Il mistero apiario delle arnie appese lungo il fianco della montagna in Cina

L’uso delle piante mediche, la costruzione dell’aratro, la coltivazione dei cereali. L’utilità del fuoco nella preparazione dei campi agricoli. L’agopuntura e la consumazione del fungo mistico Lingzhi, capace di concedere l’immortalità. Molte sono le conoscenze tradizionalmente associate alla figura dell’Imperatore mitologico Shennong, il “Divino Agricoltore” la cui opera troverebbe collocazione cronologica nella non meglio definita Preistoria cinese, attorno al secondo millennio prima della nascita di Cristo. Mentre una specifica tecnologia di tale mondo, per quanto ci è concesso di apprendere, può essere individuata tra i confini culturali della Terra di Mezzo unicamente a qualche secolo di distanza. Pur trovando valida quanto evidente collocazione proprio lungo il fianco di quella stessa montagna, non per niente chiamata Shennongjia (神农架 – La Scala di Shennong) dove si narra che il sacro governante fosse solito ritirarsi, nei lunghi periodi in cui lasciava i propri sottoposti ad organizzare e gestire autonomamente la propria esistenza. Luogo il cui aspetto complessivo, ad una prima visita, può molto chiaramente presentarsi come un’approssimazione di loculi o casette costruite in legno, oppure la versione più prettamente rurale di un tipico capsule hotel. Ma nessun salariato lontano dalla sua residenza di origine, né altro abitatore dei contesti urbani prossimi all’estremo sovraffollamento, trascorre le proprie nottate saldamente abbarbicato a un tale assemblaggio al tempo stesso arcologico e vertiginoso. Bensì un altro tipo di moltitudine, per cui vivere in maniera saldamente sovrapposta rappresenta più un punto di forza, necessario a favorire la difesa delle proprie residenze da ogni tipo di terribili nemici, parassiti e saccheggiatori. Fatta eccezione, s’intende, per coloro che personalmente hanno edificato tali condomini, così drammaticamente simili ad una ronzante collezione di orologi a cucù.
Siamo di fronte, a dire il vero, ad una delle più singolari e memorabili anomalie in tutta la pratica internazionale dell’apicoltura, in cui l’originale bugno villico è stato sostituito da un qualcosa di radicalmente diverso, creato in base alle specifiche necessità di un particolare contesto climatico, ecologico e organizzativo. Quello, per intenderci, della riserva della suddetta Scala presso la regione ricca di formazioni carsiche dello Hubei, non troppo lontano dal punto terminale della catena montuosa di Daba (大巴). Lì dove una spropositata foresta decidua, dell’ampiezza di 2.618 chilometri quadrati, si presenta come uno degli habitat dalla maggiore biodiversità al mondo, con ben 1.793 specie di piante rigorosamente endemiche della Cina. E mammiferi, tra cui scimmie come il rinopiteco dorato, il rarissimo leopardo nebuloso e l’orso bruno asiatico (Ursus thibetanus). Per non parlare degli uccelli, alcuni dei quali adattatosi, attraverso l’evoluzione, a impiegare con profitto le rientranze o fori delle scoscese pareti montane per costruire il nido, al fine di proteggersi efficientemente dal grande numero di assalti dei loro nemici carnivori e predatori. E sapete, invece, chi non avrebbe mai potuto dire altrettanto? Chi, se non le api eusociali della specie A. cerana, rappresentanti la più ragionevole controparte locale delle più sfruttate e conosciute Apis Mellifera di provenienza europea, che pur producendo una maggiore quantità di miele presentano alcuni punti deboli di chiara importanza. Tra cui l’incapacità di difendere altrettanto efficientemente il nido tramite l’impiego di danze ritmiche con le proprie ali, o mediante l’aggressione in massa contro l’imponente calabrone giapponese (Vespa Mandarinia) che può essere in tal modo portato a surriscaldarsi per l’opera delle operose residenti, fino alla sua auspicabile ed inevitabile dipartita da questo mondo. Ed in questo notevole luogo, per la mano e convenienza degli stessi umani, hanno imparato a vivere in maniera tale da poter accrescere ulteriormente l’efficacia dei mezzi di sopravvivenza inerentemente derivati dal loro modus vivendi collettivo…

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Le discusse vestigia megalitiche di un popolo smarrito sul tetto della Siberia

Sfruttando le odierne pregresse archeologiche e gli ultimi ritrovamenti di resti risalenti alla Preistoria, possiamo dire oggi di conoscere piuttosto accuratamente il luogo d’origine, ed i progressivi movimenti, delle prime inquiete comunità umane. A partire dalla prima manifestazione dell’Homo sapiens, 200.000 anni fa in Africa e lungo l’itinerario successivo delle migrazioni indoeuropee, evento alle radici delle plurime culture da cui derivano entrambi i “mondi” attualmente riconosciuti: Oriente, Occidente. Ma se osserviamo la cronologia approvata per quanto concerne le regioni del Nuovo Mondo, il verticale continente americano, colonizzato circa 15.000 cicli a questa parte cominciando dal settentrione, appare particolarmente evidente l’attraversamento dell’Oceano tramite l’impiego di un perduto ponte di Terra, quello che il mondo accademico è solito chiamare Beringia (per il suo estendersi oltre lo stretto di Bering) ma che i teorici della storia alternativa, i cospirazionisti ed i cultori della teoria extraterrestre non esiterebbero a chiamare Atlantide, Mu o altri nomi strettamente interconnessi a popoli e culture che si affollano nella mitologia ereditata dai nostri antenati. Così appare chiaro il ruolo del più vasto spazio circondato da terre emerse, che oggi ha il nome di massa continentale eurasiatica, come luogo di transito per le popolazioni, cronologicamente corrispondente grosso modo all’epoca in cui le genti del sud-est si spingevano fino al remoto arcipelago indonesiano. Come parte di un viaggio altrettanto interconnesso a culture monolitiche e ipotetici imperi perduti, di cui la scienza non riesce a presentare un numero abbastanza grande di prove inconfutabili per farli figurare nei libri di storia. Non tutti sono coscienti, tuttavia, dell’alto ed inspiegato numero di siti religiosi, rituali e culturali ritrovati nei luoghi remoti della Russia, dove un clima in grado di oscillare fino a molte decine di gradi sotto lo zero avrebbe fatto sospettare l’assoluta invivibilità degli ambienti, almeno fino ad epoche più recenti. Luoghi come il labirinto di pietra della penisola di Kola, Oblast di Murmansk, oppure le triadi di pietra della montagna di Gorelaya, note fin dall’epoca tardo rinascimentale. Largamente sconosciute, d’altra parte, rimasero per un tempo assai più lungo le regioni nel più profondo entroterra della Siberia, dove le restrizioni ai viaggi imposte fin dall’inizio del secolo scorso impedirono alle spedizioni scientifiche di raccogliere dati, almeno fino all’inizio degli anni ’90, successivamente alla caduta dell’Unione Sovietica. Quando abbiamo i primi resoconti di un particolare sito ad est delle montagne di Altai, non troppo lontano dal confine della Mongolia, dove i resti di quella che potrebbe sembrare a pieno titolo un’antica e monumentale fortezza sorgono in corrispondenza di una cresta del paesaggio, comunemente identificata con il nome di Gornaya (monte) Shoria.
Qualcosa di letteralmente inusitato per un dato più di qualsiasi altro, come sarebbe diventato evidente attraverso i primi approcci e notazioni effettuate secondo le metodologie attuali: l’essere composto, in parte rilevante, da un accumulo di pietre in grado di raggiungere il peso unitario di 3.000 tonnellate: abbastanza da renderle, per larga misura, l’oggetto più pesante mai spostato dall’uomo in epoca pre-industriale. Alti e impressionanti macigni di granito sovrapposti l’uno all’altro, con una chiara suddivisione in entità separate ed angoli retti, proprio come fossero i mattoni di un’odierna costruzione in muratura. E spazi interstiziali a misura d’uomo, quasi fossero i residui di antichi archi e porte, mentre la caratteristica striatura di taluni elementi lascia sospettare l’utilizzo di specifici strumenti, dello stesso tipo di quelli usati a Kola e presso altre iterazioni della lunga migrazione ancestrale nella direzione dell’alba. Una significativa svolta nella percezione, nazionale ed internazionale, di questa significativa anomalia paesaggistica si sarebbe quindi verificata nel 2013, per la notizia ripubblicata su Internet dell’archeologo dell’Università della Florida John Jensen, corredata da una ricca serie di fotografie, di un sopralluogo del celebre scienziato di confine Georgy Sidorov di una recente spedizione verso la Siberia meridionale. Durante cui ebbe modo di verificarsi non soltanto l’importante (ri)scoperta di un simile mistero della Terra, ma anche il verificarsi di alcuni eventi inspiegabili e per così dire, sovrannaturali…

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Lo dimostra col suo crine dorato: dopo tutto, il naso nella scimmia è sopravvalutato

Se davvero nello schema generale delle cose, l’uomo, discendente delle scimmie, fosse la creatura più evoluta della Terra, spiegatemi questo: cosa succedeva ai nostri antenati, che in un periodo di magra o siccità tentassero di sopravvivere mangiando erba, radici, licheni? Fibre coriacee di cellulosa e legno letterale, totalmente indissolubile all’interno di quegli stomaci eccessivamente limitati. Confrontate tale situazione con la vita e l’alimentazione delle scimmie mangiafoglie, dette scientificamente Colobinae; loro che, grazie a un sistema digerente completo di fermentazione nel primo tratto dell’intestino crasso, rivaleggiano con i grandi erbivori quadrupedi nella capacità di trarre nutrimento da qualsiasi vegetale. Capacità del tutto irraggiungibile, per coloro che pur definendosi perfetti “onnivori” necessitano di fuoco, coltello, forchetta e soprattutto un’accurata selezione degli ingredienti, prima di azzardarsi a trangugiare un’insalata nel bel mezzo della foresta. Che nel caso di questa celebre specie cinese, per una volta, non è quella umida e invivibile del contesto pluviale, bensì l’ambito montano dell’entroterra continentale, ad altitudini di 1.500-3.400 metri, in aree largamente condivise con un altro dei più grandi e insoliti erbivori di questo mondo: il panda gigante. Ma se il Rhinopithecus roxellana, col suo folto pelo sfumato, la pelle di color acquamarina e la coda prensile ha un particolare rapporto con quegli orsi gentili non possiamo dire che la scienza ci offra particolari nozioni in materia, concentrandosi piuttosto sul particolare stile di vita, l’organizzazione sociale e la biologia del cercopiteco. Una creatura, suddivisa in tre sottospecie distinguibili unicamente dalla lunghezza del suddetto arto retrogado, che ha per lungo tempo popolato le nozioni folkloristiche e i racconti della Cina centrale, proprio come termine di paragone per le alterne tribolazioni della razza umana. Primate di dimensioni medio-piccole con un peso attorno ai 16 Kg, essendo non più alto di 68 cm, questo abitante delle cime degli alberi è per l’appunto sempre stato avvolto da un alone di mistero, tale da poterlo associare al concetto mistico di un popolo della montagna, in grado di spingersi fino a luoghi dove ben poche altre creature riescono a sopravvivere; non a caso, tra tutte le creature quadrimani imparentate alla lontana con la nostra genìa, è quella capace di adattarsi alle temperature più basse, fino a luoghi in cui d’inverno si registrano valori inferiori agli 8 gradi sotto lo zero. Abbastanza da riuscire a complicare la loro esistenza, privandole delle risorse addizionali capaci di far parte della loro dieta, tra cui frutta, foglie e persino l’occasionale fiore. E lasciando unicamente il tappeto muschioso dei licheni e altre piante parassite, oltre all’occasionale cattura di un piccolo mammifero ed uccello. Con un durata di vita misurabile attorno ai 20 anni (non si hanno informazioni specifiche per questa specie) e una maturità sessuale raggiunta unicamente dopo i 5, i nuovi nati tendono d’altronde a richiedere cure attente da parte dei loro genitori per tutto il periodo del primo inverno, rendendo non soltanto opportuna, bensì addirittura indispensabile questa naturale propensione all’adattabilità alimentare.
Suddivisa in tre principali zone del Paese di Mezzo, ciascuna corrispondente ad una delle tre sopracitate varietà, la scimmia dal naso camuso si trova soprattutto nel complesso sistema di catene montuose presso il bacino di Sichuan (R.r. roxellana), tra i monti Qinling nella parte meridionale dello Shaanxi (R.r. qinlingensis) e nell’occidente elevato dello Hubei, particolarmente presso la sezione di Shennongjia (R.r. hubeiensis). Ed in ciascuno di questi tre luoghi, come potrete facilmente immaginare, risulta egualmente minacciato dall’espansione territoriale dell’uomo con le sue incontenibili ambizioni, che tuttavia non potranno mai permettergli di metabolizzare, con la stessa praticità e dimestichezza, le foglie prese dagli alberi sul fianco della montagna. Neanche fossero nella dispensa di un enorme fast-food…

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Il ceppo di pietra graffiato dal grande orso al principio della Creazione

Attorno alla metà del XIX secolo, un uomo della tribù nativo americana degli Cheyenne viaggiava lungo le ampie valli disabitate dello stato del Wyoming. Quando per riuscire temporaneamente a ripararsi dal sole, scelse di accamparsi sotto l’imponente butte (collina solitaria) di Matȟó Thípila, ovvero letteralmente nella sua lingua “La Tenda dell’Orso”. 386 metri di roccia monolitica sopra il corso del fiume che l’uomo bianco aveva scelto di chiamare arbitrariamente Belle Fourche, così come una tale svettante caratteristica del paesaggio aveva ricevuto l’appellativo, per una traduzione approssimativa e inesatta, di Torre del Diavolo, con riferimento alla nemesi del Dio cristiano. Esausto per il viaggio, l’uomo decise quindi di dormire per qualche ora, accampandosi vicino al teschio sbiancato di un bisonte, che in circostanze poco chiare aveva finito per trovarsi accatastato ad uno degli imponenti depositi di ghiaia e pietrisco alla base della formazione vagamente simile alla base di un grande tronco di pietra, cui la natura aveva chiesto di scomparire. “In questo luogo sacro, e non del tutto benevolo” pensò il viaggiatore “lo spirito totemico avrà cura di custodire la mia presenza.” E senza ulteriore preoccupazioni, scelse di abbassare le palpebre diventate così pesanti. Trascorsa qualche ora e giunto l’attimo del suo risveglio, tuttavia, una scoperta terribile minacciò di lasciarlo immobile per la paura: durate il suo stato d’incoscienza, infatti, una forza misteriosa l’aveva trasportato sulla sommità dell’impraticabile Matȟó Thípila, assieme al cranio dell’animale su cui tanto aveva fatto affidamento. Incerto su come procedere per ritornare a terra, il viaggiatore trascorse un intero giorno senza acqua né cibo, esposto a tutta l’inclemente furia degli elementi. Finché alla ricerca di un tenue appiglio, con un’ultima preghiera nei confronti della Grande Medicina, non poté far altro che addormentarsi nuovamente, ben sapendo che soltanto un ulteriore intervento sovrannaturale avrebbe potuto riuscire a salvarlo. Trascorsa la notte, il viaggiatore aprì di nuovo gli occhi per scoprire di essere tornato alle radici della grande pietra. E quando li volse verso l’alto, scorse il teschio di bufalo in bilico sul ciglio della sommità, unica prova della sua avventura senza nessun tipo di spiegazione apparente. In quale altro modo, dopo tutto, un tale resto animale avrebbe potuto raggiungere la cima di Matȟó Thípila, dove nessun altro piede del tutto umano si era posato fino al giorno precedente?
Nessun piede umano, s’intende, fatta eccezione per quello di un gruppo di ragazze all’origine dei tempi, che inseguite fino a questo luogo dalla massa ciclopica di un orso leggendario, salirono la grande roccia verticale come si trattasse di un’autostrada, per poi pregare il Dio creatore Maheo, detentore della Grande Medicina, affinché potessero raggiungere in qualche modo la salvezza. E fu così che, mentre il feroce carnivoro incideva profondi solchi con gli artigli in quella che sarebbe diventata folkloristicamente la sua eterna dimora, esse vennero trasportate in cielo dalle Sue aquile, venendo trasformate nelle stelle delle Pleiadi remote. Ma la roccia, guadagnatosi una fama imperitura, sarebbe lì rimasta a perenne monito delle generazioni future. Così che leggende simili si trovano in una complessa gestalt nel repertorio delle diverse tribù di questo stato, tra cui i Sioux, i Kiowa ed i Lakota, mentre l’esistenza del butte sarebbe diventata nota agli europei fin dalle remote esplorazioni, effettuate dai cacciatori e possessori di trappole intenti a trarre sostentamento dalle vaste terre selvagge americane. I quali senza alcun’esitazione avrebbero affermato, già da allora, che la Torre non fosse l’opera di grandi spiriti o altre creature irragionevoli, bensì frutto delle operose mani del più temibile tra gli angeli decaduti, Lucifero che regna nel profondo sottosuolo presso cui vengono inviate le anime dannate dei viventi. Entrambe interpretazioni destinate a passare in secondo piano, o per lo meno essere subordinate, di fronte all’interpretazione contemporanea della scienza! Che vede tale orpello paesaggistico come la mera conseguenza di un’intrusione magmatica attraverso gli strati della crosta terrestre, sebbene in circostanze ed un’epoca tutt’ora incerte…

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