Un ombrello che si ribalta per non bagnare il pavimento

KAZbrella

Nessuno, nell’intera storia del mondo passato e presente, ha mai parlato male della pioggia. La fredda, umida, battente presenza di ogni potenziale giorno, sia autunno, inverno, primavera o estate: c’è sempre spazio, nei nostri cuori e sopra le bagnate teste, per un pensiero da rivolgere a quel cielo che si scarica dei contenuti acquosi. Alla fermata dell’autobus, con uno zaino niente affatto impermeabile ma carico di contenuti particolarmente delicati. Per le strade del centro storico, i documenti sotto braccio, ove i cornicioni scarseggiano mentre la pavimentazione si fa sdrucciolevole, gli schizzi che rimbalzano per ogni dove. Ed è facile accogliere con gioia quella famigliare sensazione, degli abiti inadatti che lasciano passare tra le fibre il gelo, poi si fanno più pesanti, sempre più gradevolmente affini all’aria satura e in ammollo. Già, fra ogni potenziale condizione meteo, la mia e la vostra preferita, ora e sempre, una barriera per le cose normalmente semplici; ma che stranamente, spesse volte, può servire a farle divertenti. Per lo meno, differenti. È tutta una questione di equipaggiamento. Lo scalpellino che volesse trarre un capitello per colonne a da un gran blocco di marmo di Carrara, a farlo a mano, hai voglia a faticare! Ma metti in quelle stesse mani un martelletto pneumatico, la stessa cosa si risolve in una mera passeggiata. Come quella di un quasi dimenticato pomeriggio, sul finir d’Aprile pieno di incertezze, quando la mattina risplendeva il sole. E siamo usciti, nuovamente, senza ombrello! Assolutamente madornale. Non si può considerare l’unica arma utile e necessaria contro l’atmosfera rancorosa alla stregua di un qualsiasi mazzo di chiavi, portafoglio o cellullare. Come la katana, il parapioggia è l’anima del samurai moderno, ingombrante, problematica risorsa dei frequenti casi d’emergenza. Quindi perché mai, lo detestiamo?
Jenan Kazim, fondatore e mente operativa della startup KAZ Designs, risponde alla domanda con la messa in pratica di una teoria, quella posta a fondamento del suo rivoluzionario KAZbrella (s’inizia a intravedere un pattern onomastico dalla splendida continuità). Ecco l’effettivo ribaltamento delle circostanze: un ombrello che, grazie ad un sistema brevettato, si apre alla maniera di un fiore o antenna parabolica, per poi assumere, grazie a un semplice gesto successivo, la consueta forma concava dei suoi predecessori. Ma la vera bellezza dell’oggetto non è il suo funzionamento in quanto tale, ma piuttosto ciò che si riesce ad ottenere grazie a tale prassi operativa: ecco un dispositivo, per deviare il battere dell’acqua di ritorno sulla Terra, molto logico, dopo secoli d’attesa. Perché la parte che riceve il fluido pervasivo, alla chiusura dello stesso, si ritrova immancabilmente all’interno, risparmiandoci la nota problematica del gocciolìo, chiaro segno del passaggio di colui che viene dall’esterno, allora come adesso, quando c’è la nuvola che tenta di essere notata. Sarebbe il paradigma del paziente zero, colui il quale, contaminato dall’agente fluidifico del virus del bagnato, accidentalmente lo trasporta dentro ad un ufficio inconsapevole, tra le preziose scrivanie immanenti. Mai…Più? Punto primo. Ma KAZbrella ha ancora almeno due dardi nella sua faretra dei vantaggi, immediate conseguenze del suo approccio all’inversione delle aspettative: avete presente quel classico problema di aprire lo sportello dell’automobile, con lo scudo acquatico già pronto nella mano, ma ancora ben distanti dal poterlo aprire? Ah, la tremenda e bagnaticcia frustrazione. Perché la struttura ad ala di pipistrello della classica soluzione progrettuale, per effettuare la mansione rilevante ha pur bisogno di uno spazio laterale, tutto attorno ed alla stessa elevazione dal terreno. Mentre un sistema in grado di aprirsi verso l’alto, comparabilmente, non presenta un simile problema. Ed è un po’ la stessa cosa quando fra la gente, stretti fra una folla che sta già iniziando a innervosirsi per l’umidità crescente, si può far fiorire il proprio ombrello, senza occhio cavare, né colpo vibrare sulla tempia del vicino. Punto secondo e punto terzo, eccoli qui. Direi che giunti a questo remoto punto-a-capo, ci sarebbe ben poco da aspettare oltre per l’acquisto, se non fosse per il classico problema delle invenzioni contemporanee: ovvero, del KAZbrella già si parla online, mentre in effetti quello è ancora ben lontano dai negozi. Si trova piuttosto sospeso nel limbo metaforico del crowd-funding, in attesa che un sufficiente numero di persone già ci creda, metta i soldi sull’idea ed attenda con pazienza la riuscita dell’impresa commerciale. Ma l’acqua non aspetta nessuno e continua a cadere, imperturbabile e spietata.

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Vortici elettronici di lavatrici musicali

Sega Maimai

La tipica lavanderia a gettoni nello stile americano, se presa per il giusto verso, può costituire la metafora di questa stessa condizione umana. Vi si reca chi, provato dagli eventi, non può prescindere da un carico residuo d’esperienze. Gli abiti, la biancheria, i calzini; i cappotti, le giacche e le coperte; piccoli ciottoli sperduti sulla strada della vita. La cui essenza è vulnerabile ad un certo grado d’entropia: nulla è puro, tranne quel che è nel suo profondo, veramente, straordinariamente puro. Così è talvolta necessario, nonostante i molti impegni contingenti, prendere le proprie cose, metterle nel meccanismo. Pagare l’obolo e poi dare un La, la spinta di un pulsante che è il primo segnale dell’orchestra pulitrice. C’è un motore, la metafora dell’orologio. E il detersivo, polvere di stelle. Finché alla fine torna tutto come da princìpio, limpido, perfetto. Lavatrice non è un semplice modo di dire. Ma il candido monolito che fa impallidir l’incedere del tempo. Mentre gli utenti, fondamentalmente inermi innanzi a tale meraviglia, silenziosamente osservano, pensando: “Se soltanto esistesse un modo utile a perdermi in cotanta meraviglia. Diventare parte di quel flusso di depurazione, eterno, per definizione…” Ebbene, Sega, esiste. Megadrive, se c’è! Per Saturn, Jupiter e Master System, sotto l’occhio scrutatore dei pianeti, o forse del designer dell’azienda rilevante Ryuichi Taki (che ebbe a presentarcelo qualche anno fa in Giappone) giunse a palesarsi l’occasione, la risposta a quel bisogno della mente appassionata: mai più senza, MaiMai, un touchscreen di forma circolare. MaiMai, con otto tasti colorati sopra il bordo. Con telecamera, connessione a Internet, altoparlanti digitali! Ma cominciamo dall’inizio. Che nel caso specifico, vuol dire tutta un’altra Sala.
Come forse qualcuno ancora ricorderà, il videogioco in quanto tale ha già subito numerosi cambi di rotta evolutivi. Ciò che era un passatempo occasionale, frutto del trascorrere del tempo in luoghi di ritrovo specializzati, è diventato grazie all’evoluzione tecnologica un media alla pari con qualsiasi altro, praticato quotidianamente all’interno di tutte le case. Concentrazione assoluta delle menti correlate, ma distanti: quella del creatore, all’altro capo dell’asse spazio-temporale, assieme a quel colui che gioca, nel silenzio e nella pace del suo tempo libero, da solo. Cosa che non fu in origine, quando certi computer aziendali, desueti ma pur sempre in uso, avevano la dimensione di una scrivania. Non c’era, allora, il senso della versatilità assoluta dell’odierno mondo informatico, in cui lo stesso dispositivo può essere riproduttore musicale, workstation grafica, creatore dei mondi fantastici da visitare. Così ci si recava, con un carico di monetine, laggiù alla sala giochi, l’antonomasia del concetto di Arcade (galleria commerciale) inglesismo che al di fuori dell’ambiente madre lingua, ormai, vuole dire quella cosa specifica e soltanto quella. Un luogo caotico, con degli alti cabinati in compensato, variopinti, rumorosi. Dove il rombo dei motori aveva modo di mischiarsi con gli spari di fucili militari, musiche indistinte, grida dei guerrieri comandati in epiche battaglie – Toh, swah, Tatsumaki Senpukyaku! Per intenderci, figli dell’epoca-Playstation, non è che le case fossero del tutto prive di apparecchi in grado di emulare tali forme di divertimento. Ma la versione domestica di del volto di Ryu e Ken assomigliava più che altro, nelle parole coéve di un dimenticato recensore, al muso di uno Shih Tzu di Pechino! Mentre nulla, nulla raggiungeva l’assoluta perfezione della macchina costruita ad-hoc (poco importa che in effetti su molte board si potessero cambiare i giochi) o per lo meno il fascino, l’emozione di giocare, ma in luogo pubblico, fra gli occhi appassionati degli astanti. Così era un tempo, e almeno in un certo paese, così ancora è.
Il Giappone, come ben comprende chi se ne interessa, è fondato sopra una cultura di assoluto sincretismo. L’eleganza assieme alla semplicità, la concisione che non soprassiede le metafore. E poi soprattutto, quel che viene tanto spesso snocciolato, analizzato da interi gruppi di studio: antico e moderno, fusi fervidamente assieme, per creare quella mescolanza che è il presente delle cose di ogni tipo. Tra cui l’intrattenimento digitale, che lì, soprattutto, ancora può fregiarsi della diffusione di quei luoghi che oramai, altrove, sono stati sostituiti dall’onnipresente lavanderia a gettoni. Quindi la domanda è questa: cosa può portarti, giocatore, a visitare un luogo simile, quando la miniaturizzazione dei componenti d’oggi ti permette d’eguagliare in casa, e invero con un buon PC persino superare, quanto di meglio possa essere collocato alla portata di urti, manomissioni ed utilizzo della collettività brutale? Un sistema di controllo senza precedenti, forse.

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Con l’orchestra punk-informatica nella valigia

Arganalth

Certe percezioni sensoriali vengono reinterpretate sulla base del bisogno e desiderio. Quando Kathleen Hanna, amica di Kurt Kobain, scrisse sulla parete di casa sua l’ormai celebre frase “K. Smells like Teen Spirit” si dice che l’indimenticato musicista, sempre il solito visionario, fosse stato fin troppo pronto a interpretarla come una metafora del nascente spirito anarchico dei primi anni ’90, connotato dall’importanza del punk rock come suo nume tutelare, l’unica espressione artistica capace di portare quella passione sotto gli occhi del rigido conformismo. Ma l’aneddoto ufficiale, ormai largamente noto, racconta tutta un’altra storia: che lo “spirito di gioventù” verso cui faceva riferimento la ragazza, altro non fosse che il nome di un comune deodorante, quello usato dall’allora fidanzata del cantante dei Nirvana. Eppure, non è forse vero che un odore ha la capacità di essere associato al suo contesto, facendo da punto di partenza per un’inscindibile catena di ricordi? La voglia di eccedere, lasciare un segno. Le manifestazioni, le proteste, i raduni dei conto-corrente fuori squola: tutto questo, e molto altro, può effetti rinascere dall’industriale commistione di un’aroma o due, semplice sostanza del supermercato, eppure indissolubilmente legata al ritmo di un’intera exgeneration. Siamo tutti l’amalgama della serie di esperienze vissute. Ma quelle che lasciano maggiormente il segno, talvolta, appartengono alla sfera del subliminale…
È un suono che tormenta cigolando, che distrae con scatti, blocchi e bozzi l’audio di colui che “ascolta” oppure “guarda” lo strumento sensoriale del sistema: il monitor sfolgorante, con il suo seguito di altoparlanti. Mentre la vicenda videoludica, o in alternativa, il gesto del grafico/musicista sulla sua Amiga (primo vero computer multimediale) raggiungeva l’ora culmine della sua progressione, c’era sempre questo ritmo simile a un ronzio, ma più profondo. Come il verso di un’ape di metallo, il grido di duecento pesci ringhianti intrappolati in un barile di silicio; il ronfante espletamento del cinghiale tecnico al risveglio dall’inverno. Quel frastuono che teoricamente doveva essere ignorato, ma come si potrebbe mai soprassedere alla cagnara, il bailamme, la gazzarra di una piccola testina, magnetica o così si spera, che agitata da un minuscolo motore, correva avanti e indietro, avanti e indietro, come l’ultimo dei Pac Man sregolati! Ben conosce un simile problema, anche l’utilizzatore di un qualunque dispositivo informatico raffreddato ad aria, la cui voce si scatena, progressivamente, all’aumentare dell’impegno di giornata. Che poi sarebbe questa, la sublime problematica di base: se una stufa consuma 500 watt, ed un computer/Playstation consuma 500 watt, non è che l’una li usa per fare calore e l’altro invece muove le sinapsi dei suoi calcoli virtuali, solamente; l’energia elettrica, iniettata nei nanometrici circuiti di un moderno processore, non può fare a meno d’incontrare la comune resistenza dell’attrito e sfrigolando, corre avanti. Lasciando scie di fiamme in mezzo ai cieli del colore di un televisore non sintonizzato sul canale (cit.) O per lo meno, così sarebbe, se non fosse per l’utile apporto delle masse d’aria di passaggio, controllate grazie alla potenza di un due-tre ventole rotanti. Una corsa contro il tempo. Questa è soprattutto la voce dei computer, oltre alla musica dei samples digitalizzati. Non l’ottima fedeltà di un disco ottico letto da un laser e a meno che non s’intenda, con quest’ultimo, il fluttuante sobbalzare del braccetto ben oliato. Ma qual’è il sassofono di quella razza plasticosa, quale il pianoforte, il flauto fischiettante? La risposta giace tra la plastica di un recipiente utile ai viaggiatori.

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È il fuoco elettrico che fa l’acciaio

Steel Arc Furnace

L’azione tipica di un drone è ormai davvero chiara agli occhi, come alle orecchie, di chi sperimenti quotidianamente i video del suo sfarfallare: sollevarsi gradualmente, sorvegliare un’area, producendo un suono che sarebbe un po’ come il verso di una zanzara, almeno se quest’ultima pesasse un paio di 600 grammi e non avesse quindi l’obbligo di mantenere un velo di silenzio. Quanto spesso, nell’ultima ripresa aerea di una valle verdeggiante, di una spiaggia assolata, delle pecore in Nuova Zelanda che vagheggiano sui prati sconfinati, l’unico aspetto auditivo che ci viene riservato è il galoppare di una dolce musica di sottofondo, rilassante quanto vagamente…Incolore. Perché chiaramente, l’alternativa sarebbe: ZZZZzzzzZZZZzzzzZZZZ […] Bello si, però decisamente inappropriato. Chissà che non sia stata proprio questa la ragione teorica dell’originale scelta della HEIGHT TECH GmbH & Co. KG, azienda tedesca produttrice di esacotteri con agganci per montare videocamere professionali, che aveva deciso di mostrare il proprio ultimo prodotto non nei soliti contesti naturali, bensì all’interno della cosa più vicina agli Inferi si questa Terra: la sala principale di un forno elettrico a fusione, dove si separano gli uomini veri dagli stipendiati, così come le scorie ferrose dal metallo carbonifero, linfa vitale dell’industria odierna. Fuoco, scintille e un gran rimbombo clamoroso, eclatante, marasma della sordità incipiente. Ecco forse, ripensandoci, saranno meglio le note di un crescendo armonico tradizionale. E poi, ci sono da considerare le aspettative di genere. Agli effetti sonori, pensateci voi.
Perché forse, rassicurati dal concetto classico secondo cui l’elettricità artificiale sia condotta attraverso il metallo, ma non il legno o gli altri materiali, davvero non possiamo già renderci conto del fragore che risulta dall’arco elettrico di una fornace; se non grazie a un parallelo prettamente metereologico: vedi quel fulmine con lampo e tuono. Tre fenomeni diversi eppure strettamente collegati. In effetti, risultanti dalla stessa contingenza naturale: l’elettricità accumulata negli strati elettrici dell’atmosfera che ad un certo punto tràcima dal suo vaso (di Pandora) e corre con sonoro botto fino al suolo, distruggendo ciò che trova lungo il suo percorso (aerei, alberi, persone, ovini, bovini…) Ciò detto va considerato come, dopo tutto, persino la folgore di Zeus non sia che una scintilla, benché grande quanto il vasto cielo. Questo perché consta si, di un potenziale elettrico tale da ionizzare addirittura 2 Km di pura aria, rendendola conduttiva, ma dura solo una manciata d’attimi immanenti. Mentre un arco artificialmente prodotto vedi la fornace, quello può prolungarsi all’infinito. O almeno finché la rete elettrica locale sarà in grado di rifornire il suo trasformatore certificato per un massimo di 60,000,000 volt-amperes. Il quale tempo tecnico, in effetti, è molto meno lungo dell’eterno incedere delle stagioni nonché, niente affatto stranamente, limitato alle ore buie, quando le compagnie elettriche alzano le soglie di consumo, abbassando parimenti le tariffe offerte ai loro clienti preferiti.
Il grande drone sorvolava, quindi, questa sala illuminata dalle fiamme di un processo tanto eccezionale, eppure stranamente quotidiano in molti dei paesi più industrializzati al mondo, incluso il nostro. Se uno qualunque degli operatori, distratto dal suo delicato compito di giornata, avesse guardato verso l’alto per un singolo momento, avrebbe visto questa vespa ingegneristica guidata da remoto, con un moto significativo di sorpresa! L’oggetto del telecomando era diventato, per la prima volta dalla sua costruzione, totalmente stealth: chi lo sente sopra il suono di un piccolo tuono, però lungo dal tramonto all’alba, punteggiato dalla sferragliante aggiunta di rottami da fluidificare verso il passo di rinascite future….

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