Rilassante passeggiata con gli anelli avvitati nel fianco della montagna

C’è un qualcosa di straordinariamente precario e al tempo stesso accattivante, nell’esperienza di un video ripreso in soggettiva di arrampicate da cardiopalma, capace di ricordare il funzionamento di un videogame installato su un hard drive difettoso. Che da un momento all’altro rischia di bloccarsi, riportando la fantasia dell’unico fruitore verso le ripide pendici della severa, implacabile quotidianità. L’inquadratura che oscilla nel vento, così come gli altri attori visibili, di tanto in tanto, all’interno dell’insolita contingenza. Che possono essere, a seconda dei casi, altri esseri umani oppure semplici oggetti, come la memorabile borsa con gli attrezzi dondolante durante l’intero svolgersi dell’‘intramontabile classico di YouTube “Climbing the world’s tallest Radio Tower”. Eppure, sarebbe difficile negarlo: che questa nuova opera in presa diretta del misterioso autore almeno apparentemente appassionato di sport estremi, Aitor Leal (persino il nome è insolito) riesca a veicolare un tipo di fascino ancor diverso, in qualche modo in grado di coinvolgere il senso di vertigine che sempre si annida, subdolo, nel profondo delle nostre sinapsi semi-addormentate. Forse per la foschia montana sulla distanza, che sembra nascondere ruvide rocce distanti una quantità ignota (nonché sufficiente) di metri. Magari per il dettaglio con cui ci è dato di prendere atto delle precise movenze inscenate dall’attore principale/nostro alter-ego per i quattro minuti della sequenza, mentre si assicura per quanto possibile di non precipitare nel vasto baratro sottostante. Ma sicuramente, almeno in parte, per l’appiglio almeno apparentemente precario che sceglie d’utilizzare come contromisura nei confronti di un tale fato: la serie di pioli e d’anelli, infissi verticalmente non si sa da chi e quando, lievemente rugginosi, che dovrebbero costituire una sorta di superstrada verso l’agognata vetta del massiccio antistante.
Benché un’analisi maggiormente approfondita risulti trovarsi, nei fatti, a due soli click di distanza, visto il nome gentilmente fornito nel titolo di quella che costituisce una delle più recenti, nonché originali, attrazioni turistiche situate nei pressi del comune Corçà (Lleida) sulla cordigliera dei Montsec da cui trae l’origine l’intera catena dei Pirenei. Feliz Navidad (Buon Natale) di nome e di fatto, come orgogliosamente proclamato dai creatori di questa via ferrata dall’escursione verticale di 684 metri, i rinomati scalatori Urquiza e Olmo, al faticoso completamento della stessa giusto il 24 dicembre del 2010, dopo le molte domeniche trascorse a calarsi lungo il fianco della montagna, trapano alla mano, per posizionare gli orpelli capaci di renderla “accessibile” pressoché a chiunque. Affermazione che sembrerebbe trarre un grande vantaggio dall’uso delle virgolette, almeno per questa volta, visto l’inserimento della location in questione nella rara categoria K5, capace di renderla nei fatti la singola più difficile di tutta la Spagna…

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L’occhio di Buddha sull’aeroporto più pericoloso al mondo

Per quanto i desideri ed il rapporto con la realtà dei popoli possa tendere ad assomigliarsi, vi sono delle differenze molto significative che vengono dettate, nella maggior parte dei casi, dai dogmi assunti delle rispettive religioni. Per chi crede nel destino umano di un continuativo ciclo di reincarnazioni fino al raggiungimento dell’auspicabile non-esistenza, ad esempio, non esiste nulla che possa ricondursi al concetto cristiano di divina Provvidenza. Il che significa, in altri termini, che il destino di ciascuno è la conseguenza esclusiva delle proprie azioni, secondo la legge universale e ineluttabile del karma. Ed è proprio questo che dovrebbe idealmente ricordare, ai piloti impegnati nel difficile atterraggio presso l’aeroporto nepalese Tenzing–Hillary del villaggio di Lukla, il piccolo tempio buddhista che si trova in cima alla singola pista d’atterraggio lunga poco più di 500 metri, caratterizzata da una pendenza in salita che sarebbe sufficiente a correre mediante l’utilizzo di un longboard. Non che qualcuno, chiunque, potrebbe mai pensare di affrontarla in tal modo, vista la presenza, ad un’estremità della stessa, di un baratro profondo svariate centinaia di metri. Mentre all’altro lato campeggia un muro alto e scosceso, senza nessun tipo di protezione a vantaggio dell’aeroplano che dovesse essere tanto sfortunato, o sconsiderato, da non riuscire a frenare in tempo. Ecco perché, prima di essere certificati per effettuare l’impresa, ai piloti della più prototipica nazione d’alta quota vengono richieste almeno 100 missioni nazionali di tipo STOL (Short take-off and landing) e 10 atterraggi proprio in questo luogo con istruttore al seguito, con uno standard di requisiti così eccezionalmente elevato da riuscire ricordare, fatte le dovute proporzioni, quello di una moderna portaerei da guerra. Il che permette di poter contare su una quantità d’incidenti effettivamente piuttosto bassa, vista la complessità dei fattori in gioco. Per un totale di sette a partire dal 1973, di cui soltanto tre fatali (ed uno costato la vita a 18 persone nel 2008) nonostante l’alta quantità di passeggeri, nei fatti superiori ai 100.000 annui, che da multiple generazioni scelgono attualmente di posare piede su questa pista, asfaltata soltanto a partire dal 2001. Al che sarebbe lecito chiedersi che cosa, esattamente, conduca tante persone ad abbandonare ogni scampolo residuo di prudenza, accettando rischi tanto espliciti soltanto al fine di recarsi presso un paesino tanto remoto e per quanto ricco di fascino, visitabile nel giro di una mezza mattinata. Un quesito, questo, la cui risposta può essere acquisita soltanto guardando verso l’alto: Lukla stessa ha sempre costituito nei fatti, sin dall’inizio del secolo scorso, la sola ed unica “porta” civilizzata verso il più importante pellegrinaggio di un qualsiasi alpinista rispettoso del proprio nome. Il remoto e semi-leggendario tetto del mondo, altrimenti chiamato dai nativi Chomolungma (Madre dell’Universo) o Sagaramāthā (Dio del Cielo) ma che voi probabilmente assocerete al termine d’uso internazionale, attribuito dal governatore inglese dell’India nel 1865, monte Everest. Un aspetto, quest’ultimo, che si riflette chiaramente nel nome e nella storia del suo improbabile aeroporto…

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Il trionfo chilometrico delle improbabili alpiniste boliviane

Percepire, nel giro di un momento, il dissolversi del velo che divide le diverse percezioni, trasportando il proprio essere al di là del tempo. Mentre il vento che discende dalla stratosfera, trasportato oltre i confini dei continenti, discende contro il proprio volto ricoperto da un passamontagna in lana, occhiali protettivi e il casco simbolo di un’attività elettiva. Ovvero il sogno di molti abitanti del grigiore contesto urbano: venire fin quassù, assieme a buone amiche, costruire un valido ricordo e stabilire nuovi record come fosse una cosa da nulla. Mentre pensa questo, salutando mentalmente suo marito e il figlio, la capo-cordata abbassa i polsi lungo i fianchi variopinti; “Maldita sea!” sarà stato per un vortice di bassa pressione, che la prima e la seconda gonna minacciavano d’ingarbugliarsi?
Costituisce un’idea molto diffusa, anche grazie ai chiari precedenti, che l’attività di scalare una delle sette montagne più alte dei rispettivi continenti possa essere intrapresa a qualsiasi età, grazie a quella risorsa inesauribile che è la forza di volontà umana. Ciò è del resto riferito, per il semplice senso comune, a tutti coloro che un simile sport l’hanno saputo praticare per lunghi anni, a partire dalla gloria dei successi conseguiti in gioventù. Non a cinque donne di famiglia, cuoche per professione e anche nel fisico, con un’età che oscilla tra i 44 e 50 anni, la cui esperienza pregressa in campo montanaro prima del 2014 ammontava unicamente a preparare il cibo e l’equipaggiamento per i propri mariti, guide montanare della città di La Paz. E di certo, indossando qualsiasi cosa, tranne l’ingombrante abito tradizionale del suo popolo, interconnesso strettamente alla particolare categoria sociale delle cosiddette cholita, un termine che forse qui in Italia non saremmo abituati ad associare al ben più noto maschile, non diminutivo cholo (pl. cholos) il cui significato originario dovrebbe essere ricondotto al concetto “mezzosangue”. Laddove in effetti, attraverso i secoli, lo slittamento semantico l’avrebbe portato a riferirsi ad un concetto differente a seconda del paese di utilizzo: un gangster messicano, un immigrato negli Stati Uniti e in Sud America, secondo una lunga tradizione, quella fascia di popolazione indigena che un volta entrata in contatto con la civiltà europea, intraprese una serie di mutamenti nelle proprie dinamiche sociali. Tra cui una particolarmente degna d’encomio: l’emancipazione della donna. Di cholitas possiamo vederne tantissime, percorrendo con gli occhi e l’immaginazione le principali città e aree semi-rurali di paesi come il Cile ed il Perù. Sono spesso venditrici di strada, padrone di negozi o addette a servizi di vario tipo, sempre rigorosamente vestite di tutto punto, ingioiellate e col coronamento totalmente fuori dal contesto, specialmente in Bolivia, di quella che potrebbe quasi definirsi una bombetta in pieno stile londinese, se non fosse di due misure troppo piccola rispetto al diametro della testa. È tuttavia importante notare, a proposito di questo gruppo culturale composto largamente d’indigene di etnia Aymara e Quechua, come il termine cholitas avesse in origine un’accezione per lo più negativa. Ragion per cui riuscire ad incarnare un tale spirito, persino sulla cima dei 6.962 metri dell’impressionante monte Acocangua, maggiore al mondo fuori dall’Asia (il che lo rende ad ogni modo “soltanto” il 189° più alto della Terra) è la dimostrazione di un rinnovato orgoglio di categoria, acquisito attraverso i lunghi anni di conquiste di cui questa costituisce solamente l’ultima, benché di certo, una delle più notevoli ad aver trovato terreno fertile tra le vorticose correnti dell’informazione moderna.

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L’epica battaglia delle linci canadesi in amore

Nella scena culmine dei migliori film d’arti marziali Wuxia, premiata scuola cinematografica cinese, c’è una scena ricorrente: la battaglia volante nella foresta. In cui la protagonista in fuga, guerriera ereditaria o principessa addestrata da un famoso maestro particolarmente irsuto (per lo meno, in termini di bianca barba) viene raggiunta dalle truppe dell’usurpatore, proprio mentre stava per lasciare i confini della sua provincia. Ed è allora che con i suoi pugni e calci, la spada o gli altri attrezzi d’offesa del kung fu, ella elimina rapidamente quasi ogni singolo avversario, tranne ovviamente quello principale. Il fiero capitano della guardia imperiale che, con un rapido gioco di corde teatrali, sconfigge letteralmente la forza di gravità, per balzare in aria ed attaccarla dall’alto. Ed è allora che lei, piuttosto che continuare la sua fuga, si solleva fluttuando ad incontrarlo, poco prima di atterrare sopra i rami del flessibile bambù. Segue l’elegante parapiglia molto simile a una danza, con la pianta erbacea più alta del pianeta che si piega da una parte e poi dall’altra, offrendo un pratico trampolino per l’improbabile schermaglia. Eppure, il furbo spettatore non può fare a meno di chiedersi: si odiano davvero? O si riesce a intravedere, nello sguardo dei vertiginosi primi piani, il più piccolo e remoto accenno di quel sentimento universale, l’amore..
Di certo, nella regione canadese dell’Alberta non è facile immaginare le presenze vegetali assumono una foggia largamente differente. E in assenza della voracità del panda, gran divoratore di flessibile verzura, le foglie tendono a cadere verso il mezzo dell’inverno, donando alle foreste di pioppi boreali (aspen) un’aria caratteristica e spoglia. E poi, tra le distese candide e innevate della Grande Prairie, o per meglio dire, presso la moderna cittadina che porta quel nome (69.000 abitanti) non c’è una sola principessa, ce ne sono molte. Vestite magnificamente col folto mantello peloso, il cappello invernale con le orecchie a punta, l’espressione estremamente attenta, la coda tronca dall’estremità nera. No, non è un cosplay. Ma una breve descrizione, dei punti per così dire salienti, della femmina di Lynx canadensis, uno dei più celebri felini adattati a vivere nei climi freddi, per la sagoma che tende a farlo assomigliare ad un agile orsacchiotto miagolante. Eppur dotato, come i suoi simili, di artigli affilati e forti denti carnassiali, adatti a strappare via la carne della lepre che riescono a ghermire. Una componente feroce della loro essenza, questa, che si specchia chiaramente nella scena qui ripresa, e pubblicata sul canale Facebook rilevante, dall’abile naturalista che usa l’alias Famous Amos Photography, il quale si trovava nei dintorni della sua città di residenza per catturare qualche immagine del suo volatile apparentemente preferito, il gufo, soltanto per trovarsi di fronte alla più straordinaria e inaspettata delle scene. “La più incredibile esperienza della mia vita” esordisce quindi nella descrizione al video, lasciando che le immagini parlino per dar supporto a tale affermazione. Mentre una versione più approfondita della storia compare sulla testata CBC News, dove il fotografo racconta di aver visto le linci che s’inseguivano dall’automobile, fermandosi immediatamente per andare a investigare. E di come successivamente se le sia trovate a pochi metri di distanza, mentre il suo primo istinto, in quel momento, fosse stato estrarre dalla cintura le fondamentali bombolette di spray anti-orso (mai più senza) poco prima di vedersi superare in corsa forsennata, per poi ritrovarsele improvvisamente sopra la testa, ad un’altezza di circa 30 metri. E sentirle, all’improvviso, cantare insulti ultramondani… O gridare in altri termini, la sconfinata furia della natura. Se avete presente lo spettacolo generalmente offerto dai gatti in amore, forse potevate anche aspettarvi qualcosa di simile. Ora moltiplicatelo per animali lunghi tra gli 80 e 105 cm, ed inizierete a comprendere ciò di cui stiamo parlando! Ma non contenti di emettere suoni, a quel punto i due animali hanno iniziato a rincorrersi tra i rami, con un’agilità capace di sfidare i preconcetti sulla loro forma corpulenta, in realtà frutto principalmente del folto pelo. Uno strano modo di corteggiarsi a vicenda…

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