Sapore che danza, ovvero l’esperienza giapponese di mangiare un pesce vivente

Lo stereotipo dello strano Giappone costituisce un punto ricorrente nell’interpretazione a distanza di una cultura oggettivamente dotata di tratti distintivi nei confronti di qualsiasi altra, insolita persino nel contesto dei suoi geografici e più immediati dintorni. Il che può esser detto di molti luoghi e plurimi contesti allo stesso tempo, eppure sembra tanto maggiormente pregno, nel caso di un paese colonizzato anticamente, e che ha potuto conoscere per lungo tempo le dirette conseguenze di una ferrea politica d’isolazionismo. Politico, sociale, culturale. C’è dunque tanto da meravigliarsi se, per gli avventurosi scopritori di anomalie gastronomiche, esso rappresenti uno dei poli visitabili maggiormente interessanti al mondo? Dove neppure i sapori percepibili dall’organismo umano vengono considerati gli stessi (vedi il gusto… Umami) ma le cose prendono una piega particolarmente caratteristica, quando si entra nel merito dei metodi di preparazione per i principali ingredienti. “[Loro] ci danno dei pigri perché lavorano per 10 ore al giorno, ma almeno [Noi] lo cuociamo prima di mangiarlo, il pesce” è un punto fermo degli stereotipi nazionali, declinabile come semplificazione da parte dei portatori di molteplici bandiere diverse. Eppure ciò non raggiunge neppure il nocciolo della questione, quando si considera che sussistono casistiche, non esattamente quotidiane eppur quanto meno stagionali, in cui gli abitanti del più remoto arcipelago d’Oriente neppure provvedono ad uccidere quei familiari abitanti degli abissi. Bensì piuttosto, li accolgono tra i denti mentre si agitano, per gustare il preciso momento della loro piccola e altrettanto rapida dipartita da questo mondo. Odorigui (踊り食い) è il nome della pratica, consistente nel mangiare (Kui – 食い) qualcosa che danza (踊り – Odori) dinnanzi a cui persino la cruenta consumazione dell’ortolano affogato nell’Armagnac, citato con trasporto in tanti thriller e storie poliziesche statunitensi, appare largamente superato in termini di crudeltà animale. Poiché in una porzione tipica di Shirouo (シロウオ) o “pescetti bianchi” di piccoli esseri danzati, o per meglio dire agitati nell’impossibile tentativo di salvarsi la vita, possono essercene dozzine, da trangugiare in un sol sorso o assaporare lentamente, uno alla volta. “Venite anche voi ad assaggiare il gusto della primavera” Annuncia entusiasticamente un sito promozionale della regione di Fukuoka. “Potrete mandarli giù interi così da provare l’eccitante situazione di una creatura che si agita nel vostro esofago. Oppure masticare per uccidere, lasciando che il sapore dolce amaro si diffonda rapido all’interno della vostra bocca […]”

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Terrore coreano e l’ultimo nababbo da mangiare per il mostro che raggiungerà il paradiso

Pensavo, sotto l’ampia tesa del mio traslucido cappello: “Sia dannato quel funzionario civile di VI livello, facente-funzione di addetto alle riscossioni pecuniarie, Namgung.” E dannata la sua festicciola organizzata per il festival del quarto mese, Chuseok. Nella tenuta in cima alla collina periferica di Changwon, singola città maggiore del Gyeongsang. Che in questo grande Impero di Silla, era stata designata come un’entità amministrativa indipendente, proprio per permettere alla classe dirigente di gestire in modo autonomo, situazioni come questa. “Offrire vino di riso cheongju ai suoi sottoposti, per poi fargli astute domande collegate alle particolari circostanze dei loro esami di stato! Mettere ME, alla berlina! Perché non ricordavo almeno una poesia creata durante il vecchio regno di Goguryeo!” E poi pronunciare quell’elaborato insulto… Ma mentre tentavo di rievocare dal profondo le parole esatte utilizzate da Chuseok, udii un tremendo suono ripetuto. Bii-Bii, Bii-Bii. E ancora in mezzo agli alberi di canfora, piantati lungo il viale che portava alle magioni degli Yangban: Bii-bii, bii-bii, HARRUMPH. E allora estratto il rigido ventaglio simbolo del mio ruolo ufficiale, la puntai tremante innanzi quando capii che un qualcosa d’imponente stava per frapporsi sul mio cammino. La testa irsuta, sormontata da un grosso paio di corna. I denti aguzzi come quelli di un coccodrillo. Le lunghe maniche a coprire arcuati artigli, tra i quali stringeva una lunga pipa di salice intagliato. Con voce stentorea ed uno strano accento, l’essere soltanto vagamente antropomorfo parlò, mentre gli alberi si ripiegavano a formare le pareti di un teatro. “Ah, UMANO. Inconsapevole, pochi minuti fai sei transitato nel mio reame. Da queste parti, mi chiamano Yeongno. Lascia che ti parli dei precisi termini di una maledizione. La MIA maledizione. Che sto per infrangere, stasera.” La bestia si sedette allora lungo il singolo passaggio tra le fronde, e narrò a lungo la sua triste vicenda. Di come Budda in cima alla montagna, accantonato per ferrei decreti mentre il popolo si trovava costretto a seguire il pragmatismo del vecchio Confucio, aveva imposto al suo infedele e un tempo facoltoso servitore di arrestare l’incessante ciclo delle reincarnazioni. Poiché infausto era il karma accumulato in vita, al punto che avrebbe dovuto lasciare il mondo meglio di come l’aveva trovato, “Risparmiando nonni e bisnonni”. Eppur divorando dalla testa ai piè un totale di dieci decine di yeongno, gli indegni funzionari designati dell’Impero di Silla, prima di poter lasciare finalmente questa valle crudele. “Capisci cosa intendi, amico mio? HARRUMPH. Novantanove ne ho mangiati, novantanove al conteggio attuale. Sono quasi salvo!” E con fare stranamente tranquillo, spalancò la grande bocca simile a quella di un cavallo di fiume.
Eppur mentre l’orribile creature si avvicinava con fare ingombrante, ebbi l’ultimo tremore di un’idea. Questa sera, avrei tentato il tutto per tutto, piegando il mondo stesso al mio bisogno. Avrei parlato di figli e di nipoti avuti grazie alla mia amata moglie, tecnicamente non ancora esistente. E SOLTANTO da un punto di vista pratico, non ancora venuti al mondo…

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L’eredità silente dei Nabatei, una seconda necropoli di pietra nel deserto saudita

L’aggregazione delle civiltà nel Mondo Antico è sempre stata un catalizzatore per la costruzione di opere capaci di resistere al passaggio dei millenni. In parte come tappe di un costante viaggio tecnologico e creativo, nonché come strumento utile alla congiunzione delle spirito e la mente, il raggiungimento di uno stato collettivo incline alla risoluzione dei grandi problemi dell’esistenza. D’altra parte “ciò che unisce”, popoli distanti nello spazio e nel tempo come gli Egiziani, i Cinesi, i Greci, i Romani, gli Aztechi… Forse non è altro che una condizione concettuale nota in campo psicologico come il pregiudizio di conferma: essi passarono alla Storia come grandi architetti, poiché tutto il resto è stato nel frattempo trasportato via, dall’incessante vento delle epoche intercorse. Un’affermazione in alcun caso vera, quanto quello di uno dei regni classici del deserto d’Arabia, nato attorno al III secolo a.C. da un gruppo di tribù beduine provenienti dallo Yemen, capaci di sopravvivere sotto il sole ardente, là dove nessun altro era capace d’individuare l’acqua. Da cui il termine in lingua akkada di nabatu, “brillare intensamente”, e il conseguente etnonimo di Nabatei, connesso a un regno con la capitale nell’odierno stato di Giordania. E non c’è forse maggior creatore di beni tangibili, di colui o coloro che conobbero la vita nomadica, prima di scegliere il sentiero esistenziale che risiede nella costruzione di grandi città. Particolarmente quando progressivamente quando in grado di arricchirsi, grazie al posizionamento strategico lungo un’importante linea di collegamento commerciale, la Via dell’Incenso che partiva dall’estremità della penisola dai molti beni predisposti all’esportazione. Luoghi come Petra, patrimonio dell’UNESCO fin dal 1985, celebre per le facciate delle tombe situate nelle rocce d’arenaria finemente scolpite dai generazioni d’artigiani sacri. Ma così come qualsiasi impero non può essere riassunto da un singolo luogo, circa 500 Km più a sud gli stessi Nabatei costruirono un sito paragonabile per antichità ed importanza, che oggi molti tendono purtroppo a dimenticare. Forse per la difficoltà di ottenere un visto turistico con la qualifica di visitarlo, essendo questo situato entro i confini dell’Arabia Saudita, dove in base ad un particolare brano del Corano viene giudicato maledetto e soltanto in epoca recente, branche del governo maggiormente progressiste stanno cominciando a favorirne l’approfondimento archeologico mediante l’impiego di mezzi contemporanei. Sto parlando di Hegra, da cui ogni traccia d’insediamenti precedenti è stata ormai da tempo immemore spazzata via. Tranne le incombenti presenze di maestose tombe, paragonabili per la loro magnificenza ai più imponenti beni artistici e culturali dell’umanità di un tempo. In verità abbastanza remote, da possedere quel fascino isolato che si attribuisce in modo stereotipico ai dintorni di massicci centri urbani, come le piramidi nella piana di Giza, che gettano la propria ombra su palazzi costruiti con cemento e vetro…

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Le case nate dalla pietra del Mediterraneo e dai primordi della Corsica meridionale

Invadere militarmente un’isola non è sempre o necessariamente un’impresa facile, soprattutto quando è ricoperta da una fitta vegetazione di 2.500 specie vegetali differenti, offrendo innumerevoli recessi per nascondersi a forze popolari motivate a mantenere l’indipendenza. Lo scoprì molto presto la Francia, dopo l’acquisizione nominale della Corsica a seguito del trattato di Versailles del 1768, come pagamento dei debiti contratti dalla Repubblica di Genova, ormai da molti anni in declino. Ma soprattutto, prima della decisiva e inevitabile battaglia di Ponte Novu dell’anno successivo, il superiore, più attrezzato esercito dell’Europa continentale si sarebbe scontrato con l’intraprendenza della milizia messa assieme dal Padre della Nazione e generale Pasquale Paoli, lo statista corso, patriota ed avvocato che aveva costruito verso la metà del XVIII secolo una delle costituzioni più democratiche e progressiste di tutta Europa, liberamente basata su quella Inglese. Ma la guerra nelle decadi a venire, secondo molti abitanti del posto, non sarebbe mai finita, mentre conducevano scorribande e attacchi con tecniche di guerriglia a partire dalle loro basi nascoste tra i rilievi dell’entroterra. All’interno di fattorie, caverne e la perfetta via di mezzo tra le due cose: l’abitazione tradizionale, di manifattura preistorica ma migliorata ed attrezzata proprio alle soglie del secondo secolo Moderno, nota localmente come oriu; una visione che potrebbe aver ispirato de Lo Hobbit tolkeniano, le rivedute leggende fantastiche sugli gnomi o ancora l’invenzione successiva dei Puffi, da parte del fumettista francofono Peyo. Principalmente concentrate nella parte meridionale del territorio isolano, come potenziali resti di una società del paleolitico di cui sappiamo poco o nulla, queste costruzioni (al plurale, orii) costituiscono l’esempio di uno sfruttamento di condizioni geologiche particolari, quelle in grado di condurre al processo noto per antonomasia come “tafonizzazione”. Un’erosione a nido d’ape di corpi rocciosi indivisi, in cui l’effetto combinato di vento, pioggia e la penetrazione delle acque all’interno di microscopiche fessure causa l’erosione di pietre come il calcare a partire da singoli fori che si allargano, costituendo l’equivalenza paesaggistica del formaggio svizzero Emmentaler. Offrendo cavità che agevolmente lavorate, grazie all’impiego degli attrezzi in selce dell’Era tecnologica clactoniana, potevano essere ingrandite e trasformate in accoglienti spazi ove trovare un qualche tipo di rifugio dagli elementi, o mettere al sicuro i propri beni maggiormente preziosi. Da cui l’etimologia ritenuta maggiormente probabile per il termine sopracitato, che potrebbe provenire dal latino horeum – granaio. Una funzione ormai da lungo tempo dimenticata ai tempi dell’irredentismo corso, quando la maggior parte degli orii era impiegato come rifugio dalla nuova società pastorale. E quando necessario, base operativa per coloro che intendevano difendere con la spada e le armi da fuoco i meriti di quell’ideale stile di vita…

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