Il pollo che cammina come una persona

Per oltre sei ore, il pubblico della città vecchia di Giacarta, sulla riva sud del fiume Ciliwung dell’isola di Giava, aveva assistito alle vicende guerresche dei formidabili personaggi del Rāmāyaṇa, re terreni ed avatar delle divinità celesti. Gli eserciti, rappresentati da gruppi di sagome variopinte tenute dagli esperti manipolatori, si erano scontrati dinnanzi alla luce della tradizionale lampada ad olio nella profondità della notte, sfoderando di volta in volta spade, lance e gli astra, le armi mistiche venute da lontane dimensioni. Ed ora, che finalmente la disputa di successione al trono tra i due fratelli rimasti orfani Pedang Guna e Tanjang Guna contro Babu Sanem, il loro zio e malefico usurpatore. Finché Raja Sri Rama, l’antico re di Giava ed uccisore del loro padre ribelle, non ha fatto la sua comparsa sulla scena, nella guisa del fantoccio piatto e verde dalla spettacolare corona appuntita. E declamando il suo comando, non fece valere la suprema volontà del Creato. Ma adesso, la parte solenne era ormai un ricordo, e la rappresentazione era entrata nel suo momento più pacifico e informale, l’atto dell’amicizia che segue, secondo l’usanza locale, anche i più terribili conflitti. Alle prime luci dell’alba, Rama non era più presente nella sua guisa di temibile guerriero, bensì l’eroe benevolo conosciuto ed amato da tutti i bambini indonesiani. D’un tratto, da dietro il tendone dove la piccola orchestra gamelan suonava i suoi tamburi, xilofoni, metallofoni e gong, si ode un suono inaspettato, simile ad un piccolo chiocciare. Ed è allora, come si trattasse di un segnale, che la figura del re viene tirata indietro proprio mentre, al suo posto, fa la sua comparsa un incredibile creatura. Poco più grande del pupazzo, ma altrettanto splendida nel suo aspetto. Un angelo in miniatura, con le ali disposte ordinatamente verso il basso, il petto ampio e forte, la testa eretta per guardare negli occhi i più vicini degli spettatori. Tra il silenzio improvviso e generale, l’uccello (perché è di questo che si tratta) fa quattro passi verso il bordo del palcoscenico, quindi si gira all’improvviso. La sua coda sopra le affusolate zampe è folta e nera, portata in avanti come quella di uno scoiattolo. Quindi apre il becco, ed emette un breve ma formidabile canto. A questo punto gli organizzatori dello spettacolo, nel retro del teatro, si guardano con ansia: “Sarà chiara l’associazione?” Sussurra uno di loro. Poi qualcuno grida, dal pubblico: “È lui, è lui! Il re è tornato tra di noi!” La gente si prodiga in un sincero e clamoroso applauso. Il pollo, abituato per le sue esperienza precedenti, senza farsi spaventare mette un piede innanzi all’altro. Continuando imperterrito la sua sfilata.
Forse l’avrete visto qualche volta, ma probabilmente non saprete cosa sia esattamente un Ayam Serama (Nota: Rama significa Re) della Malesia, il pollo più piccolo e strano del mondo. Piccolo perché viene direttamente da un incrocio con animali locali del Chabo bantam giapponese da circa 500 grammi, spesso scelto come animale domestico per la sua innata grazia e l’incapacità tecnica di rovinare un giardino. Ma persino quello non era nulla, di fronte ad un pennuto che può non superare neppure i 250 grammi, entrando essenzialmente nel palmo di una singola mano. E facendolo, per di più, con un suo particolare ed inimitabile stile. Perché la caratteristica più immediatamente evidente di questa razza, creata a partire dagli anni ’70 dall’opera continuativa nel tempo dell’allevatore Wee Yean Een, è il modo in cui la coda e la testa dovrebbero formare una sorta di V estremamente acuta, richiamandosi all’aspetto di un piccolo soldato impettito. Proprio per questo, la razza rappresenta nell’iconografia popolare il più fiero ed orgoglioso dei polli, del tutto consapevole del suo ruolo fondamentale nei cicli successivi dell’Universo. Per un osservatore moderno, potenzialmente, l’Ayam Serama potrebbe sembrare un mecha (robot guerriero) con il corpo di pollo, pilotato da un pollo più piccolo posto sul suo dorso, dotato però di una testa enorme. In altri termini, la parte sormontata dalla caratteristica cresta rossa appare come completamente scollegata dal resto! Naturalmente, esattamente come Roma non fu creata in un giorno, anche lo splendore di questo essere frutto della selezione artificiale dell’uomo non sarebbe giunta dal tramonto all’alba, come la risoluzione di un conflitto nel Wayang, il teatro delle ombre e dei bastoncini. Ci vollero ben 18 anni…

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Il ritorno del pollo un tempo noto come Big Boss

Nella storia del mondo, ogni volta che si avvicina una grande catastrofe o un cambiamento, un uccello mitico risorge dalle tenebre incorporee della non-esistenza: dapprima, con l’aspetto di un demone infuocato. Esso spicca il volo ed usa il suo potere per gettare il caos tra le nazioni inermi della Terra. Quindi all’improvviso, muore. Tuttavia, dopo un lungo sonno, l’uccello torna di nuovo. Questa volta, sarà il salvatore. E la Ruota del Tempo gira ancòra… Lo scorso week-end, in un momento all’apparenza del tutto privo d’importanza, l’allevatore kosovaro Fitim Sejfijaj ha aperto, come un qualsiasi altro giorno degli ultimi sei anni, la pagina principale del browser, scegliendo di recarsi presso il suo gruppo preferito su Facebook: SHPEZTARIA DEKORATIVE. (Nota: SHPEZTARIA significa pollame)  Quindi ha preso il cavo di collegamento che si trovava nella tasca del suo gilet, e con un gesto deciso e rapida risoluzione, ha caricato il video contenuto nel suo cellulare con la didascalia “Shikim te kendshem merakli” (Ma quanto sei bello, Merakli). Nel giro di poche ore, il contenuto era stato guardato circa 300.000 volte. Tempo una giornata, dozzine di canali su YouTube l’avevano ripreso, con accompagnamenti testuali variabili tra lo stupito e il terrorizzato, l’ansia e l’incredulità. Entro la giornata di lunedì, la storia aveva raggiunto alcuni dei maggiori quotidiani online. A questo punto, non c’era più alcun dubbio: il virus si era diffuso. Ormai era troppo tardi, per poter pensare di fare un passo indietro.
Razgriz era il mostro mitico che si annidava nell’omonimo stretto, in alcuni episodi della serie di videogiochi aeronautici Ace Combat, eppure la stampa internazionale ha scelto un altro nome in codice per questo gallo assolutamente straordinario: Big Boss, il Grande Capo, non a caso ripreso fedelmente da quello del grande mercenario e soldato di ventura Solid Snake, clonato in gran segreto dal governo degli Stati Uniti e poi sfuggito al volere dei suoi stessi comandanti, nell’epopea incompleta della serie giapponese Metal Gear. Il che ha certamente un senso. A vederlo fuoriuscire dalla porticina del suo pollaio, Merakli sarebbe quasi comico, se non apparisse semplicemente terrificante. “Questo qui non è un pollo normale.” Viene da esclamare, mentre si osserva la sua massa spropositata, l’altezza di almeno un metro ed il maestoso mantello di piume, che riprende immediatamente la sua forma originale, dispiegandosi come le ali di una farfalla alla fuoriuscita dal suo bozzolo attaccato a un ramo. Mentre scende la ripida scaletta, il gallo pregiato appoggia attentamente i piedi, ricoperti da quelli che sembrerebbero essere a pieno titolo dei veri e propri stivali, mentre il suo collo poderoso si volta in ogni direzione contemporaneamente, alla ricerca di una possibile fonte di cibo. Qualcuno azzarda il paragone a un uomo in un costume dalla chiusura lampo ben chiusa, ma la piegatura delle gambe invertita, come un camminatore di Guerre Stellari, smentisce immediatamente questa possibilità. Di nuovo, l’analogia fantastica appare più che mai calzante, vista l’effettiva somiglianza di quanto stiamo vedendo all’unione tra un comune uccello da cortile e il suo esoscheletro meccanizzato, in grado d’incrementare a dismisura la sua forza in combattimento. Eppure, non c’è niente d’innaturale in tutto questo, come si sono immediatamente affrettati a sottolineare gli specialisti in materia. Tranne, ovviamente, la genetica di fondo.
Ecco dunque, la verità: Merakli/Big Boss altro non è che un ottimo esponente della rinomata razza Brahma, creata verso la metà del XIX secolo per rispondere a un’esigenza precedentemente assai gravosa: nutrire con estrema abbondanza ogni fascia, incluse quelle più disagiate, del variegato e disparato popolo statunitense. Poco prima di diventare, grazie all’iniziativa di un famoso estimatore, più preziosi di un gioiello della corona inglese. È una storia piuttosto affascinante, a dir poco…

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Il sogno delle mante che volevano volare

“Addio, e grazie per tutto il pesce” è la frase che ci viene rivolta dai delfini nella Guida Galattica per Autostoppisti, il famoso romanzo fantascientifico dell’umorista Douglas Adams, nel momento in cui l’intera popolazione fugge decollando da un pianeta condannato, proprio mentre la Terra stessa viene marchiata per la demolizione, da parte dell’astronave aliena dei crudeli Vogon, allo scopo di far spazio a un’autostrada interstellare. È un’immagine che ricorre più volte nella serie, e ad un certo punto giustificata col concetto vertiginoso di multipli universi quantistici, attraverso cui il più amato dei mammiferi marini, singola specie più influente dell’intero Sistema Solare, avrebbe potuto spostarsi a piacimento, nel caso del sopraggiungere di una catastrofe annunciata. Il che appare alquanto improbabile dal punto di vista scientifico, benché esista una costante funzionale che troviamo anche nella nostra ineccepibile realtà: i delfini saltano, soprattutto perché sono intelligenti. E si dimostrano tali, proprio perché dedicano parti significative delle loro vite a praticare attività insensate, illogiche, del tutto prive di una funzione. Giocando, per il loro esclusivo e massimo divertimento. Ed allora, perché mai salta il diavolo di mare? (Mobula mobular). Questo pesce cartilagineo imparentato con gli squali, del tutto simile alla manta, il cui grado d’interazione più singificativo con la specie umana include avvicinarsi per lasciarsi accarezzare, o seguire ipnotizzato le vaghe increspature dell’oceano causate dall’incedere di un imbarcazione a motore… La risposta è molto più semplice di quanto potremmo pensare: per lui, l’attività ha uno scopo molto chiaro. Attirare l’attenzione della femmina, nella speranza di ottenere l’occasione di accoppiarsi. Così è nella stagione degli amori, che questa creatura per lo più solitaria si aggrega in branchi di centinaia, persino migliaia di esemplari. E i più giovani ed aitanti del gruppo, senza falla, puntano lo strano muso verso la distante superficie. Iniziano a salire, e quando oltrepassano la linea terminale del loro ambiente nascituro, continuano cionondimeno a risalire, finché le due corna frontali dall’aspetto vagamente maligno, le grandi pinne pettorali simili ad ali e la sottile coda con la spina acuminata, non si trovino egualmente esposti all’aria e il Sole distante. Per poi ricadere goffamente, con un tonfo sordo, nella maniera più piatta e meno idrodinamica che si possa pensare. Certo: è proprio questo suono sordo e ripetuto, il metodo con cui dovrebbero attirare lei. Un singola grezza panciata alla volta.
Nel momento in cui una popolazione significativa del pesce in questione, in luoghi come il mare di Cortez nella Bassa California, inizi a praticare assiduamente questa attività, la visione che si presenta all’occhio dei turisti o eventuali pescatori costituisce un netto punto di rottura con le aspettative convenzionali relative a come le faccende oceaniche attraversino la fase dello svolgimento. Una dopo l’altra, le piatte e larghe creature dirompono dalle profondità, spiccando il volo con un seguito di spruzzi ad arco, simile agli effetti speciali di un film. Proprio per questo, esse sono state definite anche mante volanti, benché nei fatti appartengano a una specie totalmente distinta, evolutasi in maniera indipendente da un antenato comune appartenente alla classe dei Condritti, pesci con scheletro cartilagineo come per l’appunto, gli squali. Così come le razze velenose, che tuttavia si riconoscono da una forma romboidale piuttosto che a punta di freccia, ed hanno abitudini biologiche del tutto differenti. Mentre tra manta e diavolo Mobula, in effetti, qualche somiglianza c’è: entrambi sono suspensivori, ovvero filtratori dei microrganismi presenti ovunque nell’acqua marina, grazie a grandi bocche eternamente spalancate, con apposite pinne cefaliche mirate a convogliare il flusso nella più efficiente maniera. Nel caso delle due specie di manta attualmente esistenti, in grado di raggiungere anche i 7 metri di larghezza, tali strumenti risultano essere dei veri e propri arti, in grado di dispiegarsi e cambiare forma in base alle necessità. Mentre per quanto concerne i diavoli saltatori, essi assumono una forma più corta e tozza, come le semplici corna caprine da cui prendono per l’appunto il nome. La bocca si trova inoltre in posizione frontale nelle prime e sotto il corpo, invece, nei secondi. Ultima ma non per importanza, i diavoli sono generalmente molto, molto più piccoli, con una dimensione media di 3-4 metri di apertura “alare” benché esistano esemplari eccezionali in grado di raggiungere i 5 metri. Le due specie hanno però un punto significativo in comune: il rapporto dimensione-del-corpo/cervello più a vantaggio del secondo nell’intero mondo sommerso dei pesci nuotatori. Ovvero, sarebbero dei veri e propri geni tra i loro pari…

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L’incredibile potenza del cavallo brabantino

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Nelle tipiche illustrazioni fantasy, come quelle del popolare videogioco World of Warcraft o dello strategico con le miniature da tavolo che l’ha ispirato, ricorre un particolare stile nel raffigurare i personaggi, tutt’altro che realistico nella maggior parte dei casi: i guerrieri hanno spalle larghissime, con protezioni sovradimensionate e dei lineamenti straordinariamente pronunciati, simili a quelli di un uomo primitivo. Le mani son enormi, mentre le membra sono corte e tozze, per accentuarne la muscolatura, tanto che sembra quasi di trovarsi di fronte a un’ibrido uomo-gorilla. E non entriamo nel merito delle proporzioni femminili, che è meglio… Il che del resto ha un senso nella ricerca di una grafica che possa dirsi caratteristica e divertente. Nel caso degli orchi, elfi e gli altri meta-umani, tra l’altro, tutto appare più che mai giustificato. Per quanto concerne invece i cavalli forniti ai giocatori, fondamentale mezzo di trasporto in una società d’ispirazione medievale, sarebbe difficile pensarci fuori dalle regioni della più pura invenzione: essi appaiono infatti lunghi e massicci, le zampe larghe come quelle di un rinoceronte. Il muso corto ed una testa piccolissima, posta sulla sommità di un petto squadrato almeno quanto quello di un pitbull, mentre i quarti posteriori, tondeggianti e solidi come la roccia, ricordano da vicino il sedere di un cane corgi. Questi esseri così diversi da un moderno purosangue, come dal tipico ronzino che tutt’ora serve nelle fattorie, galoppano con piena bardatura di metallo, vere e proprie parti d’armatura a piastre, nonché sulla sella riccamente ornata, un cavaliere grosso e forte, a sua volta abbigliato grosso modo come Jeeg Robot d’acciaio con le corna da vichingo, armato di spada, mazza, lancia e così via… 200, 300 Kg complessivi? Possibile. Tutt’altro che irrealistico. Perché lasciate che vi dica la realtà insospettata: quel tipo di cavallo esiste davvero, viene dal Belgio e… Potrebbe farcela davvero. Niente, nella storia pregressa di questa razza, è mai riuscito a far crollare la sua straordinaria determinazione.
E questo è un aspetto, io credo, a cui non si pensa tanto spesso. Che le cavalcature più pregiate delle epoche trascorse non erano certo gli antenati diretti di quelli che vediamo oggi all’ippodromo, straordinariamente fragili e veloci. Ma dei veri carri armati del regno animale, costruiti come macchine da guerra: il destriero, il palafreno, il corsiero, l’hunter. Tutti termini d’uso comune non tanto riferiti a specifiche linee genetiche, bensì al ruolo che questi quadrupedi assumevano nella loro vita con gli umani, particolarmente nel momento di scendere in battaglia. Se soltanto potessimo vederne uno da vicino, oggi, non avremmo il benché minimo dubbio: queste sono bestie da fatica, ovvero, da tiro. Animali concepiti per lo sforzo, tutt’altro che aggraziati in termini generali eppure, se soltanto li si guarda con l’occhio critico innato, dotati di una loro grazia e bellezza assai difficile da trascurare. Oggi il Gran Cavallo, come ancora lo chiamava Leonardo da Vinci nel 1482, nel progetto che doveva servire per la statua mai realizzata di Ludovico il Moro, è sostanzialmente sparito, benché persistano su questa Terra alcuni suoi remoti discendenti. E primo fra tutti, come avrete certamente capito dal video di apertura e l’accenno fatto poco sopra, è lui, il cavallo Belga da tiro. O come viene talvolta chiamato, il cavallo (della regione) di Brabant, o Brabantino. Una bestia formidabile e pacata, standardizzata soltanto a partire dal XIX secolo in tre varianti di altezza progressivamente maggiore: il Gros de la Deandre, il Gros di Hainaut e il Colosses de la Mehaique. Fin dalle soglie del ‘900, poi, alcuni esemplari importati negli Stati Uniti vennero selezionati per creare una versione dai tratti atipici meno accentuati, sostanzialmente simile a un cavallo normale di colore esclusivamente marrone. Ma grosso, enorme persino: gli esemplari maschi superano spesso la tonnellata di peso. Il più grande Brabantino presente o passato di cui abbiamo notizia è Big Jake, un castrato di 9 anni originario Wisconsin, misurante la cifra vertiginosa di 210 cm senza indossare i ferri. Trascinare un tronco per lui sarebbe un gioco da ragazzi, per non parlare di…Altre cose…

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