Elementare, Internet: non è una lavatrice per foche

L’avrete forse visto negli ultimi giorni, data l’alta circolazione sui social network, nei blog di settori e le innumerevoli copie caricate su YouTube, Instagram e altrove. Il video di appena 15 secondi in cui un pinnipede, chiaramente appartenente alla specie Phoca vitulina (o foca comune) sembra volare magicamente all’interno di un grosso anello immerso parzialmente in una piscina, in realtà definito nel titolo stesso come uno speciale passaggio pieno d’acqua molto trasparente, costruito “da qualcuno nel suo giardino”. Questo nonostante sul fondale siano visibili dei grandi edifici, difficilmente riconducibili a quella che potremmo scegliere di definire una sfera di tipo privato. Il che costituisce, ancora una volta, un significativo fraintendimento, laddove l’effettiva provenienza della scena è facilmente collocale, grazie ai numerosi materiali promozionali che ne raffigurano l’elemento centrale, fino al parco acquatico marittimo di Noboribetsu, situato nella parte meridionale della fredda isola giapponese di Hokkaido.
Potente riesce ad essere, nei campi della pubblicità e delle relazioni pubbliche, l’effetto di un gioco di parole degno di questo nome. E non ci sono dubbi che il termine zenigata, normalmente usato per riferirsi a un certo tipo di moneta giapponese dell’epoca pre-moderna con il buco in mezzo, risuoni familiare anche in Italia, a causa del suo impiego come nome del famoso poliziotto e antagonista della “buona” canaglia dei cartoni animati Lupin III. Il che non può costituire certo un caso, data l’eminente omonimia con il suo celebre collega di un’epoca distante. Quello stesso Zenigata Heiji (銭形 平次) protagonista d’innumerevoli romanzi, serie tv e film, che era solito catturare i ladri nella città di Edo impiegando l’abile lancio di quelle pesanti e formidabili monete, trasformate per l’occasione in proiettili precisi come quelli di un arma non-letale delle forze dell’ordine di epoca contemporanea. Ma del tutto identico è anche il nome utilizzato nella lingua corrente giapponese per riferirsi all’animale del nostro video virale, chiamato per l’appunto in patria d’adozione zenigatāzarashi (銭形海豹) causa la presenza sul suo manto vellutato di un alto numero di macchie a forma d’anello, per quella che potremmo chiamare una loro arbitraria quanto accidentale somiglianza nei confronti delle tradizionali monete di quel paese. Quale miglior trovata, detto questo, che mettere nel corso dell’orario d’apertura certi esemplari del comparto zoologico del parco all’interno di una così speciale piscina/palcoscenico, chiamata per l’appunto nella comunicazione in lingua inglese [The] Sealing Pool? Affinché potessero essere ammirati da un pubblico perennemente armato di cellulare-cum-cinepresa, verso l’ottenimento di una diffusione sistematica nella percezione fortemente globalizzata di un’Era.
La piscina con moneta “fluttuante”, di suo conto, non è che un singolo elemento degno di nota all’interno dell’ampio catalogo offerto dal parco, dominato dall’improbabile riproduzione 1:1 del castello danese di Egeskov, famoso anche per la quotidiana parata dei pinguini e lo spettacolo unico al mondo della vasca della Via Lattea, che ospita migliaia di sardine illuminate ad arte con bagliori cangianti, al fine di rassomigliare alla visione onirica di un sogno cosmico senza tempo. Come conseguenza di un’inclinazione non soltanto creativa, ma anche tecnicamente competente dello staff del parco, fortemente apprezzabile nelle implicazioni più profonde di quel brevissimo spezzone che ci ha consentito di conoscerne l’esistenza…

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Gustando il dolce nettare della più grande pigna messicana

Seduto allo sgabello comodo di fronte al bancone in legno, scorrevi con lo sguardo le bottiglie sopra gli scaffali antistanti. Posando a un certo punto gli occhi, tra le molte immagini variopinta, sull’etichetta gialla scritta usando i tipici caratteri usati per dare un’impronta mesoamericana: “Distillato del Vecchio Pappa Doo” con stampata a fianco l’immagine di quella che sembrava essere a tutti gli effetti una fetta d’agrume e sopra un curioso ventaglio di foglie, almeno in apparenza preso dalle mani degli schiavi nella più classica rappresentazione della corte di Cleopatra. Ma non meno egizia poteva essere l’atmosfera, col brusio costante della sera nella città di Oaxaca che penetrava dalle porte della pulqueria, mentre il barista con la camicia a quadretti, interpretando con esperienza la lingua internazionale dei gesti, versava nel bicchiere l’ambrato e ambito nettare di quel frangente fortunato. E giusto mentre ti chiedevi quando si sarebbe offerto, secondo l’usanza ben nota, di piazzare un piccolo pugnetto di sale sul dorso della mano sinistra, all’improvviso sentisti riecheggiare l’inaspettato suono: “PLÖF!” prodotto da un oggetto tozzo, tuffatosi dal recipiente dentro il piccolo acquario di vetro con la tua bevanda. Un piccolo verme di colore nero. “Ay, que suerte! Has buscado el gusano.” Fece l’uomo con un gran sorriso, notando quell’espressione vagamente perplessa. Quindi mimò il gesto di bere tutto il liquido tutto d’un fiato, provvedendo quindi a ingurgitare il piccolo ospite inatteso nel caso in cui fosse rimasto tra la lingua e il palato. Fu quello il preciso e drammatico momento in cui alcune domande iniziarono ad affollarsi nella tua mente…
Perché porta fortuna. Per provare che il liquore non è avvelenato. Per attrarre l’attenzione dei turisti. Per rendere omaggio a un’antica Dea. Queste sono le ragioni citate più frequentemente, assieme a molte altre, per la presenza considerata desiderabile della larva di Comadia redtenbacheri, in realtà non un verme bensì il bruco di una falena, strettamente associato con quella che potremmo chiamare forse la pianta maggiormente rappresentativa di questa intera nazione. Chiamata un tempo “fiore del secolo” in quanto si riteneva che sbocciasse unicamente al trascorrere di un tale lungo periodo, benché tale caratteristica fosse applicabile soltanto a certe varietà, per lo più settentrionali. Tra le oltre 200 specie in continua rivisitazione tassonomica, pere la quantità di tratti variabili, simili o diversi, di quella che sia scientificamente, che in lingua comune, viene definita in tutto il mondo come l’agave. Ora quando si parla di questa resistente ed adattabile succulenta, dalla riconoscibile rosetta simile a un ventaglio o un diverso tipo di corona ricoperta di spine, ciò che sorge normalmente nei pensieri è la bevanda particolarmente apprezzata della tequila, noto frutto della sua fermentazione così come il vino lo è dell’uva. Ma ridurre il vasto universo enologico di questo dono della natura all’umanità al solo prodotto originario dello stato di Jalisco, strettamente associato allo stereotipo del mariachi vendicatore col sombrero e il volto di Antonio Banderas e tratto in via specifica dall’agave blu (A. tequilana) sarebbe limitante quanto affermare che l’unico liquore italiano è l’amaretto di Saronno, oppure il Limoncello o la grappa Nardini; laddove straordinariamente ricca è l’offerta complessiva di quanto si possa trarre da una tale pianta, almeno quanto vari sono i metodi per trattarla e tirarne fuori i più misteriosi e mistici sapori. Tanto che si dice che il lavoro del distillatore in Messico assomigli più che altro a un’arte, con il prodotto di un singolo fabbricante che può variare sensibilmente nel sapore in base alla stagione, il clima e il semplice passare degli anni. Il che ci porta a pieno titolo, senza ulteriori esitazioni, nel regno precedentemente accennato del mezcal, ovvero “tutto quello che proviene dall’agave” ma non è tequila. Una categoria davvero interessante, come si può desumere dagli svariati video reperibili sul come nasce, esattamente, un tale nettare dal gusto spesso sorprendentemente intenso e carico di sottintesi…

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La tartaruga sputafuoco incaricata di custodire il cuore segreto della Provenza

E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…

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Londra e il culto mai cessato del biciclo dall’enorme ruota

Corsi e ricorsi, arbitrari punti situati lungo il moto circolare delle Ere, che a intervalli sorprendentemente regolari tornano a ripresentarsi sulla strada del progresso umano. Così mode, sport, divertimenti, dopo un tempo di ricarica nel dimenticatoio della società, riemergono dall’erba fitta, sporgendo come fossero la cima di una quercia dalle molte ramificazioni strutturali. É mai possibile, di contro, che qui vinca la stabilità rispetto all’onda distruttiva del progresso, continuando a mantenere quella porta spalancata, affinché gli appassionati di un particolare campo non abbiano il bisogno di mutare le proprie predisposizioni e preferenze personali? Soltanto se alla corsa circolare del trascorrere del tempo riuscissimo a far corrispondere le rotazioni a un ritmo equivalente di una seconda ruota, più piccola ma non per importanza, che per oltre un secolo ha seguito il movimento di costoro che, per una ragione oppur l’altra, hanno scelto di custodirne l’eredità.
Penny e farthing (in italiano, “fardino”) due monete contrapposte, l’una grande il quadruplo dell’altra che talvolta risultava fabbricata, per l’appunto, dal taglio e la fusione del più basico e diffuso conio degli inglesi. Parole che s’incontrano, piuttosto, nella tecnica veicolare di un famoso mezzo di trasporto, storiograficamente associato all’utilizzo da parte del tipico gentleman di quel paese, con tanto di tuba, scarpe con le ghette e fluenti code di un’elegante abito da sera. Benché il biciclo, come viene per antonomasia detto in lingua italiana questa peculiare alternativa al concetto di bicicletta, sia in effetti un’invenzione francese ed in particolare del meccanico parigino Eugène Meyer nel 1869, stanco di sobbalzare dolorosamente sul rudimentale velocipede dotato di pedali ma privo di sospensioni di quell’epoca, che oltre la Manica erano soliti chiamare non a caso boneshaker (let. “scuoti-ossa”). Così che creando per primo il concetto di una ruota che mantiene la sua forma grazie alla tensione di una serie di raggi, ed in funzione di ciò può essere adattata a dimensioni superiori senza un esponenziale aumento di peso, egli ben pensò d’incrementare fino al limite la differenza nelle proporzioni della prima e la seconda delle due interfacce con l’accidentato manto stradale, portando ad almeno un paio d’immediati miglioramenti. Primo, sollecitazioni notevolmente ridotte anche in assenza di un vero sistema di sospensioni o pneumatici ad aria, ancora ben lungi dall’essere stati inventati. E secondo, quasi accidentalmente, un aumento impressionante di velocità. In assenza di un sistema di trasmissione a catena, infatti, il valore energetico di una pedalata era una concreta risultanza dell’effettiva circonferenza influenzata da una tale spinta, arrivando a veicolare un concetto di movimento proporzionale all’effettiva quadratura di un tale cerchio in metallo. Così come di metallo era l’intero veicolo, per la prima volta, permettendo strutture molto più essenziali ed in conseguenza di ciò, leggere. Mentre la maxi-ruota veniva realizzata spesso su misura in base alla lunghezza delle gambe del suo conduttore, massimizzando il potenziale del suo sforzo di muscoli risolutivo. C’è davvero da sorprendersi, dunque, se una tale serie d’ingegnose soluzioni, ancora oggi riesce a mantenere la capacità di affascinare un pubblico di appassionati sostenitori e praticanti?

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