Il giardino sul fondo di un fiume brasiliano

Immagini affascinanti di un soggetto piuttosto chiaro: la foresta pluviale del Sudamerica, con la sua strabiliante varietà vegetale, fronde collocate ai lati del sentiero, poco prima che un piccolo ponte in legno, dall’impatto ecologico attentamente calibrato, conduca al di la di un non meglio definito corso d’acqua. Soltanto nella luce, il video mostra qualcosa di strano: questa cupezza bluastra, certamente d’atmosfera, che pare quasi la rappresentazione ideale di come dovrebbe apparire un boschetto mistico, avvolto dalle nebbie di Avalon qualche giorno prima della congiunzione d’inverno. Ma è una ripresa in prima persona, questa realizzata dalla guida turistica del Parco Rio da Prata Vera Waldemilson, che nasconde un segreto estremamente significativo. Che appare chiaro quando, nella sua carrellata documentaristica, la donna sposta l’inquadratura verso l’alto, mostrando quella che si presenta evidentemente, in maniera del tutto incontrovertibile, come la superficie dell’acqua poco distante. Come è possibile tutto questo? Soltanto in un modo: stavamo osservando fin dall’inizio, attraverso questa valida testimonianza a 60 frame al secondo, la scena di un sentiero allagato. L’evento che ha fatto notizia la settimana appena passata presso questo celebre angolo di Brasile nello stato del Mato Grosso del Sud, anche noto come la riserva per l’ecoturismo sostenibile di maggior successo tra i confini dell’intera nazione. Certo: niente di cui meravigliarsi, quando si prende in considerazione la cura organizzativa e l’attenzione all’ambiente dimostrata dalla gestione della Fazenda Cabeceira do Prata, inizialmente una fattoria con bovini e cavalli confinante con la municipalità di Bonito, poi trasformata in un vero e proprio parco naturale a gestione privata, con una funzionale catena di montaggio mirante a far conoscere, ai visitatori provenienti dall’estero, tutta l’eclettico ed originale splendore dell’ecosistema locale, caratterizzato da una biodiversità che trascende le aspettative del quotidiano.
Ma per quanto si possa organizzare ogni cosa fino ai più minimi dettagli, come si dice, gli imprevisti capitano ed è proprio di questo che si è trattato, lo scorso 19 febbraio, quando una serie di piogge particolarmente ingenti ha causato un garbato straripamento del corso d’acqua che da il nome alla riserva (Rio da Prata significa, letteralmente, Fiume d’Argento) inondando completamente il sentiero dove doveva passare il tour. Ora normalmente, un evento simile avrebbe letteralmente rovinato la gita delle 8 persone che avevano prenotato per quel giorno, se non fosse che, come componente fondamentale del sopralluogo, viene convenzionalmente prevista l’immersione delle limpide acque in questione, fornendo a tutti i partecipanti una maschera e la muta per fare snorkeling, nonostante le acque in questione mantengano un’accogliente temperatura di 20-25 gradi per tutto l’anno. Il che ha permesso, sostanzialmente, di continuare la parte terrigena della trasferta come se nulla fosse, potendo scegliere, per chi ne avesse il desiderio, di fare letteralmente come se non fosse successo nulla, ed inoltrarsi lungo il sentiero attentamente curato camminando direttamente sul fondale. Ciò che colpisce maggiormente nella sequenza decisamente mai vista prima, ad ogni modo, resta in primo luogo l’eccezionale trasparenza dell’acqua, tale da ricordare, addirittura, le famose piscine dove la NASA fa addestrare i suoi astronauti a muoversi con la tuta in situazioni di gravità zero, progettate appositamente per far sembrare di fluttuare liberamente nell’aria. Qualcosa di simile a quanto succede, comunemente, nel Rio da Prata (da non confondersi con il ben più celebre ed omonimo estuario dei fiumi Paranà ed Uruguay) per effetto di una condizione del tutto naturale ed assolutamente indipendente dalla mano dell’uomo: la depurazione spontanea delle foreste di tipo ripariale, uno dei 15, e forse il più importante a determinate latitudini, di tutti i biomi presenti sul pianeta Terra.

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Un ombrello che si ribalta per non bagnare il pavimento

KAZbrella

Nessuno, nell’intera storia del mondo passato e presente, ha mai parlato male della pioggia. La fredda, umida, battente presenza di ogni potenziale giorno, sia autunno, inverno, primavera o estate: c’è sempre spazio, nei nostri cuori e sopra le bagnate teste, per un pensiero da rivolgere a quel cielo che si scarica dei contenuti acquosi. Alla fermata dell’autobus, con uno zaino niente affatto impermeabile ma carico di contenuti particolarmente delicati. Per le strade del centro storico, i documenti sotto braccio, ove i cornicioni scarseggiano mentre la pavimentazione si fa sdrucciolevole, gli schizzi che rimbalzano per ogni dove. Ed è facile accogliere con gioia quella famigliare sensazione, degli abiti inadatti che lasciano passare tra le fibre il gelo, poi si fanno più pesanti, sempre più gradevolmente affini all’aria satura e in ammollo. Già, fra ogni potenziale condizione meteo, la mia e la vostra preferita, ora e sempre, una barriera per le cose normalmente semplici; ma che stranamente, spesse volte, può servire a farle divertenti. Per lo meno, differenti. È tutta una questione di equipaggiamento. Lo scalpellino che volesse trarre un capitello per colonne a da un gran blocco di marmo di Carrara, a farlo a mano, hai voglia a faticare! Ma metti in quelle stesse mani un martelletto pneumatico, la stessa cosa si risolve in una mera passeggiata. Come quella di un quasi dimenticato pomeriggio, sul finir d’Aprile pieno di incertezze, quando la mattina risplendeva il sole. E siamo usciti, nuovamente, senza ombrello! Assolutamente madornale. Non si può considerare l’unica arma utile e necessaria contro l’atmosfera rancorosa alla stregua di un qualsiasi mazzo di chiavi, portafoglio o cellullare. Come la katana, il parapioggia è l’anima del samurai moderno, ingombrante, problematica risorsa dei frequenti casi d’emergenza. Quindi perché mai, lo detestiamo?
Jenan Kazim, fondatore e mente operativa della startup KAZ Designs, risponde alla domanda con la messa in pratica di una teoria, quella posta a fondamento del suo rivoluzionario KAZbrella (s’inizia a intravedere un pattern onomastico dalla splendida continuità). Ecco l’effettivo ribaltamento delle circostanze: un ombrello che, grazie ad un sistema brevettato, si apre alla maniera di un fiore o antenna parabolica, per poi assumere, grazie a un semplice gesto successivo, la consueta forma concava dei suoi predecessori. Ma la vera bellezza dell’oggetto non è il suo funzionamento in quanto tale, ma piuttosto ciò che si riesce ad ottenere grazie a tale prassi operativa: ecco un dispositivo, per deviare il battere dell’acqua di ritorno sulla Terra, molto logico, dopo secoli d’attesa. Perché la parte che riceve il fluido pervasivo, alla chiusura dello stesso, si ritrova immancabilmente all’interno, risparmiandoci la nota problematica del gocciolìo, chiaro segno del passaggio di colui che viene dall’esterno, allora come adesso, quando c’è la nuvola che tenta di essere notata. Sarebbe il paradigma del paziente zero, colui il quale, contaminato dall’agente fluidifico del virus del bagnato, accidentalmente lo trasporta dentro ad un ufficio inconsapevole, tra le preziose scrivanie immanenti. Mai…Più? Punto primo. Ma KAZbrella ha ancora almeno due dardi nella sua faretra dei vantaggi, immediate conseguenze del suo approccio all’inversione delle aspettative: avete presente quel classico problema di aprire lo sportello dell’automobile, con lo scudo acquatico già pronto nella mano, ma ancora ben distanti dal poterlo aprire? Ah, la tremenda e bagnaticcia frustrazione. Perché la struttura ad ala di pipistrello della classica soluzione progrettuale, per effettuare la mansione rilevante ha pur bisogno di uno spazio laterale, tutto attorno ed alla stessa elevazione dal terreno. Mentre un sistema in grado di aprirsi verso l’alto, comparabilmente, non presenta un simile problema. Ed è un po’ la stessa cosa quando fra la gente, stretti fra una folla che sta già iniziando a innervosirsi per l’umidità crescente, si può far fiorire il proprio ombrello, senza occhio cavare, né colpo vibrare sulla tempia del vicino. Punto secondo e punto terzo, eccoli qui. Direi che giunti a questo remoto punto-a-capo, ci sarebbe ben poco da aspettare oltre per l’acquisto, se non fosse per il classico problema delle invenzioni contemporanee: ovvero, del KAZbrella già si parla online, mentre in effetti quello è ancora ben lontano dai negozi. Si trova piuttosto sospeso nel limbo metaforico del crowd-funding, in attesa che un sufficiente numero di persone già ci creda, metta i soldi sull’idea ed attenda con pazienza la riuscita dell’impresa commerciale. Ma l’acqua non aspetta nessuno e continua a cadere, imperturbabile e spietata.

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