L’antico topo velenoso dell’isola di Hispaniola

Nell’entroterra della seconda isola più grande dei Caraibi, ecologicamente non troppo diversa da Cuba, c’è una zona collinare che domina le vaste foreste umide dell’area centro-meridionale. Ed è qui, su un’altopiano che domina il lago salato di Azuéi, che si sta verificando l’incontro tra due animali della stessa specie. Se soltanto potessimo vederlo coi nostri occhi! Potremmo descrivere le due forme pelose, della lunghezza di circa 50 cm ciascuna, che si avvicinano molto lentamente, finché non giungono a toccarsi con le vibrisse. Quindi, per dimostrare la posizione dominante, uno di loro aprirà la piccola bocca, per prendere gentilmente il lungo naso della controparte e dimostrare la facilità con cui potrebbe stringerlo tra i suoi affilati piccoli denti. Fatto questo, non prima di aver emesso una serie di squeak, chirp e click simili a quelli degli uccelli, le due creature si disporranno una di fianco all’altra, esplorando le rispettive forme mediante l’impiego della proboscide flessibile, infilata nell’orecchio, sotto le zampe, lungo la coda scagliosa, presso le ghiandole nella parte posteriore del corpo. I successivi secondi, assai prevedibilmente, saranno cruciali: sono un maschio e una femmina? Tutto bene. Si tratta di due femmine? C’è un 50% di probabilità che ciascuna scelga di andare per la sua strada. Ma se gli strani rappresentanti della specie Solenodon paradoxus, più primitivi di molti dei dinosauri del Cretaceo, dovessero appartenere entrambi al sesso maschile, le probabilità di un combattimento aumentano drasticamente. Il che sarebbe un problema, poiché simili creature, disgraziatamente, sono tutt’altro che immuni al proprio stesso veleno. Così avviene di frequente che entrambi le parti di simili scontri vadano incontro ad una fine prematura, annientandosi vicendevolmente e privando così il mondo di un’ulteriore, piccola probabilità che la loro specie possa tornare diffusa come lo era stato un tempo. Prima della colonizzazione da parte degli occidentali, prima dell’arrivo dei gatti e dei cani e prima, soprattutto, dell’introduzione della mangusta di Giava sull’isola (Herpestes javanicus) un tempo imbarcata sulle navi come nemico implacabile di tutto ciò che abbia quattro zampe, un muso a punta e qualche dozzina di baffi sensoriali per dare la caccia alle possibili fonti di cibo.
Abbiamo esordito definendo simili creature “topi” per una sorta di semplice analogia, benché i nostri amici, come potreste forse desumere dalle circostanze, appartengano a un ordine completamente distinto, in grado di prendere le sue distanze genetiche da qualsiasi altro gruppo di mammiferi già a partire dall’epoca di 76 milioni di anni fa, rientrando nell’ordine degli Eulipotyphla (“grassi e ciechi”) assieme agli antenati degli odierni ricci, gimnuri e toporagni. Per lungo tempo, la loro genìa fu considerata estinta, finché nel 1833 il biologo membro dell’Accademia Russia delle Scienze Johann Friedrich von Brandt, non ricevette un esemplare in ottimo stato di conservazione, che non tardò ad associare al comunque raro, eppure già noto solenodonte dell’isola di Cuba (Solenodon cubanus). E a tal punto l’uomo restò perplesso dall’aspetto generale, la struttura fisica e le caratteristiche della creatura, che decise di dargli l’appellativo di paradoxus (paradossale) poiché nulla, del suo possibile ruolo nel sistema della natura, poteva essere desunto con gli strumenti e le conoscenze naturalistiche a disposizione dell’accademia. Il problema principale nello studio del solenodonte di Hispaniola fu fin da subito la sua propensione ed abilità nel nascondersi, che lo portano a scavare profonde buche nel sottobosco, da cui esce preferibilmente soltanto la notte per andare a cacciare insetti, il suo cibo preferito. Così timido e attento risulta essere questo strano mammifero, che persino gli abitanti indigeni dell’isola risultano essere largamente inconsapevoli della sua esistenza, fatta eccezione per chi racconta di aver avvistato, almeno una volta nella vita, la strana palla di pelo zigzagante, dal caratteristico odore simile a quello di una capra e le vocalizzazioni altamente riconoscibili, goffamente emesse nel momento in cui l’essere dovesse sentirsi minacciato…

Leggi tutto

Assassini preistorici sotto i ghiacci del Polo Sud

Una normale stella marina ha cinque braccia. Questa, molto spesso, può vantarne 50. Le altre appartenenti alla sua genìa, al massimo, strisciano sul fondale. Lei si arrampica nel punto più alto, per sporgersi e tentare di afferrare al volo chi fosse tanto folle da nuotare nei dintorni. Le sue cugine sono letteralmente ricoperte, nella parte inferiore, di peduncoli ambulacrali, usati per un lento ma inesorabile movimento. A chiara differenza di un simile mostro, che possiede migliaia di minuscoli artigli spinosi e trappole triangolari chiamate pedicellariae, capaci di serrarsi come altrettante devastanti tagliole per orsi. Ah, dimenticavo: misura “appena” un metro. Pensate alla vostra reazione, se doveste incontrarla in un vicolo buio…
Nel momento in cui qualcuno vi chiedesse “Qual’è la creatura che domina la Terra” non credo che esitereste troppo a lungo nell’indicare voi stessi, ultimi depositari della discendenza iniziata coi primi ominidi, che ci ha condotto in epoche geologicamente recenti ai più alti livelli tecnologici e sociali della specie Homo s. sapiens. Oppure potreste chiedervi, deviando almeno in parte dal pensiero comune, quale dovrebbe realmente essere la metrica utile a definire la buona riuscita di un percorso evolutivo. La posizione nella catena alimentare? La forza e il coraggio? Piuttosto che, in maniera molto più semplice e soggettiva, il peso complessivo degli esemplari viventi, intesa come biomassa totale di ciò che brulica, si nutre ed opera nel campo imprescindibile della riproduzione… Proviamo, per un attimo, a prendere in considerazione un simile approccio. Secondo il quale ogni dubbio sparisce: il vincitore è il krill dell’Antartico, Euphausia superba. Il cui numero magico si aggira sui 500 milioni di tonnellate, contro i nostri 100 appena. Questo ha una logica, se ci pensate: il predatore non è mai più prevalente della preda. Poiché una singola tigre, un leone, dovranno mangiare nel corso della loro vita un centinaio di gazzelle. Ma se ce ne fossero esattamente cento, dopo una o due generazioni, che fine avrebbe fatto la gazzella? Così sono gli umili, a moltiplicarsi in maniera estrema. E ancor più di loro, le piante, cibo di tutti ancor prima che il primo carnivoro facesse la sua comparsa su questa Terra. Ma un conto è prenderne atto, tutt’altro vederlo coi propri occhi…
Questa è la spedizione del naturalista Jon Copley, realizzata con l’aiuto di Ocean X per il documentario della BBC Our Blue Planet, nel quale una piccola parte ma importante parte della troupe, salendo a bordo del batiscafo facente parte della dotazione della loro nave oceanografica, supera agevolmente il record dell’immersione a profondità maggiore nell’area geografica comunemente definita come Antartide, dove notoriamente, soltanto gli esseri più resistenti riescono a sopravvivere e prosperare. Così nessuno resterà sorpreso quando, nei primi minuti del breve spezzone promozionale, le telecamere non riescono a riprendere null’altro che un’ambiente torbido e ombroso, nel quale gli unici movimenti sono quelli indotti dalle correnti oceaniche. Finché, continuando a scendere fino ai 1.000 metri, non raggiungono la superficie ondulata di un misterioso fondale. Dove la luce del riflettore integrato, rimbalzando sulla sabbia millenaria, rivela finalmente l’incredibile verità: il particolato in sospensione nel brodo, questa polvere che circonda il veicolo, non era altro che materiale biologico. Pezzi, scorie, rimanenze, di una pluralità d’esseri, che persino adesso, li circondano completamente. Minuscoli gamberi brulicanti… Gli occhi fissi, la coda segmentata. Nella quantità d’infiniti miliardi. Ecco, quindi, che cosa succede quando le condizioni climatiche estreme, o la semplice anomalia di un particolare habitat, non permettono lo sviluppo diffuso di specie voraci che possano sterminare i “piccoli”. Eppure, persino qui, anche adesso, lo scenario biologico non è del tutto pacifico. Ma vi sono, piuttosto alcune specie in grado d’imporsi almeno in parte sugli sciami di crostacei, attraverso metodi molto particolari. Prima fra tutte, quella che Copley non esita a definire, con chiara citazione cinematografica, la sua Stella Assassina (Death Star). Dando seguito, ancora una volta, alla netta corrispondenza ideale tra gli abissi e lo spazio siderale, già presente nella nomenclatura dei più diffusi echinodermi (sapete di chi sto parlando) che in ambito scientifico vengono definiti, facendo ricorso alla lingua latina, Asteroidea. Le stelle marine che sono ovunque eppure rispondono tutte, in linea di massima, alla stesso schema ecologico: raschiare il fondale, agendo come spazzini di quanto nessun altro si prefigge di consumare. Ovunque, tranne che nei fondali distanti, circostanti dai ghiacci eterni della penisola Antartica. Perché questa, signori, è la Labidiaster annulatus, una creatura dall’intento killer e lo scheletro calcareo flessibile, capace di muoversi molto agilmente…

Leggi tutto

L’eccezionale curiosità dei cuccioli di licaone

Quando la scorsa primavera, la BBC diede inizio alla sua serie Spy in the Wild, basata sulla collocazione di alcuni pupazzi meccanici animatronic con videocamera in prossimità di gruppi di animali selvatici, scelse necessariamente di farlo coinvolgendo alcune delle specie dalle interazioni sociali più complesse e maggiormente simili alle nostre. Ciò per una ragione estremamente funzionale allo show: riprendere la loro reazione interessata, o vagamente confusa, di fronte ad un oggetto costruito per assomigliare il più possibile a loro ma che inviava segnali “sbagliati” come i movimenti scattosi, un odore, o assenza dello stesso, e/o la mancanza di adeguate vocalizzazioni. A questo punto intendiamoci, l’intero progetto non aveva in realtà particolari metodi scientifici, né divulgativi. Si potrebbe anzi affermare che i potenti obiettivi di cui dispone oggi l’industria videografica dei documentari, anche da centinaia di metri di distanza, potessero restituire un’immagine altrettanto chiara e definita delle creature al centro di ciascun episodio. Se non di più. Rappresentando piuttosto un modo per mostrare il loro comportamento in circostanze inedite, suscitando, nuovamente, l’interesse delle persone. Così tra scimmie, suricati, pinguini e castori, fu scelto di dedicare l’ultima puntata ad una delle creature più a rischio dell’intero continente africano, il cane selvatico di quelle terre, anche detto Lycaon pictus, o licaone. Occasione che diede l’opportunità di mostrare un lato inedito della sua condizione, ovvero la maniera in cui i piccoli del branco, durante le ore dedicate alla caccia, vengono lasciati occasionalmente soli in prossimità della tana. È un tratto altamente distintivo di questo animale, nel quale l’unica coppia a cui viene permesso di produrre una discendenza è quella dominante di ciascun gruppo di animali, con una quantità media di figli e figlie notevolmente superiore a quella del cane: 10-16, essenzialmente, abbastanza per costituire un nuovo branco subito dopo la nascita. Cosa che, in un certo senso e per lo più temporaneamente, avviene.
L’età giovanile è notoriamente un momento importante per gli animali carnivori, rappresentando la stagione della vita in cui gli viene concesso di giocare, facendo pratica per le loro successive cacce e l’implementazione della difficile regola della sopravvivenza. Difficile non ricordare le lotte inscenate dai tigrotti e leoncini, talvolta tra fratelli, qualche altra coinvolgendo gli stessi genitori, che con estrema pazienza si lasciano sottomettere dalla prole, sapendo istintivamente l’importanza che avrà nel loro futuro lo sviluppo di un’indole adeguatamente aggressiva. Il che implica, per il licaone, un’importante tratto di distinzione. Questo perché il canide in questione, che vive e soprattutto, caccia in branco, dovrà piuttosto curarsi di acquisire, già in tenera età, la capacità di capire il suo prossimo e cooperare con lui. Ecco perché tra tutte le scene del succitato documentario, forse una delle più memorabili resta questa usata nel promo di YouTube, in cui il pupazzo meccanico era stato riassemblato a guisa di un piccolo appartenente a questa specie. E ciò non soltanto perché l’esemplare adulto sarebbe stato più difficile e costoso da riprodurre (anche se questo può certamente essere stato un fattore) quanto per la ragione che dovrebbe animare, idealmente, ogni vero cultore della natura: mostrarla al suo meglio, evidenziare i tratti che maggiormente ci affascinano e colpiscono al nostra fantasia di umani.
È a questo punto, più o meno, che la sequenza ha inizio, con un primo piano del leggermente inquietante mecha-lycaon (vedi il concetto dell’uncanny valley, la somiglianza eccessiva, ma non perfetta, di ciò che imita la realtà). Il pupazzo, relativamente convincente da lontano, ha il suo punto forte nella passabile ricostruzione del manto maculato di questi canidi un tempo soprannominati “lupi dipinti”, ed è dotato di servomotori in grado di dargli un certo grado di vivacità. Ciò nonostante, difficilmente potrebbe superare uno scrutinio ravvicinato da parte di un bambino. Figuriamoci dunque, quello di un cucciolo della specie in questione, che a differenza di noi, possiede tutta una serie di segnali fisici e biologici per comunicare con i suoi simili precedentemente sconosciuti. Eppure nonostante questo, appare fin da subito chiaro che i piccoli di licaone non sono soltanto incuriositi, bensì addirittura socievoli nei confronti dell’intruso, mostrandosi più che mai intenzionati ad attirare la sua attenzione. C’è una netta differenza, con la reazione che potremmo aspettarci da parte di un animale territoriale verso qualcosa che non può realmente arrivare a comprendere, ovvero diffidenza, cautela, persino aggressività. Sentimenti sostituiti da una pacifica apertura che tra l’altro parrebbe estendersi, nella scena successiva, anche al comportamento dei cani adulti finalmente di ritorno dalle loro scorribande nella sconfinata savana dell’Africa subsahariana…

Leggi tutto

La furbizia del serpente che sa fingersi un ragno

Il canto ripetitivo della cappellaccia, uccello simile all’allodola, risuona spesso tra le foreste rade dei monti Zagros, la catena di rilievi più estesa nell’area geografica di Iran e Iraq. Questo luogo antico, un tempo noto come “porta dell’Impero Persiano”, tradizionalmente riconosciuto come luogo d’origine del popolo Curdo, presenta un clima ospitale di tipo Mediterraneo, con un’ampia quantità di specie vegetali ed erbivori, che non dimostrano di possedere l’intenzione, né gli strumenti, per disturbare il piccolo uccello. Per questo il suddetto passeriforme, dal nome scientifico di Galerida cristata, non si mostra particolarmente diffidente verso i potenziali pericoli, e sopratutto nel periodo in cui deve procacciare il cibo per i piccoli, piomba dall’alto su ogni possibile fonte di cibo: semi, vegetali e frutta, ma anche l’occasionale piccola preda, come un insetto o ancor più frequentemente, da queste parti, un aracnide di qualche tipo. Come dei piccoli esemplari di solifugo, l’ordine di pseudoragni dai grossi cheliceri (zanne) diventato famoso in passato per una foto scattata dai militari americani, in cui apparivano due esemplari uniti durante l’accoppiamento, sollevati con cautela mediante l’impiego di una canna di fucile. Ora il caso vuole, che se lo stesso gesto fosse stato effettuato in una zona pietrosa piuttosto che sabbiosa, il soldato avrebbe potuto avere davvero una pessima sorpresa. Basta vedere che fine fa l’uccello.
Voglio dire, possiamo davvero biasimarlo? L’abilità dello Pseudocerastes urarachnoides, o vipera cornuta dalla coda-ragno, sta tutta nella recitazione. Tutto quello che un’incauto passante aviario, o il milite in cerca di svagopotrebbero scorgere a una certa distanza, non è altro che una piccola creatura dalle molteplici zampe, che per qualche motivo sta correndo tutto attorno ad un una delle numerose crepe di minerale gypsum (gesso) che caratterizzano la regione. Finché avvicinandosi, non inizierà a notare qualcosa di strano. Ma per una creatura dotata di ali, che piomba velocemente dall’alto, a quel punto sarà già troppo tardi. È come la profezia sul finire del Macbeth shakespeariano sulla “foresta che cammina”. Quando la roccia si muove, qualcuno dovrà morire. Questo perché nel buco, o talvolta anche fuori dal buco (a tal punto la sua livrea perfettamente mimetica riesce a coprirla) c’è una vipera tra i 40 e i 70 cm di lunghezza, che con un movimento della durata di un secondo circa colpisce ed avvelena la preda, nella speranza di riuscire a mangiarsela in santa pace. Ora il veleno questa famiglia di serpenti, anche detti false vipere cornute, può avere effetti emorragici piuttosto marcati, anche se raramente porta a gravi conseguenze per gli umani. Ma un uccello dal peso di pochi grammi, passerà immediatamente a miglior vita. Con conseguente decesso per fame, e inspiegabile abbandono, della sua intera e incolpevole nidiata. Anche questa è la crudeltà della natura. E il malefico ingegno, prodotto da quello strumento diabolico che sembra essere, talvolta, l’evoluzione.
La prima osservazione di questo serpente si è verificata nel 1968 quando una spedizione scientifica americana riuscì a catturarne un esemplare, successivamente trasportato presso il Museo Field di Storia Naturale di Chicago, dove fu preservato in qualità di strana curiosità scientifica. L’opinione degli studiosi, infatti, era che si trattasse di un’anomalia causata da un’escrescenza tumorale sulla punta della coda, simile ad un bulbo ricoperto di scaglie stranamente allungate. E assai difficile sarebbe stato scambiare tale particolarità anatomica per un ragno in una situazione di quiete, ovvero senza il particolare effetto indotto dall’animale con movimenti perfezionati dalla sua specie attraverso secoli di tentativi. Finché nel 2006, al biologo Bostanchi (et al.) non venne in mente di rivedere tale ipotesi, coniugandola con quanto gli era riuscito di sapere in merito alle osservazioni aneddotiche dei rettili attestati nell’area iraniana. Fu così che nella primavera del 2008, armati della cognizione che potesse trattarsi di una nuova specie, a un’equipe di naturalisti giunti per effettuare rilievi nei dintorni di Chakar non capitò di riprendere direttamente la scena dell’incredibile serpente in caccia. Il video risultante pare prelevato direttamente da un film di fantascienza… O dell’orrore.

Leggi tutto