Kudzu, il grande mantello d’erba che minaccia di soffocare gli Stati Uniti meridionali

Pueraria montana var. lobata o kudzu (葛) è il nome della notevole pianta introdotta negli Stati Uniti in occasione dell’Esposizione Centenaria di Philadelphia, in Pennsylvania, nello scenario di un padiglione dedicato al progresso agricolo ed in maniera maggiormente estensiva, in un vero e proprio giardino presso lo Shofuso Japanese Cultural Center di Fairmount Park. Era ancora il 1876 ed un clima di speranza dominava sulle incertezze di quell’epoca di transizione, così che nulla pareva rappresentare un pericolo, mentre ogni cosa assumeva i tratti dominanti di una fantastica opportunità futura. E c’è senz’altro da dire che questo rampicante leguminoso dell’Asia Orientale, come un seducente diavolo evocato dall’interno di un’antica bottiglia, aveva un aspetto tutt’altro che ripugnante: folto, rigoglioso, ornato da infiorescenze viola profumate, resistente ad ogni tipo di sollecitazioni, situazioni climatiche o inappropriati frangenti. Perfetto ornamento per il proprio cortile, quando tenuta appropriatamente sotto controllo. E un dono letterale concesso dagli Dei dell’agricoltura, per il tramite di coloro che avevano pensato d’importarla, a partire dall’epoca della grande depressione. Verso il terzo decennio del XX secolo infatti, con l’intero settore agroalimentare statunitense in crisi operativa ed economica, il mero concetto secondo cui risultava possibile ricoprire di vegetazione produttiva un intero acro di terreni ad un costo di 8 dollari, grazie alle iniziative di propagazione dell’ente governativo Soil Conservation Service, appariva come un tenue bagliore di speranza. Ulteriormente enfatizzato dalle molte campagne di convincimento pubblico, tra cui quella portata avanti per anni da Channing Cope nel suo programma radiofonico, mediante definizioni quale “Il viticcio miracoloso che resusciterà il Sud” grazie alla sua funzionalità primaria di combattere l’erosione del suolo, soprattutto durante le periodiche alluvioni capaci di arrecare gravi danni al territorio. Tutto quello che occorreva perché la pianta mettesse radici e iniziasse a crescere era un grande spazio assolato e pianeggiante, permettendo a un’enorme quantità di piantagioni di cominciare a sorgere lungo le strade interstatali e le altre infrastrutture di collegamento, lontano da alcun tipo d’intervento agricolo di mantenimento costante o potatura umana. I responsabili di tale iniziativa, tuttavia, scoprirono ben presto quanto l’enorme quantità di materia vegetale potesse risultare sostanzialmente inutile di fronte ai mutamenti dinamici del mercato: a lungo tempo considerata una valida fonte di fieno per dare da mangiare agli animali, le sue propaggini contorte tendevano ad aggrovigliarsi nei macchinari, rallentando l’opera ed aumentando conseguentemente i costi di gestione. Più volte sperimentata all’interno di varie possibili ricette come cibo per gli umani, essa non riuscì mai a prendere sostanzialmente piede nei territori d’Occidente, nonostante in Cina, Corea e Giappone sapesse costituire un ingrediente saporito per la creazione di farine, salse e vari tipi di dessert. Il che lasciava soltanto la fabbricazione di cestini ed altri orpelli in vimini come utilizzo economico sostenibile, in quantitativi per nulla proporzionali all’offerta di materie prime. Entro l’inizio della seconda mondiale, inevitabilmente, molte piantagioni di kudzu vennero così abbandonate, alcune furono distrutte. Ma tutte, dalla prima all’ultima, continuarono autonomamente (o segretamente) a prosperare.
La questione fondamentale per capire il problema di tale pianta è poi quella alla base del principale pericolo per la biodiversità terrestre: che cosa può succedere, sotto i nostri stessi sguardi impotenti, nel momento in cui una forma di vita non nativa viene trapiantata in un luogo adatto a favorirne la prosperità? Talmente adatto, in effetti, da non togliere qualsivoglia limitazione alla sua moltiplicazione senza nessun controllo! Inverni temperati, estati umide, abbondanza di piogge ed assenza di parassiti naturali, collaborarono quindi nel porre le basi di una tempesta perfetta nell’intero ambito degli Stati del Sud. Mentre i confini originariamente segnati per la propagazione del rampicante, ormai rimasti del tutto privi di significato, venivano agilmente varcati dalle sue propaggini quasi tentacolari. Ed una folta coperta color smeraldo calava, come un sipario, sopra le antiche foreste vergini del circondario…

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L’estemporaneo merletto floreale della zucchina-serpente

Lunga e complicata riesce ad essere, senza limiti o confini nazionali, l’annosa questione su cosa possa essere definito un “frutto” e cosa di suo conto, una “verdura”. Così che tecnicamente, la definizione scientifica secondo cui la parte della pianta che contiene i semi rientri nella prima delle due categorie ed invece tutto il resto, viceversa, decade non appena ci si sposta nel contesto culinario, dove gusti, tradizioni ed abitudini riescono a modificare le acquisite convenzioni. Basandosi sul gusto, invece che l’essenza naturale del prodotto vegetale; così che nessuno, normalmente, penserebbe che il cocomero e la zucchina possano venire dalla stessa famiglia tassonomica, così come la zucca ed il melone, sia estivo che d’inverno. Il che del resto si applica, in maniera parimenti valida, a una pianta assai particolare dei climi tropicali e sub-tropicali, largamente associata con il suo nome scientifico Trichosanthes cucumerina ad India, Cina e Sud-Est Asiatico, benché abbia saputo trovare terreno fertile anche in Africa, Australia e Sud America. Che pur non arrivando a fare parte del mondo “animale” parrebbe richiamarsi vagamente ad esso, data l’oblunga forma serpeggiante che saremmo istintivamente inclini a paragonare a quella di una serpe in agguato. E chi potrebbe, senza un’adeguata preparazione preventiva, soffocare un sentimento di stupore innanzi alla visione di tali e tante infruttescenze, che discendono formando spire dalle propaggini più alte di quel forte rampicante. E forte deve essere, per forza di cose, quando si considera l’eccezionale lunghezza e peso di quegli oggetti, come si confà ad una degna portatrice dell’emblema delle cucurbitacee, che ogni essere riescono ad affascinare, con l’aspetto notevole dei propri peponidi carnosi.
Ciò detto e nonostante la striatura appetitosa, non aspettatevi un sapore dolce o zuccherino, né a dire il vero in qualsivoglia modo appetitoso, da una simile abitante della giungla, in grado d’invaderla grazie al servizio di distribuzione semi offerto da insetti ed uccelli. Lei che nasce, e assai rapidamente cresce, a partire dall’ora tarda del tramonto, quando il notevole fiore che la caratterizza inizia puntualmente ad aprirsi, arricciarsi ed attorcigliarsi, verso la creazione di uno spettacolo assolutamente unico al mondo: incredibile non è in effetti un aggettivo sufficiente, per riunire sotto un solo termine l’eccezionale visione di tali e tanti piccoli asterischi bianchi, la cui eleganza e regolarità parrebbero richiamarsi a un chiaro tipo d’intervento da parte dell’artistica mano degli umani. Proni ad arricciarsi ed attorcigliarsi su loro stessi, creando l’illusione che decade, puntualmente, al sorgere del Sole quando tali odorosi doni del paesaggio cominciano rapidamente ad appassire, avendo assolto al compito affidatogli con enfasi dal sistema tecnologico della natura. Il che si applica sia ai fiori maschili generalmente alti e solitari, che a quelli femminili raccolti sul ramo sottostante, di un organismo monoico in cui il principio dei due sessi convive senza nessun tipo di conflitto. Per lasciarsi dietro il timido germoglio, di quel ramo profondamente modificato il quale lentamente, inesorabilmente, si trasforma nella vipera tentatrice. Chi avrebbe mai potuto resistere all’aspetto non del tutto falsamente appetitoso, d’altra parte, di una tanto mirabile ed insolita creazione vegetale?

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L’insospettata origine dell’altra spugna naturale

Squadrata ed irrealistica creatura degli abissi così come i suoi bizzarri e colorati amici (fatta eccezione per la sciuride sommozzatrice) Spongebob ha rappresentato per molti anni l’appropriata introduzione a un certo modo d’interpretare e scherzare sulla natura. Non a caso l’ideatore Stephen Hillburg, recentemente venuto a mancare all’età di soli 57 anni, annoverava nel suo curriculum una laurea in biologia marina e la partecipazione a numerosi corsi d’immersione, utili a capire l’atmosfera e il senso di scoperta che aspettano colui che ha voglia, ed il coraggio, di spingersi al di sotto degli strati visibili del mare. Ma il suo buffo personaggio, perennemente coinvolto nelle più insolite peripezie, ha anche rappresentato per molti giovani americani e poi internazionali l’associazione di un concetto ad una forma: quella del più tipico implemento, usato alternativamente per lavarsi o rendere brillanti i piatti e le stoviglie in cucina. Concetto più che mai evidente nella lingua inglese, dove lo stesso termine generico sponge (spugna) è in realtà un antonomasia derivante dal mondo dei poriferi, esseri filtranti la cui vita estremamente sedentaria ha portato in molti ad inserirli erroneamente nell’insieme dei vegetali.
Detto questo e come in molti sanno, esistono le spugne in materiale plastico, quelle metalliche e poi c’è l’alternativa naturale. Che trovandosi in realtà distante dal succitato parallelepipedo può avere, essenzialmente, due modi diversi di presentarsi: tonda e globulare, ma per il resto non dissimile dall’amichevole Spongebob in colorazione e posizione dei pori, oppure un grosso oggetto oblungo, a volte tagliato in senso longitudinale per assolvere alle funzioni di un panno, estremamente leggero e dalla struttura marcatamente reticolare, il cui nome commerciale è loofah. Per chi ha spirito d’osservazione dunque pur mancandogli la conoscenza, questa cosa appare in qualche modo fibrosa e impossibilmente remota dal tipo di esistenza che potremmo essere propensi ad associare al mare. Il che ha perfettamente senso, visto che siamo al cospetto dei resti essiccati di una cucurbitacea, in altri termini, la versione sovradimensionata di un cetriolo o una zucchina.
La Luffa aegyptiaca, come scelse di chiamarla per primo il botanico tedesco Johann Vesling (1598 – 1649) durante un suo viaggio nordafricano, una volta giunto per la prima volta a contatto con il notevole rampicante, capace di produrre un’attraente cascata di fiori gialli. Ma successivamente a quelli, sopratutto, l’impressionante peponide normalmente consumato dai locali, sempre attenti a rimuoverlo prima della maturazione conclusiva. Questo perché, al momento in cui la pianta è pronta a liberarsene col suo bagaglio carico di semi, la luffa è ormai soltanto un ammasso di fibra totalmente incommestibile, coriaceo ed anche difficile da sbucciare. Il momento esatto in a qualcuno venne in mente che ciò potesse avere un qualche tipo di funzione, dunque, resta ignoto, benché l’imprenditore statunitense Nathan Pauls di Reedley, California, sia pronto a collegare l’usanza alle importazioni dirette del prodotto dal Giappone nel periodo tra le due guerre, facendone una scoperta piuttosto recente del mercato globale. La Luffa dopo tutto, è una pianta adatta ai climi tropicali, originaria dell’India e dell’Africa orientale, che anche qui da noi in Italia cresce soltanto al sud. Ciò che in molti non avrebbero potuto sospettare, tuttavia, era che potesse costituire una fonte di guadagno destinata a durare così a lungo nel tempo…

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