armati agili come Leopardi da 60 tonnellate

Leopard Trench

Bernd, il pilota, d’un tratto sembrò scuotersi nel suo sedile sagomato: “Comandante, c’è una buca più avanti.” Momentaneamente perplesso, Webber alzò gli occhi dalla mappa topografica dell’esercitazione. Alla velocità lanciata di 65 Km/h, non c’era davvero molto tempo per pensare strategicamente, prima che gli ostacoli del territorio raggiungessero la parte anteriore dei loro cingoli determinando la riuscita con encomio oppure il fallimento più totale. “Argh, zum teifel!” Fece Erich, l’artigliere: “Finiremo nuovamente rimorchiati!” Fu a quel punto che Webber iniziò ad elaborare da un luogo recondito della propria mente il concetto per lui nuovo, che non soltanto si trovava chiuso in una scatola pesante come una locomotiva, ed analogamente soggetta a leggi della fisica persistenti ed impietose, dalla cui performance tecnologica dipendevano tutti i suoi futuri propositi di carriera, ma che a determinare il suo destino sarebbero stati un gruppo di ragazzi scapestrati, poco meno che ventenni, la cui massima affinità col compimento di un’operazione militare complessa derivava dagli interminabili pomeriggi trascorsi a far la guerra con tastiera e mouse. “Devo, devo, devooo…Freeeenareeeee?” diciannove secondi, diciotto. Dallo schermo ad alto contrasto disposto accanto alla sua posizione, Webber lanciò un rapido sguardo dietro al carro armato. Tra la polvere sollevata in una nube vorticante, si scorgevano i tipici cespugli scarni della campagna circostante Wiesbaden, dove quest’anno il comando aveva deciso di inscenare i grandi giochi di guerra congiunta assieme al reggimento della base americana. Naturalmente, l’esercito alleato non poteva schierare i suoi carri principali da battaglia in pieno territorio tedesco: era ancora fresca nella memoria la comunicazione studiatamente priva d’inflessioni, risalente all’aprile del 2013, tramite cui tutto il personale del gruppo operativo veniva informato che l’ultimo MBT statunitense lasciava finalmente l’Europa, chiudendo anche formalmente un vecchio capitolo di storia che in qualche maniera continuava ininterrotto fin dall’epoca della “liberazione” di Berlino. Quindici secondi, l’aspetto diseguale del suolo iniziava a farsi sentire, trasmettendo vibrazioni da un lato all’altro del veicolo. “Che tipo di buca?” Pronunciò, scandendo molto bene le parole, Meinhard, l’addetto alla carica delle munizioni. Analogamente alla situazione tecnica del già citato M1 Abrams, nel principale mezzo d’assalto dell’esercito tedesco era prevista la presenza di un quarto membro dell’equipaggio, con la mansione principale di spostare le munizioni dal compartimento stagno deputato fino all’apertura superiore del caricatore automatico di bordo, permettendo, se non altro, di tenere il materiale esplosivo attentamente separato e distante dai vulnerabili esseri umani incaricati di portare tale fino a destinazione, ovvero ben incastrato in mezzo alle spesse piastre dell’armatura nemica. Naturalmente, tale spazio nel corso dell’esercitazione era del tutto vuoto. Altrettanto naturalmente, Meinhard non aveva niente da fare, e quindi metteva bocca praticamente su tutto. “Silenzio!” Gridò Webber, appoggiandosi la mano destra sul berretto da ufficiale: “Erich, sei il solito idiota pessimista. Adesso per piacere volta la torretta di esattamente 180 gradi. Si, bravo, così. Bernd, rallenta, devo capire cosa abbiamo davanti. Meinhard, taci.” Era chiaro che voltare le telecamere, a quel punto, avrebbe richiesto un tempo troppo lungo. In un solo fluido movimento, Webber fece forza sulle gambe per alzarsi in piedi nello stretto spazio della cabina, con il risultato di trovarsi a premere direttamente contro il portello superiore. Obbedientemente, servomeccanismi del costo di diverse migliaia di Euro scattarono in posizione, e quella pesante cosa si aprì.
Ventitre secondi all’impatto. Il vento soffiava ferocemente. Ridotta la velocità del 25%, come da procedura concordata dai membri dell’equipaggio in caso di ordine non definito (Vedi quel bernese… Qualche cosa, l’ha imparata) il carro armato aveva adesso dinnanzi a se un ventaglio di svariate possibilità. Poteva fermarsi, tornare indietro, poteva addirittura accelerare. L’esperienza insegnava a quel particolare comandante di ben ventiquattro anni e un lungo corso teorico alle spalle, ad esempio, che il carro Leopard 2 aveva una particolare capacità innata di scavalcare gli ostacoli, grazie alla sua massa superiore spinta innanzi dal potente motore diesel MTU MB 873, quattro tempi, 47,6 litri, 12 cilindri e 1.500 cavalli di potenza. Se fosse stato un’auto sportiva, lanciata al massimo regime consentito dal suo rapporto peso-potenza, all’incontro con una trincea il suo fido veicolo si sarebbe solamente frantumato. Ma un carro armato ha molte frecce al suo arco…

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I sette addetti alla Marina Militare della Mongolia

Mongolian navy

Una singola nave, un lago ghiacciato per metà dell’anno, due marinai che sopravanzano le cinque dita di una singola mano. Soltanto quello corrispondente al pollice, che sa nuotare. Ovvero Batbayan, l’uomo che dichiara in discorsivo sottotitolo: “Vorrei un giorno riuscire a vedere il vero mare.” Perché: “Le acque dell’Hôvsgôl Nuur sono fredde e inospitali.” E conclude la comparazione: “Mentre il vasto Oceano…Io me lo immagino caldo, sereno ed accogliente.” Ehm, più o meno… Chi siamo noi per contraddire, dopo tutto, la singola risorsa umana più importante di un’intera forza nazionale, responsabile di innumerevoli salvataggi dei colleghi più distratti negli anni, ciascuno a sua volta costituente, se vogliamo, un settimo della Mongolia per mare. Dotata di… Un supporto a terra per gli aerei? Una nave da battaglia. Un trasporto per le truppe. Tutti ruoli, rigorosamente potenziali, rivestiti dalla loro poderosa Sukhbaatar III, un vascello di rifornimento d’epoca sovietica, a suo tempo orgogliosamente iscritto nei registri del governo locale come prima rappresentante di una lunga serie di navi sorelle, che in ultima analisi non ebbero mai occasione di concretizzarsi. E che oggi continua la sua antica missione, parzialmente dimenticata.
Si potrebbe definire l’insieme delle forze militari di un paese come una piramide invertita di colore verde oliva, in cui più si sale, maggiore diventa la quantità di uomini al comando di un solo ufficiale: squadra, sezione, plotone. Seguiti da: Compagnia, battaglione, reggimento. E poi brigata, divisione, corpo d’armata… Finché non si scorge sopra a tutto il resto, come un vessillo identificativo d’eccezione, quel termine mirato a definire tutti gli altri: l’Arma. L’Esercito Italiano, ad esempio, ne possiede tre: terrestra, navale ed aeronautica. Negli Stati Uniti d’America, a queste si aggiungono la guardia costiera e i marines. Ma detta stratificata suddivisione va ben oltre una semplice attribuzione delle responsabilità, giungendo a regolare anche la logistica in tempi di guerra, determinando chi debba ricevere i rifornimenti, quando, come e perché. Un sistema certamente antico, che in molti sarebbero più che mai pronti a far risalire fino ai tempi dell’esercito romano, per il semplice fatto che chi altro, prima o dopo di allora, poté mai vantare un simile curriculum di conquiste, guadagnate presso i campi di battaglia dell’intero mondo conosciuto? L’unica risposta possibile, nonché del tutto ovvia: loro, gli arcieri a cavallo d’innumerevoli tribù, instradati ad una singola missione dall’eternamente celebrato Gengis Khan. Indubbiamente uno dei maggiori capi dell’intera vicenda storica umana, almeno fino alla prime propaggini della modernità. Che seppe sfruttare, con il massimo profitto, un sistema per certi versi primordiale, eppure chiaramente efficiente, almeno quanto le coorti e le legioni di coloro che erano venuti prima: l’orda, singola e indivisibile, semplice, diretta, numericamente priva di limitazioni. Ovvero uno stuolo d’armigeri, che poteva raggiungere il milione di unità, nei periodi delle grandi migrazioni, come altrettanto facilmente suddividersi in innumerevoli gruppi e clan familiari, ciascuno totalmente in grado di sopravvivere per proprio conto. Ciò perché quando un’armata non ha frazionamenti numerici a condizionarla, tenderà naturalmente a contare sul suo naturale spirito di coesione. Ed è così che appena sette uomini, riescono a formare una Marina.

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