Frank Lockhart, il genio che fu vittima dell’auto progettata per tagliare il vento

Guardare alle date di nascita e di morte in un archivio anagrafico del primo terzo del Novecento offre uno scorcio scoraggiante di quanti giovani perdessero la vita prematuramente, nelle circostanze di alcuni dei conflitti più gravosi mai sperimentati nel corso della storia umana. Con un fattore ulteriore individuabile nell’avveniristica tecnologia affermatasi in quegli anni, di motori sempre più potenti, auto ed aeroplani mostruosamente veloci pur essendo privi dei gradi di sicurezza e ridondanza dei loro esiti venuti col passaggio delle decadi ulteriori. Caso limite, poi, era quello degli innovatori, personaggi coscienti di mettere a rischio ogni cosa, la loro stessa vita, per la promessa di lasciare un segno indelebile nella cronologia di ciò che amavano più di ogni altra cosa. Un pensiero che possibilmente attraversò la mente fervida del pilota automobilistico ed ingegnerie autodidatta Frank Lockhart, in quel dannato ultimo pomeriggio del 25 aprile 1928, mentre saliva a bordo dell’automobile dipinta di bianco denominata “Black Hawk”, ovvero Falco Nero. Destinata a diventare (galeotta fu una semplice conchiglia) il punto di arrivo, ma anche l’inizio, della sua leggenda.
È un comune modo di dire il fatto che per diventare immortali occorra prima morire, il che è vero in molti campi ma non quello delle gare automobilistiche. Come sembrava intenzionato a dimostrare il giovane di Dayton nato in Ohio ma cresciuto in California meridionale, con una solida passione per tutto ciò che aveva quattro ruote e riusciva a correre sulle strade asfaltate del Nuovo Mondo. Al punto da riuscire a costruire all’età di appena vent’anni, senza nessun tipo di eduzione specifica, un’auto da corsa a partire dalla vecchia Ford Model T di famiglia, che iniziò a guidare riportando inaspettati successi nelle gare regionali organizzate su sterrato dalla AAA (American Automobile Association). Per poi passare ad una Ford preparata dalla Frontenac, a bordo della quale dominò lo strapotere delle scuderie più blasonate del suo piccolo angolo della nazione. Questo finché nel 1926, notato dal team del facoltoso imprenditore e guidatore a tempo perso Pete Kreis, poco prima che quest’ultimo partecipasse alla prestigiosa Indianapolis 500, non venne assunto come pilota di riserva incaricato di guidare la sua Miller con il motore turbo. Dopo aver convinto il suo datore di lavoro a fargli fare alcuni giri di prova, Lockhart dimostrò allora le sue eccezionali capacità, riuscendo ad ottenere dei tempi sul giro che non solo superavano quelli di Kreis, ma costituivano addirittura dei nuovi record di categoria. E questo nonostante l’esperienza stessa di correre in un autodromo, con curve paraboliche costruite in assi di legno, fosse un esperienza del tutto nuova per lui. E fu così che il proprietario dell’automobile, dicendo di essersi improvvisamente ammalato, optò per lasciare il proprio posto al giovane promettente, che ricevette in questo modo l’opportunità di farsi un nome. Che seppe sfruttare a pieno, dopo una sessione di qualifiche sfortunata che lo vide relegato alla ventesima posizione, risalendo ben presto ai primi posti e riuscendo a passare in testa successivamente ad alcuni rapidi rovesci di pioggia al settantaduesimo giro, fino alla gloriosa vittoria finale. L’impossibile era avvenuto, come poche altre volte nella storia: un completo debuttante aveva vinto la gara di Indianapolis. La strada per la gloria era aperta: Lockhart acquistò la Miller e ne comprò anche una seconda, vincendo a seguire ulteriori quattro gare di campionato. Tanto che alla fine del 1926, riuscì a classificarsi secondo. Il futuro appariva particolarmente roseo, per questa promessa poco più che venticinquenne del mondo dei motori…

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L’epica discesa e l’ardua risalita dalla duna più elevata del Nuovo Mondo

Una strana scena, se si osserva in video senza avere un utile quanto evidente prospettiva di riferimento. L’atmosfera è quella di una spiaggia, in cui la gente sembra essere impegnata in un particolare tipo di maratona. Alcuni corrono, gioiosi, verso l’obiettivo. Le loro braccia che si agitano mentre laboriosamente tentano di rimanere in equilibrio, i piedi sollevati a malapena prima di avanzare un altro passo verso l’obiettivo non del tutto chiaro. E in senso opposto, stranamente, un gruppo in chiara contrapposizione, di turisti in fila indiana o che tale potrebbe essere definita. Se non fosse, più che altro, una fila di orsi o di primati, che arrancando a quattro zampe tengono la testa china, concentrati in quello che parrebbe a tutti gli effetti essere un compito particolarmente gravoso. Una metafora dell’intero ciclo dell’esistenza umana, dalla gioventù alla vecchiaia? Oppure l’esito di un luogo in cui si spende fino all’ultimo scampolo d’energia residua, dovendo quindi ritornare al punto di partenza nell’unico modo a cui è ancora possibile far ricorso? In un certo senso, più la seconda ipotesi che la prima. Benché occorre precisare: è il viaggio stesso, l’obiettivo. E che viaggio… Una realtà che si palesa non appena l’occhio dell’osservatore digitalizzato viene mosso in direzione laterale. Rendendo fin troppo palese una pendenza dolorosamente prossima ai 45 gradi, di per se capace di estendersi per un dislivello pari a 50 metri. La cui esperienza, se fossimo in montagna, sarebbe giudicata un’impresa degna di essere chiamata vero alpinismo. Ma poiché siamo sulle coste del grande lago Michigan, il suo nome è Sleepin Bear Dune(s). La “Duna dell’Orsa Addormentata” con riferimento alla leggenda dei nativi Ojibwe, secondo cui la madre di una cucciolata di plantigradi che aveva attraversato le acque aspettò la propria prole sulla riva, per un tempo molto lungo, finché dovette rassegnarsi al loro improvvido annegamento. La che l’intercessione del Grande Spirito avrebbe trasformato loro in isole (South & North Manitou) e sepolto lei sotto la sabbia, affinché potesse continuare ad aspettarli per l’eternità. Non propriamente un lieto fine, a dirla tutta. Tranne che dal punto di vista di chi ama i paesaggi senza termini di paragone, meritevoli destinazioni per l’incrollabile entusiasmo del popolo di Instagram, così come lo erano stati per coloro che erano dotati degli strumenti simbolo della fotografia analogica convenzionale. Giacché non v’è luogo alternativo, in tutti gli Stati Uniti, in cui sia possibile discendere un declivio altrettanto scosceso in sicurezza. Sotto ogni punto di vista rilevante, tranne quello del possesso di energie residue sufficienti a risalire da dove si era venuti…

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Macronectes, la draconica presenza che dipinge con il sangue i mari del sud

La creatura campeggia nell’inquadratura al centro di uno spazio circolare, delimitato con cornice tondeggiante da un profilo lievemente irregolare. Vermiglio è il suo perimetro, come figura il tono delle linee oblique che s’intersecano da un lato all’altro della scena, come fili dell’ordito di una sciarpa da indossare a Natale. Gli occhi sbarrati e le ali parallele al suolo di una spiaggia che compare in parallasse, nel frattempo, sembrano esprimere un senso di cupa soddisfazione per l’uccello, dal cui becco uncinato cola un rivolo che tinge il sottogola e le piume grigie del suo petto reclinato in avanti. Non ci vuole poi un tempo eccessivamente lungo, per comprendere che quella macchia è SANGUE, come altrettanto si dimostra essere, dopo un’analisi più approfondita, l’intero pigmento utilizzato per il macabro decoro di questa scena. In cui la telecamera, o punto di vista, è stata coraggiosamente messa non vicino bensì dentro la carcassa di quella che può essere soltanto una foca, attualmente sottoposta al duro compito di dare nutrimento a colui che potrebbe essere, o meno, il suo uccisore. Di sicuro, difficilmente la tipica ossifraga meridionale (Macronectes giganteus) potrebbe essere incline a formalizzarsi. Lontana parente dei gabbiani in quanto volatile marino membro della famiglia dei Procellariformi, caratterizzati dal possesso di un distintivo tubulo per l’espulsione del sale contenuto nell’acqua marina che riesce entrargli nell’organismo, essa condivide con il più diffuso, comune e comparativamente piccolo esponente del clan dei Laridi le abitudini alimentari fortemente opportuniste, nonostante la preferenza per la carne di creature più grandi ne faccia l’approssimazione più vicina di un avvoltoio o aquila diffusa principalmente a meridione del 60º parallelo. Oltre ad essere, in assenza degli artigli prensili del tipico rapace di terra, in questo caso sostituiti dai ben più pratici (nel suo contesto) piedi palmati, un vero e proprio carro armato inarrestabile tra i pinguini e i cuccioli di foca.
Con i 99 cm di altezza, fino 205 di apertura alare ed un peso massimo di 5,6 Kg, accompagnati da una propensione al combattimento e l’aggressività degni di essere l’invidia di un grande felino africano. Finanche alla conferma del beneamato detto latino Canis canem edit, vista la predisposizione ben documentata al cannibalismo, anche in assenza del periodo di magra che nel mondo animale anticipa comunemente l’occorrenza di una tale prassi senza ritorno. Così veniva documentato, per l’appunto, in uno studio del 2021 redatto da scienziati dell’Università della Valle del Río dos Sinos capace di confermare effettivamente un sospetto lungamente mantenuto in considerazione tra coloro che si erano trovati a stretto contatto con simili creature. Giacché non esiste praticamente nulla, a questo mondo, che possa rallentare la famelica esistenza di un’ossifraga intenta a cacciare…

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L’incredibile appetito per le alghe della pecora di mare

Nell’isola scozzese di North Ronaldsay, parte del gruppo verdeggiante delle Orcadi settentrionali, il fenomeno ricorrente della bassa marea accompagna i ritmi ed influenza il comportamento dei più numerosi abitanti di quel tratto di terra. Candidi quadrupedi comunemente associati a fattorie ed allevamenti delle valli verdi site nelle aree emerse più grandi, le pecore da queste parti sono infatti inclini a cadenzare i propri ritmi circadiani e digestivi sulla base delle fasi dell’influenza lunare. Ed ogni volta che la sabbia nel bagnasciuga torna ad essere battuta dai raggi del sole, assieme all’organica abbondanza dei rifiuti trasportati dalle onde, esse ritornano a esplorare le propaggini più estreme della Terra. Impegnandosi a fagocitare, un morso dopo l’altro, i capelli aggrovigliate delle sirene.
Gli ovini in questione, membri indiscutibili della solita specie a noi precedentemente nota (Ovis aries) sembrerebbero infatti aver sviluppato un appetito e gli strumenti necessari per riuscire a trarre nutrimento dal secondo tipo di vegetazione, contrapposto agli alberi, l’erba e le piante che siamo soliti vedere nel corso delle nostre scampagnate: esse mangiano, da un tempo estremamente lungo, preferibilmente ed obbligatoriamente le alghe trascinate a riva, soprattutto quando appartenenti al genere Macrocystis o kelp, tradizionalmente usate in questi luoghi per la preparazione del carbonato di sodio o potash. Un’indubbia fonte di sostanze nutrienti e preziosissime vitamine, sebbene sbilanciate dal punto di vista dei metalli chimici ed inclini ad inibire l’assunzione da parte dell’organismo degli erbivori del necessario apporto di rame. Da cui l’alterazione pregressa, nel sistema digestivo delle nostre belanti fabbriche di lana, tale da permettergli di massimizzare l’assunzione di questa sostanza, rendendole inclini ad intossicarsi col consumo reiterato di qualsiasi altro tipo di alimentazione. Una caratteristica talmente rara in natura negli animali di terra, che l’unica altra specie sufficientemente studiata a presentarla è l’iguana marina delle Galapagos (A. cristatus) giunta d’altra parte ad un simile stile di vita per l’effetto esclusivo del proprio ambiente naturale. Laddove la North Ronaldsay sembrerebbe essere stata incoraggiata, almeno in parte dall’influenza e dalla mano operosa dell’uomo. Sebbene studi scientifici recenti abbiano ridimensionato, almeno in parte, tale narrativa. Riconfermando l’inclinazione degli animali ad adattarsi verso determinate pressioni ambientali come un’inclinazione generazionale di lungo respiro, piuttosto che la rapida e spontanea reazione a fattori trasversali dall’impostazione relativamente transitoria. Vedi la costruzione, molto amata da disegnatori di arbitrari confini, di un muro…

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