Un video accelerato con il restauro della principale cupola statunitense

Rotunda Timelapse

Con i suoi 88 metri di altezza e 29 di diametro, l’elemento architettonico che sovrasta la rotonda centrale del Campidoglio di Washington non riesce a raggiungere nelle dimensioni la copertura della crociera di San Pietro in Vaticano, che ne vanta ben 130 per 42. È tuttavia facilmente comprensibile come la sua imponenza, in una città in cui l’altezza degli edifici è tutt’ora limitata per una legge del 1899 dall’ampiezza della strada antistante, riesca a costituire un elemento di primo piano nel profilo paesaggistico, diventando un simbolo d’importanza comparabile al suo antesignano e modello del XVI secolo italiano, per lo meno dal punto di vista estetico. A quello culturale, forse, si sta ancora lavorando. Del resto tutti riconoscono istantaneamente, nel paese delle aquile dalla testa bianca, quel profilo ellissoidale e slanciato, con le 36 colonne del peristilio che sostengono la sezione a tamburo, dalla quale partono una serie di pilastri decorati, a loro volta sovrastati da un attico segmentato e un’alta lanterna (o tholus) ospitante la statua della Libertà Trionfante in Guerra e Pace, con spada, scudo, fiori e l’abito greco del chitone. Lo stile complessivo, naturalmente, è neoclassico, lo stesso osservabile negli altri grandi monumenti costruiti a partire dal 1800 sotto la supervisione dell’architetto francese Pierre Charles l’Enfant, già celebre ingegnere della città di New York. Ma la storia di questo edificio in particolare, che non fu progettato da lui in prima persona bensì da un’equipe fluida di personalità piuttosto divergenti, fu notevolmente travagliata, con diversi cambiamenti di rotta, problematiche funzionali ed in seguito, almeno una grande catastrofe: l’incendio appiccato dagli inglesi durante il conflitto del 1812, considerato una riapertura delle ostilità vissute ai tempi della guerra d’indipendenza. Nel 1854 poi, durante un significativo progetto di ricostruzione ed ampliamento, la prima versione della struttura in rame e legno fu giudicata troppo piccola e sproporzionata, portando alla messa in opera di quella attuale progettata da Thomas U. Walter, basata su una doppia struttura con travi in ferro e ghisa e posta in opera mediante l’impiego di una gru speciale, che non facesse gravare il peso nella sezione centrale del pavimento sottostante, giudicata troppo delicata. Risultava tuttavia difficile, soprattutto in un’epoca in cui non esistevano le simulazioni computerizzate, effettuare una stima dei presupposti di resistenza all’usura di un simile elemento costruttivo e del resto ci sono ben noti (o almeno dovrebbero esserlo) le problematiche vissute qui da noi tra il 1603 e la metà del 1700, quando la cupola pietrina andò incontro a significative opere di consolidamento.
Non c’è quindi tanto da sorprendersi se dopo “appena” un secolo e mezzo, la grande casa della Nazione d’Oltreoceano appariva ai suoi abituali frequentatori un po’ dismessa e rovinata (cadono letteralmente giù i pezzi) al punto da richiedere l’avviamento di un progetto da oltre 50 milioni di dollari, supervisionato dal fondamentale ente statale dell’Architect of the Capitol, costituito da “due dozzine di architetti” (cit. sito ufficiale) circa un centinaio di ingegneri e un numero imprecisato tra operai, tecnici, elettricisti, restauratori d’arte e contractors di altro tipo. L’opera pluriennale, in atto dall’inizio del 2014 e che dovrebbe essere completata entro la prossima inaugurazione presidenziale del 2017, si sta ora avviando proprio in queste settimane al suo punto saliente, con le impalcature esterne alla cupola, che ormai da qualche tempo l’avevano trasformata nella ragionevole approssimazione di una torta da matrimonio, che si vedono contrapposte strutture altrettanto imponenti all’interno dell’edificio, oltre ad un tendone con la forma di una ciambella concepito per salvare da eventuali detriti chiunque si ritrovi a passare sotto un simile cantiere sopraelevato. Questo perché il Campidoglio americano, come si può facilmente intuire dal nome, non è esclusivamente, né primariamente, un passivo monumento per turisti, né una semplice struttura di rappresentanza, bensì l’effettivo luogo in cui si riuniscono le due camere (Rappresentanti e Senato) che insieme costituiscono il Congresso degli Stati Uniti. Aggiungete a ciò il fatto che in questo paese permanga l’uso, condivisibile e proficuo per lo meno da un punto di vista prettamente ideologico, di una partecipazione diretta da parte dei cittadini alle attività di governo, con visite frequenti e interazioni coi politici, dialogo e consegna diretta di missive o petizioni, e potrete comprendere come la chiusura anche temporanea di una sezione del maestoso edificio comporti tutta una serie di problematiche procedurali, oltre a quelle appartenenti alla sfera meramente oggettiva dell’ingegneria.

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L’obiettivo fuori-fuoco che rimpicciolisce le cascate del Niagara

Niagara tilt shift

Un mondo dall’aspetto simile all’ambiente in cui viviamo, ma stranamente divergente nei dettagli di contesto: tutto è rapido, iper-attivo. I colori sono ancor più luminosi. E ciò che dovrebbe essere lontano, sembra invece assai vicino, perché visto dall’alto, e stranamente indistinto, in modo da dare risalto al resto della scena. Come nella tecnica fotografica del bokeh (dal termine giapponese boke confusione) in cui la profondità di campo viene artificialmente ridotta, attraverso la riduzione del rapporto tra lunghezza focale e foro d’accesso per la luce, verso il sensore o la pellicola dello strumento in uso. Valore che viene definito talvolta il numero f e che viene sempre condizionato, in fotografia, dalla distanza e dimensione del soggetto. Pensateci: quanto è tipica l’immagine di un piccolo animale, magari un uccello o un insetto, preso in primo piano con potenti cannocchiali, come sospeso nel colore verde indistinto dell’ambiente circostante…Mentre ottenere un’effetto simile nella foto di una quercia, o ancora peggio, una montagna, richiederebbe una macchina fotografica a misura di Titani.
Ed ecco ciò a cui stiamo assistendo con la fantasia, almeno in quello che parrebbe derivare dalla tecnica usata nel presente video del canale LittleBigWorld: ingigantiti fino all’altezza di 60, 70 metri, dominiamo il ruggente ferro di cavallo in fluido divenire, punto leggendario in cui il vasto fiume Niagara si getta lugiù dal dislivello che divide l’Ontario dagli Stati Uniti. Splendenti nei loro impermeabili rossastri, le turbe dei turisti che si affrettano a salire sulle imbarcazioni Hornblower e Lady of the Mists, due delle tante che permettono di vivere da vicino l’impatto di tonnellate cubiche d’acqua al minuto. Mentre noi, con la testa tra le nubi, delicatamente ci chiniamo ad osservare. Se soltanto avessimo un bicchiere, per saggiare il gusto rinfrescante di ciò che da un millennio erode il suolo dell’Onguiaahra, santuario del Dio Tuono…Sarà buono, certamente. Addirittura, inebriante. Utile a ricordarci che in effetti, ancor non comprendiamo quello che stiamo vedendo. Realisticamente, ci sono solo due maniere in cui una simile scena può essere stata ripresa: l’elicottero, oppure il drone telecomandato. Eppure, con l’aumentare della distanza dal soggetto ripreso, l’ottica ci insegna che il punto di messa a fuoco diventa necessariamente più inclusivo, tanto da poter contenere due isolati di un paesaggio cittadino, oppure lo spazio che separa una parete del Grand Canyon da quella antistante (tanto per restare in tema di meraviglie naturali). Mentre qui, nemmeno due filari degli alberi posti a cornice paiono altrettanto definiti. Esattamente come se si stesse osservando un modellino.
La fonte di una tale meraviglia visuale, come molti già sapranno, è frutto di quella serie di tecniche che oggi vengono chiamate, per antonomasia, tilt/shift (inclinazione/spostamento) benché tali termini, in origine, fossero riferiti ad un approccio fotografico dall’impiego assai più vasto e variegato. La cui origine va rintracciata nella Regola di Scheimpflug, secondo cui, nell’ottica: “É matematico che il piano focale, dell’obiettivo e del soggetto si incontrino sulla stessa stessa retta.” Il che significa che modificando l’inclinazione della lente al termine dell’obiettivo, tramite l’impiego di apposite soluzion ingegneristiche, si può ottenere un piano di messa a fuoco non più parallelo al soggetto ripreso, bensì obliquo. Perché farlo? Possono esserci diverse ragioni. La prima e maggiormente significativa, risalente all’invenzione di questa tecnologia, era motivata dal bisogno di riprendere soggetti estremamente grandi ed inamovibili, come strutture architettoniche. Il che presentava (e presenta) dei problemi, il primo dei quali è come far entrare l’intero edificio nella foto senza inclinare la fotocamera, dando quindi l’origine ad un fastidioso cambio della prospettiva; ovvero, dei palazzi rastremati verso l’alto, come piramidi dei nostri tempi. L’altro è quello di trovarsi di fronte ad un qualcosa che si sviluppa in senso trasversale rispetto alla propria posizione, estendendosi in maniera tale da costringerci a mettere a fuoco la facciata, OPPURE tutto il resto. Perché anche l’estensione della messa a fuoco di cui sopra, dovuta alla distanza del soggetto, ha dei naturali limiti, oltre i quali serve ricorrere all’aiuto della tecnologia…

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Un miraggio planetario nel deserto del Nevada

Solar System Model

Sembrano gridarlo ai quattro venti, renderlo palese con la forza dei propri semplici gesti: tutto quello che pensate di sapere sul Sistema Solare, non è proprio Sbagliato…Ma nemmeno utile a costruirvi un visione che risponda alla realtà. E la colpa, se vogliamo, è tutta degli illustratori che ci hanno portato, in anni ed anni di abbellimenti visuali, verso quel modello: la grande sfera fiammeggiante al centro. Una, due, tre, quattro palle dalle dimensioni molto minori, separate l’una dall’altra per lo spazio di qualche centimetro a dir tanto (Mercurio, Venere, Terra, Marte) ed altre quattro invece, dalle proporzioni medie, nonché vivacemente colorate: Giove, Saturno, Urano, Nettuno. Se conservate poi un ricordo del periodo antistante al 2006, a questo club ristretto si sarebbe aggiunto il “piccolo” Plutone, oggi declassificato a pianeta nano, poiché parte in realtà della lunga serie di oggetti rocciosi che formano la cintura asteroidale di Kuiper, analoga a quella interna della fascia principale. E persino lui così azzurrino (chissà poi perché) nel trionfo del paradossale, sarebbe stato lì, con l’ellisse del suo moto alla distanza media di 6 milioni di Km dal Sole circa, forse giusto un po’ di lato, su quel foglio. Messo, al massimo, lievemente in disparte. Il che non sarebbe stato un grandissimo problema, se almeno la rappresentazione convenzionale dell’intero meccanismo fosse in scala. Ma il fatto è che le vertiginose distanze che separano ciascuno di questi corpi, nella loro danza gravitazionale, è così estesa da sfuggire a degne rappresentazioni. Se volessimo raffigurare le distanze rilevanti, i pianeti dovrebbero essere puntini o al massimo cerchietti, e la pergamena usata per raffigurarli, srotolabile, fino alla lunghezza di diversi metri di assoluto nulla. Proprio per questo, le migliori rappresentazioni sono quelle digitali. Però talvolta, stanchi di guardare luci fittizie riprodotte dentro a un monitor, viene anche la voglia di dare una forma fisica a quanto descritto fino ad ora: il vero volto del Sistema. Più che altro perché, utilizzando un punto di osservazione inserito all’interno di un modello in scala, si potrà provare l’emozione di osservare ciascun elemento costituente, alla dimensione relativa che esso veramente avrebbe, nel corrispondente punto dello spazio interplanetario.
Ciò significa, come sapientemente dimostrato verso il termine del video di Wylie Overstreet ed Alex Gorosh, To Scale: The Solar System, che qualcuno potrebbe mettersi vicino a quella biglia che è nella finzione il pianeta Terra. Mentre il suo amico solleva in alto, con gesto teatrale, il mega pallone da spiaggia usato per il Sole. Mentre quest’ultimo, sapientemente manovrato, coprirà perfettamente il disco della nostra stella sopra l’orizzonte, nella perfetta riproposizione di un’eclisse fatta in casa, totalmente soggettiva quanto degna di essere narrata. Il concetto non è, in realtà, del tutto nuovo. Di modelli accuratamente proporzionati del nostro vicinato cosmico ne esistono dozzine: nei musei statunitensi, presso le istituzioni di studio e ricerca. Ad Elrlenbach sul Main, nel land della Baviera, ce n’è uno in scala 1:1.000.000.000, con sfere di metallo poste sopra grandi piedistalli. Il Sole, naturalmente, è dorato. L’università del Colorado vanta un progetto che si estende per l’intero campus, dal planetario di Fiske fino al termine del viale Regent Drive. Qualche volta, tali creazioni diventano dei veri monumenti, con ciascuna sfera montata in alto sulla strada, dislocata lungo uno spazio tra una città e l’altra, come fatto nell’esemplare vantato dallo stato del Maine, che misura complessivamente ben 64 Km e mezzo, dalla comunità di Presque Isle ad Houlton, sul confine con il Canada. Mentre il più imponente di simili costrutti si trova in Svezia, lungo diverse città presso la costa del Mar Baltico. Il Sole, qui, è rappresentato dallo stadio ad emicupola dell’Ericsson Globe, il più grande edificio del suo tipo, mentre i diversi pianeti sono attraenti opere commissionate ad artisti di fama, ciascuna nell’esatta scala di 1:20.000.000. Pensate, per iniziare a rendervi conto delle distanze relative, che i quattro pianeti del Sistema interno sono tutti a Stoccolma, mentre gli altri si trovano ad Uppsala (73 Km dal Globe) Gävle (143 Km) Söderhamn (229 Km) e così via. Per rispettare le dimensioni relative, quindi, la terra misura 65 cm di diametro, mentre Plutone appena 12. Il modello da due metri e mezzo di Urano, per motivi forse dovuti al doppio senso del suo nome, è stato più volte vandalizzato.
Ma il fatto è che qualsiasi ricostruzione di questo tipo, per sua inerente necessità, deve sempre fare i conti con le distrazioni dell’ambiente circostante: strade, lampioni, edifici… Mentre nell’idea di questi due autori, si è cercato di fare un qualcosa di totalmente diverso: il più piccolo modello che fosse anche osservabile da lontano, collocato in uno dei luoghi maggiormente affini al vuoto cosmico che abbiamo sulla Terra: il vecchio bacino endoreico (ex-lacustre) del deserto Black Rock, a decine e centinaia di chilometri dal più vicino centro abitato.

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Come, perché complicarsi il cubo di Rubik?

Cubefly

Senza rete, senza occhiali, senza piedi né pedali. Senza guardare. Senza toccare. Senza luce, tempo, spazio e spazio-tempo, metaforicamente ormai privati del principio generativo primo (l’Alfa) e del finale apocalittico (l’Omega) resteranno sublimati gli uomini di solida volontà. Per essere rapiti, da un vento intriso ed improvviso, trascinati fino in paradiso? Nossignore, Platone. Salva Nos-signore; giù nel mare delle cose, tra il flusso nevrotico dei gesti, esiste un’unica complessa soluzione che ha 54 facce differenti, ma diversi modi di arrivarci. Conoscerli richiede due strumenti contrapposti, stretti e lunghi, affusolati. Piante lunghe nel giardino delle dita, mani destre oppur sinistre per gestire, quando serve, l’ardua progressione di…
Quanto fa 3x3x3 in un cubo? La risposta non è 18, né 18.000 e perché mai dovrebbe, bensì 43 miliardi di miliardi di combinazioni. Ce n’è un numero maggiore, in un singolo giocattolo ungherese dell’omonimo inventore, dei granelli nella spiaggia di Alpha Centauri IV, diciamo lunga quanto l’equatore del pianeta intero. Se si potesse moltiplicare un Rubik di grandezza regolamentare per il numero di possibili posizioni dei suoi colorati componenti, se ne potrebbe ricoprire l’intero globo terrestre, con 275 strati sovrapposti. Questa è la natura della sua casualità. Eppure ci sono persone coraggiose, giorno dopo giorno, che lo affrontano a viso aperto, con le doti e il desiderio di riuscire nell’operazione: gira e rigira, volta una faccia, giungi all’epica figura. Di un’esistenza geometrica perfetta, in cui ciascuna delle facce rilevanti, sia del preciso sapore: fragola, banana, menta, arancia, melone e azzuro (yum, azzurro!) E nulla d’altro chiaramente, niente più di quello. Non è fantastico come il cervello umano affronta le ardue situazioni? Piuttosto che esaminare e progettare la sequenza di mosse che portano alla soluzione, tanto maggiori di quelle possibili in una partita a scacchi, a dama o addirittura a Go, il giocatore può procedere per tentativi. Del resto; l’unico avversario ufficialmente riconosciuto nella pratica del cubo di Rubik resta, per purissima convenzione, il più vasto ed incorporeo dei titani: Chronos, la lancetta dei minuti. Che talvolta, tanto è brava certa gente dall’impostazione iper-professionale, si trasforma in quella dei secondi, o dei minuti dei secondi e ancora meno, l’unica capace di distinguere tra chi ci mette: un lampo, un lampo e mezzo, mezzo fulmine col botto. Se ci provi non è facile, ma se resti lì a guardare, una sola conclusione: impossibile, inumano. Non ci capisco nulla e poi: “Perché dovrei provare!” prosegui un po’ piccato: “Sono un genio sregolato che ha saggezza e non si applica, io. Persino laureato (*sic. laureando)” Che la Sapienza, venga a me – o un qualsivoglia altro tipo di istituzione universitaria, preferibilmente superiore, come questa in cui si svolge chiaramente la stupefacente scena, tra i ridenti prati del tipico campus dei brusii: ecco Ravi Fernando, giocoliere rinomato, che non usa palle ma…

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