L’uomo che sorvola le Canarie in bicicletta

MacAskill Gran Canaria

Sarebbe difficile, compiendo un giro sulle moderne strade asfaltate dell’assolata isola di Gran Canaria che è la seconda più popolosa del suo arcipelago, non notare i segni incancellabili dell’onnipresente e sempre pesante mano dell’uomo. Eh, già! In questo luogo di lingua e municipalità spagnola a largo del Marocco, che sarebbe graziato secondo alcuni studi dal migliore clima della Terra, è stato doverosamente permesso alla natura di mantenere la sua fragile presa su ogni cosa. Ma mai, eccessivamente in profondità… Osserva, per esempio, l’antica capitale coloniale del Re di Castiglia in questi distanti lidi, Las Palmas. Un centro abitato la cui area metropolitana ospita, a seconda della fonte del censo, tra le 650.000 e 700.000 persone, giungendo a costituire la nona o decima metropoli del suo paese, nonché principale insediamento sito tra le sponde dell’Oceano Atlantico. E poi, tutto quello che c’è intorno: stabilimenti, grandi hotel, giardini, attraenti parchi giochi…L’industria del turismo, qui, è fondamentale per l’economia, e non mancano del resto i grandi nomi delle compagnie internazionali, sempre pronte ad investire in tali luoghi, senza veri termini di paragone altrove. Il visitatore proveniente da lontano, se propriamente detto, certe cose dovrebbe essere pronto a Notarle. Visitare terre straniere significa, prima che ogni altra cosa, trasformarsi in ottimi osservatori dell’ambiente circostante, pronti a corroborare i pregiudizi con l’esperienza vissuta sulla propria stessa pelle. Il che significa, inerentemente, che il ciclista trial ed ottimo intrattenitore scozzese Daniel “Danny” MacAskill, detto molto giustamente Megaskill, qui non ci era giunto con l’impostazione del turista. Bensì al fine di lasciare un segno, fortemente personale, nei ricordi e le vicende dei suoi spettatori d’occasione (“si ringrazia la brava gente di Gran Canaria” specifica la descrizione del video) che gli hanno aperto le porte onde permettergli di procedere, dal basso verso l’alto, fin sui tetti digradanti verso il mare. E quindi avanti, sempre più oltre, fino al baratro che segna un confine geografico d’Europa, nella grande zuppa oceanica perfetta per freddare quel bisogno di trovare un senso al moto ciclico dei suoi pedali.
Tutto inizia da un sorriso, di lui che entra, casco in mano e bici al seguito, all’interno di un ambiente che potrebbe rappresentare la camera di un albergo, ma è probabilmente il semplice salotto di un appartamento. “Un’altra giornata di sole alle Canarie! Il vento è tiepido e l’oceano, come sempre, meravigliosamente calmo…” Annuncia con voce roboante una vetusta radiolina, sintonizzata su un canale di fantasia che si auto-nomina Radio El Scorchio, mentre il visitatore col suo armamentario, senza starci troppo a pensare, apre la porta finestra e si ritrova sul balcone dalla generosa metratura, in mezzo ai panni stesi ad asciugare. Inforcata quindi la sua bici, con un netto colpo di reni, balza sopra il parapetto e…Va. Verso il grande vuoto (un suicida? Giammai!) O almeno così sembra, se non fosse che un sottile muro divisorio, già nascosto dall’inquadratura, basta a condurlo fino al tetto successivo, con soltanto un mezzo metro a separarlo dal prossimo segmento della sua pericolosa spedizione. Non avrebbe mai potuto dunque lui, giunto a un tale punto delicato e in bilico sul grande tutto, fermarsi…

Leggi tutto

La soluzione tecnica del ponte volante

Vizcaya bridge

Mentre premi l’acceleratore e pensi: si, sono un veicolo che traccia la sua linea nello spazio definito da un percorso, che conduce da A a B. Un’entità continuativa, nel tempo e nello spazio, connotata dal procedimento umano di far funzionar le cose in un modo che possa definirsi vantaggioso. Perché ciò che si sposta, inerentemente produce (movimento? Sentimento?) Ed è in questa visualizzazione geometrica, l’astrazione a fondamento della stessa civiltà. Perché nella realtà dei fatti, non esistono disposizioni longilinee di un conglomerato di materia. Non importa che siano atomi, metri quadri d’asfalto, oppure singoli granelli di una spiaggia senza fine, tutti gli elementi materiali dello spazio misurabile sono essenzialmente questo: una serie disordinata di punti. Che dovranno singolarmente ospitare gli pneumatici di un’automobile soltanto per una manciata d’istanti, qualche secondo al massimo, prima che questa bruci carburante sufficiente a ritrovarsi altrove. Perché, allora, disseminare i nostri preziosi spazi di strutture permanenti, brutture grigiastre che permangono, anche trascorso quel momento della verità? La ragione è in realtà di tipo puramente pratico: nella maggior parte dei casi, non è possibile fare altrimenti. Ancora non esiste un tipo di strada che può “arrotolarsi” o “sprofondare” dopo l’utilizzo, restituendo la campagna ai suricati ed ai cerbiatti della germanica Schwarzwald. Mentre nel caso specifico del ponte, ecco…
Fucine fiammeggianti spinte a funzionare con la forza delle fiamme e del vapore, torreggianti ciminiere che tracciano pennacchi deleteri; verso la fine dell’800, l’intera Europa stava attraversando un periodo di tremendi cambiamenti. Per la prima volta, da che l’umanità era esistita, l’entità del lavoro svolto non era più direttamente proporzionale al numero di persone coinvolte in un’opera civile (volontariamente o meno)  ma una risultanza della quantità di materiali e risorse immese dentro quelle fabbriche del mondo. Bastava, così, che un uomo giungesse a corte con un sogno sufficientemente convincente, perché il progetto ricevesse la firma corretta, e gli ingranaggi cominciassero a girare. Individuo fortunato costui che, in questo nostro ennesimo caso, aveva il nome di Alberto Palacio ed almeno un punto estremamente positivo sul curriculum, l’aver studiato a lungo in qualità di discepolo, alle dipendenze del celebre architetto Alexandre Gustave Eiffel. Che giusto pochi anni prima, in un epico 1889, aveva portato a termine quella torre, costruita con finalità del tutto temporanee, che di lì a poco si sarebbe trasformata in simbolo di tutti i francesi.
Che fare, dunque, da amministratori di una delle regioni più importanti per i commerci marittimi di allora, la Biscaglia della Spagna settentrionale? Ingenti risorse finanziarie + il bisogno di costruire infrastrutture nuove = urge un telegramma al costruttore più in voga, o in alternativa, la figura più simile a disposizione. Ovvero, guarda caso, proprio Palacio. L’oggetto e il contenuto di questa saliente comunicazione, a quanto possiamo facilmente immaginare, evidenziava la necessaria messa in opera di un nuovo ponte sul fiume Nervión, che attraversando la città di Bilbao finiva per agire più a valle come anti-economica divisione tra le due comunità contrapposte di Portugalete e Las Arenas. Ma un simile tributario dell’Oceano Atlantico, fondamentale via di transito per i natanti, non poteva certo essere bloccata con una struttura statica, a meno che fosse in qualche modo in grado di lasciar passare le navi. E si era ancora ben lontani dal disporre degli approcci, oggi dati per scontati, dei ponti mobili a sollevamento azionati da varie tipologie di argano. Così il sapiente ingenere, aiutato da un collega francese di nome Joseph Arnodin, decise per l’occasione di rendere finalmente reale il progetto che aveva aleggiato, da un periodo di circa vent’anni, tra i diversi municipi europei soggetti a simili necessità. Oggi si ritiene che il primo a concepirlo fosse stato l’inglese Charles Smith, che l’aveva proposto per le città di Hartlepool, Middlesbrough e Glasgow, ottenendo sempre una risposta negativa. Tutto è più difficile, quando non si dispone di una fama conclamata. Si trattava di quello che oggi viene definito un ponte trasportatore, o in alternativa, del cosiddetto traghetto volante. Che poi sono due modi per dire che c’era una gondola, ovvero un letterale tratto di strada sradicata da terra, sospeso con dei cavi di metallo (o pali di sostegno) e fatto transitare, grazie all’uso di un motore, da un lato all’altro di un binario posto in alto. Con sopra tutto il carico di gente, veicoli e/o animali eletti al ruolo di attraversatori. Certo, a noi moderni, vedendo una simile complessa soluzione, potrebbe venire da esclamare: “Bello, ma quanto potrà mai essere efficiente, da un punto di vista economico?!” Molto più di quanto si potrebbe credere, questa è la risposta.

Leggi tutto

I Mori e i Cristiani nell’eterna battaglia di Alcoy

Moros y Cristianos

Ah, si: guarda. Chi è quell’uomo incoronato, sopra il carro ricoperto dai festoni e in una pioggia di coriandoli gettati sulla strada? Chi mai potrebbe essere costui, se non re Giacomo I d’Aragona, conquistatore della Valencia, della Linguadoca e delle isole delle Baleari, fiero condottiero, deviatore delle frecce assassine, filosofo e primo scrittore autobiografico della sua epoca. Intento a nominare per l’ennesima volta, tra i bimbi della città di Alcoy in Alicante, qualche nuovo armigero, nobildonna o generale, al fine d’aiutarlo nel prossimo passaggio della guerra senza fine, rimessa in scena tutti gli anni in occasione di una data dedicata alla memoria: l’onomastico di Giorgio il cavaliere, verso il termine d’Aprile. L’occasione, ormai da molto tempo denominata d’Importanza Nazionale, della locale festa dei Moros y Cristanos, durante la quale sfilano intere generazioni di guerrieri, in schiere tanto fantastiche quanto ordinate, ciascuna ispirata a questa o quella tradizione, con qualche infiltrato di moderni film e videogiochi. Ma bando alle formalità: già dietro il castello artificiale, costruito come palco del momento culmine della sfilata presso la Plaza de España, si preparano i protagonisti del secondo giorno di festività. L’inimìco supremo, quel Mohammad Abu Abdallah Ben Hudzäil al Sähuir, brevemente detto Al-Azraq (l’azzurro, dal colore dei suoi occhi) comandante arabo che nel 1276, quando questa città segnava la linea di confine tra due mondi totalmente differenti, sfidò il potere del sovrano europeo. E poi fallì, eppure…Sarebbe difficile non ammirare addirittura lui, con le schiere allegoriche dei “cattivi”, un po’ Immortali persiani, un po’ membri di tribù africane, o persino, perché no, abitanti del pianeta Cybertron, tornati indietro nel tempo per rappresentare un male spettacolarmente puro. Come l’altro lato di uno specchio illuminato, che lascia passare i raggi alterni della verità. Tutto in nome di…
Un Dio misericordioso, un Dio comprensivo e tollerante. Persino, nella sua accezione più spiccatamente medievale, magnanimo verso i più implacabili dei peccatori, purché appartenenti a quel contesto che ha il nome della cristianità. Ma sopra a tutto questo, come sua connotazione biblica presunta e ancora largamente dimostrabile, supremo esecutore di un sacro senso di giustizia, sia verso l’individuo che sul passo e il senso della Storia. Non che Egli potesse discendere ancora da una nube, come ai tempi d’Abramo, per condurre alle crociate i cavalieri in arme. Non personalmente, almeno. La teologia era già troppo sofisticata per questo, nei tempi di alabarde o mazze incatenate. Però al risuonare di una tale frase: “Deus Vult” difficilmente interi eserciti potevano restare indifferenti. E non era insolito, nelle cronache tra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, che si finisse per parlare di questo o quel santo, la spada stretta saldamente in pugno, comparso in cielo con il compito di segnalare l’ora e il tempo di lanciarsi nella carica finale. Nella maggior parte dei casi, questo è soprattutto incidentale, l’imago sfavillante era concessa solamente a chi era in grado di annotarla: l’arcivescovo che accompagnava il re, i più ligi comandanti o redattori di complessi resoconti e biografie. Loro e non il povero fante di prima linea, cui bastava il risuonare o l’eco di una tale forza immisurabile, l’orgoglio del signore in Terra e/o di quell’Altro, per concludere la propria vita tra le frecce, il fuoco e il mulinare delle sciabole dei Mori.

Leggi tutto

Il problema di chi corre coi tori

Tourada

Parte del corpus di tradizioni secolari dell’isola di Terceira ma poi mutuata dall’intero arcipelago delle Azzorre, la tourada à corda è sostanzialmente un diverso tipo di corrida, in cui nessun toro viene intenzionalmente leso, ma sono piuttosto gli uomini più coraggiosi del paese, i loro figli ed alcuni turisti dal notevole entusiasmo, a finire gioiosamente calpestati, spinti contro un muro, percossi con trasporto dalle punta delle corna del bovino. Le quali vengono oggigiorno, per fortuna, racchiuse da involucri o tappi di cuoio, concepiti appositamente per fermarne la penetrazione nelle carni del malcapitato di turno. Per fortuna, dico, perché almeno a giudicare da questo compendio d’episodi accidentali messo assieme dal fotografo Gabriel Alves Vieira, che si è guadagnato dal 2012 oltre 9 milioni di visualizzazioni in crescita costante, non è affatto insolito che in questo evento vinca il toro. Innanzi tutto perché, un po’ come nelle celebri fiestas di San Firmino a Pamplona, la corsa non si svolge in un’arena, bensì lungo l’intero corso principale delle maggiori città oltre quelle coste, in un vero pandemonio di schivate, salti e tentativi malgestiti di gettarsi a terra, con l’illusione che la bestia sia più incline a correre dietro le persone in movimento. Il che talvolta è vero, ma in determinati casi… Al signore fatto rotolare sul selciato del caffè d’angolo, a quell’altro con la schiena alla fontana, mentre l’animale tenta di spingerlo col muso dentro la scultura (ehm, scusa per le punte) all’incredibile frangente di chi scappa in acqua, quelle volte in cui il tragitto si conclude in spiaggia, ma le corna lo raggiungono lo stesso, perché i quadrupedi sanno nuotare fin da giovani e persino in tarda età. E poi all’uomo la cui caviglia resta impigliata nella corda, trasformandolo nel contrappeso odiato dell’essere terrorizzato e in fuga; vorrei chiedere, vi state divertendo, persino adesso? È una questione dalle approfondite basi sociologiche, quella che trova genesi nel desiderio di mettersi talvolta in massima difficoltà. O come in questo caso, un effettivo stato di pericolo, un cui può bastare un passo falso, un’attimo di distrazione, per finire vittime sacrificali del frangente costruito dall’ansiosa collettività. Così ogni anno, nelle Azzorre come in Spagna, c’è qualcuno che paga per tutti, sacrificando l’incolumità del giorno per costruire il mito di una corsa senza tempo e forti intenti commerciali, parte di una scala di valori dolorosamente scollegata dal presente. E forse soprattutto per questo, tanto spesso oggetto delle critiche più fervide ed accalorate.
La corsa coi tori è una tradizione antica quasi quanto l’addomesticazione di questa genìa così fondamentale per la nostra dieta, che viene convenzionalmente fatta risalire all’epoca dell’antica civiltà minoica, poi quella greca e dei romani. Tutti conoscono il celebre affresco della taurocaptasia, ritrovato sulla parete est del palazzo di Cnosso, con i tre giovani che saltano attorno a questo lontano cugino dell’amato minotauro, disegnato luuuungo come un cane bassotto e con le gambe veramente molto, molto corte, forse per meglio riempire lo spazio blu della composizione decorativa. Si tratta forse di una delle immagini più note della prima epoca classica, databile fino XVII-XV secolo a.C, la cui composizione cinematica esemplifica uno stile quasi fumettistico e letteralmente ininterrotto fino ai nostri tempi, grazie al quale il limitarsi a due sole dimensioni, e un singolo fotogramma, non ha mai potuto impedire agli artisti migliori di trasmetterci i momenti maggiormente rappresentativi delle loro epoche distanti. E non c’era allora, forse, un attimo più rappresentativo di questo: il bisogno di misurarsi con la forma più prossima della natura infuriata, lo sbuffante, scalpitante essere dal manto nero, bianco o a macchie, generalmente in dei contesti attentamente codificati, come feste religiose o spontanei raduni degli spettatori sugli spalti accidentali di una piazza (non più) gremita. Ma c’è dell’altro: esistono diverse teorie secondo cui questo stile per eccitare e infastidire l’animale, attraverso gli schiamazzi e il movimento caotico di un gruppo di persone, fosse stato adottato da principio come approccio pratico a spronarlo innanzi, con lo scopo di raggiungere quanto prima il luogo dell’esposizione, del mercato o della vendita imminente. Accadde poi che alcuni degli astanti,  in determinate antiche città mediterranee, iniziassero a lanciarsi sulla strada della bestia, col dichiarato scopo di mostrarsi privi di paura. E se lo fa uno, ben presto saranno due, quindi tre e…Il resto riecheggia nel muggito della Storia.

Leggi tutto