La marina thailandese si cimenta nell’hard rock

Thai Parade

Se soltanto l’ammiraglio Abhakara Kiartivongse, principe di Chumphon, potesse prendere atto di una simile dimostrazione di perizia bellica sincronizzata! Quarantotto giovani fanti di marina, dall’uniforme bianca e nera, che oscillano e mulinano i fucili al ritmo della musica degli anni ’80. Come le note si rincorrono su e giù per le scale elettriche di una chitarra, loro si flettono al rallentatore, quasi simulando l’avanzata inarrestabile di un’onda clamorosa; non fatta di molecole marine, ma di splendidi marine, i primi sulla scena, gli ultimi ad andarsene, semper fidelis (per analogia statunitense) verso la bandiera e il re.
L’occasione per l’exploit, così curiosamente calibrato sui ritmi sonori di questo genere di musica decisamente occidentale, è stata la parata militare delle forze armate thailandesi dello scorso 18 gennaio, che si tiene annualmente, in corrispondenza della memorabile vittoria del regno di Ayutthaya contro le forze della dinastia di Taungoo. Fu alla testa di una mandria di elefanti, nel 1592, che il re Nareusan marciò a vantaggio del suo popolo, conquistando l’imprendibile città di Pegu e tutta Burma. E tanto possenti, erano quelle bestie e quei soldati, che il nascituro Siam, per molti secoli a venire, non sentì mai il bisogno di difendere le proprie coste. Bastava, per farlo, la reputazione.
Finché, nel 1887, come risposta all’imperialismo delle grandi potenze europee, non giunse l’ora di formare finalmente un valido secondo braccio delle forze armate: dei timoni e degli scafi, per volere ad al servizio di re Rama IX. Di sicuro la disciplina, fra tutte le risorse belliche, è la più complessa da imbrigliare, mettere a frutto con sapienza. Per questo, come riformatore militare, venne chiamato un uomo fuori dal comune: il grande Kiartivongse (1880–1923), alias Dr. Phon, che molto aveva viaggiato, in Inghilterra e Francia, studiando le tattiche e i vascelli di quei paesi, sempre immersi tra le onde, aspiranti padroni degli oceani e ambiziosi dominatori di tutti e cinque i continenti. Dottore laureato, esperto conoscitore delle erbe, abile istruttore di Muai Thai, egli contribuì grandemente allo sviluppo della dottrina navale del potente Siam. Viene definito, ancora oggi, il padre della marina thailandese.
Ah, se soltanto potesse vedere questi suoi nipoti! Magari non direbbe: “Dannati capelloni!”

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La torre fantasma nel centro di Bangkok

Sathorn Unique
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Con luce fievole, l’architetto e l’archeologo si scorgono a malapena attraverso le buie sale di un labirinto verticale, testimonianza di aspettative trascurate. Così, studiando con occhio critico una delle più grandi metropoli presenti sul pianeta, è possibile individuare un filo conduttore che scorre attraverso le regioni della Storia, ininterrotto. Contro il cielo si stagliano gli stessi templi, mausolei e monumenti di epoche passate, riadattati per l’intercessione o le necessità d’avverse dinastie, nonostante l’erosione entropica degli elementi. E le stesse torri. Ci sono casi, tuttavia, in cui è stato necessario fare a meno di chi è venuto prima, lasciare vuote le sue possenti mura. Non si può recuperare ogni tipo di rovina, che sia d’altri tempi, oppure relativamente nuova, come questa….Sarà meglio incominciare dall’inizio. Che poi sarebbe anche la fine (di un’era).
Quattro secoli era durato, il regno di Ayutthaya, quello che gli occidentali chiamavano “il Siam”. L’erede più duraturo dell’epoca Angkoriana, fatta di templi e stupa colossali. Nel 1772, oramai, da sette anni era sotto assedio. 40.000 soldati, provenienti dal Myanmar, marciavano sulle sue terre, per la maggiore gloria del secondo impero del Konbaung. Tanto ferocemente combatterono, con tale spietatezza, che dell’antica capitale di quell’augusto impero, ahimé, non restò praticamente nulla… Bruciate le biblioteche, i tesori inestimabili e i palazzi del potere, tutto divenne cenere, tranne un’idea: che il popolo di Ayutthaya esisteva ancora, aveva la sua storia e manteneva il mito di un eroe, proveniente dalle vicine terre d’India. Rama. Anzi, pure meglio di questo, il futuro portatore del suo sacro nome. A fregiarsi di una simile onoreficenza sarebbe infatti stato, ben presto, Phraphutthayotfa Chulalok, l’amico personale e ministro dell’ultimo re di una dinastia, Taksin. E un buon generale, fu questo “erede” di un dio, aiutante del sovrano nell’era del tramonto. Nonché il più saggio degli amministratori, che sapeva come, persino in assenza dell’inarrivabile Trimurti, il mantenimento di uno stato richiedesse un’adeguata dose di quegli altri gesti fondamentali all’Induismo: distruggere, costruire. Perché, del resto, una volta incoronato, per analogia sarebbe si sarebbe richiamato alla settima controparte terrena di Vishnu, conservatore dell’intero Universo. La mano dell’uomo può bastare a preservar se stessa? Qualche volta, forse.
Fatto sta che nel giro di una decina d’anni (1782), da un piccolo villaggio sul fiume Chao Phraya, il cui corso si trovava a un centinaio di chilometri dalla precedente capitale, rinacque il seggio del potere dell’impero decaduto, in prossimità di un delta di primaria importanza commerciale, soprattutto visto l’arrivo in massa dei mercanti dall’Europa. Quell’agglomerato si chiamò, dapprima, Thonburi, e venne governato da Taksin, come re in esilio. Però di fronte a questa città, nel frattempo, ne cresceva un’altra, tutto intorno a colui che l’avrebbe resa veramente grande: il nostro  Rama I, di Bangkok. C’era un ansa nel sinuoso fiume, con la forma di una U.

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L’uccellino thailandese con la moto

Official Swick

Questa moderna Xena, principessa guerriera dei centauri motorizzati, percorre le strade d’Oriente con aria gagliarda e baldanzosa. La colorazione verde velenosa del suo cornuto veicolo sfuma, all’altezza del sellino, verso le pallide stelle su campo azzurro della Bandiera Americana. Le sue marmitte sono fucili, i manubri affilate roncole ricurve. Un paio di frange disposte ad arte si richiamano allo stile dei cacciatori pellerossa di quel continente particolarmente lontano. Un casco variopinto, indossato con la cinghia lenta, funge da emblema del clan, senza per questo rovinare la splendida chioma rosso scuro di colei che lo indossa. Ma questa feroce eroina dall’aspetto heavy-metal, degna di un fumetto degli anni ’70, non incute alcun timore o soggezione. Perché a seguirla c’è il suo fedele animale domestico: l’uccello. Se questo fosse un falco pellegrino, basterebbe a trasformarla in cacciatrice di taglie tibetana, accorsa in città per catturare un pericoloso criminale in fuga. Se fosse una civetta nera, sarebbe chiaramente una strega vietnamita, in cerca d’ingredienti per il suo pentolone fumigante di pozioni e filtri misteriosi. Se fosse un’aquila di mare, la donna assumerebbe subito l’aspetto di Chuck Norris, invulnerabile sceriffo in grado di sovvertire ogni legge della fisica in nome del popolo texano, non-plus-ultra dei grandi e potenti Stati Uniti. Fortunatamente, ad accompagnarla c’è un variopinto pappagallo, simbolo buddhista dell’altruismo.
Questo uccello viveva in una foresta di bambù sotto le pendici dell’Himalaya, insieme a molti altri  animali.  E poiché tutti gli abitanti del luogo si aiutavano a vicenda, le giornate trascorrevano in pace. Un giorno ventoso, a causa dell’attrito fra le canne, scoppiò improvvisamente un grave incendio. Allora il pappagallo, ricordando la cordialità dei suoi amici, volò presso un lago e si bagnò il più possibile le penne. Tornando quindi sopra la foresta, gettò ingenuamente quel po’ d’acqua tra le fiamme, sperando di salvare la situazione. Buddha, che osservava dalla vetta della montagna, gli chiese con gentilezza: “Pappagallo, il tuo gesto è molto nobile, ma cosa speri di ottenere gettando poche gocce su di un tale grande fuoco?” E lui rispose “Per salvare la foresta farò tutto il possibile, se non in questa, nella prossima vita”. Il vento continuava a soffiare senza posa.

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