Le spine uncinate dell’obelisco che fiorisce una volta ogni cento anni

Scarno, brullo e largamente disabitato, il paesaggio al di sopra di una certa quota della Ande boliviane e peruviane ha molto in comune con un pianeta decisamente meno ospitale di quello terrestre. Eppure nonostante questo, creature delicate come i colibrì lo sorvolano fino alla quota di 3.000-4.000 metri, potendo contare sul proprio metabolismo accelerato nello sfruttamento efficiente dell’ossigeno rarefatto che vi sussiste. Andando in cerca, per riuscire ad alimentarsi, delle poche piante fiorite non più alte in genere di una trentina di centimetri, piccole stazioni di sosta sull’autostrada della loro esistenza. Benché vi siano luoghi dove, una volta ogni tanto, tali abitatori degli spazi celesti si ritrovano al cospetto della vera abbondanza; in questo caso personificata da un’impressionante colonna, svettante grattacielo delle circostanze. Fino ai 15 metri di un palazzo letteralmente ricoperto da svariate migliaia di fiori, così creato dall’ingegno naturale al fine di lanciare verso l’infinito la propria prole. Non che la titanca, Puya raimondii o “regina delle Ande” come viene talvolta chiamata, rappresenti una vista particolarmente diffusa né comune. Benché la presenza e sussistenza dei cosiddetti bosques (foreste) disseminate per l’estendersi di un tale territorio ne dimostri la ragionevole efficienza nel preservare loro stesse, spesso a discapito di un’umanità largamente ostile. Il che potrebbe anche sorprendere, di fronte alla bellezza estetica di un tale arbusto, finché non si scorge qualcosa di assolutamente insolito ed alquanto impressionante: le letterali dozzine di uccelli morti per ciascuna pianta, rimasti intrappolati mentre tentavano di costruire il nido a più livelli di questo invitante condominio. Stolido ed indifferente al tipo di sofferenza che tende a causare, incidentalmente, anche a creature dalle dimensioni decisamente maggiore. Vedi il caso delle pecore ed altri animali da fattoria, che notoriamente tendono a restare intrappolati nella parte inferiore del maestoso vegetale, dalla forma di uno sferoide asteriscale non dissimile da quella di una yucca o pianta di aloe. Con la fondamentale, spietata differenza, di essere sostanzialmente ricoperta di un fitto strato di spine ricurve simili ad uncini, che invitano e permettono all’erbivoro di avvicinarsi. Per poi afferrarne il pelo impedendogli sostanzialmente di tornare indietro, il che lo porta, agitandosi, a incastrarsi sempre più all’interno ed in alto nel crudele roveto. Al che fa seguito l’idea, largamente ingiustificata, che tra tutte le appartenenti al genere Puya questa sia l’ultima a vantare le caratteristiche di una pianta proto-carnivora, con alcune limitate capacità di digerire la propria “preda”. Laddove la sua tecnica di autodifesa trae l’origine, piuttosto, di proteggere qualcosa di estremamente raro ed insostituibile: il fugace momento della propria spettacolare fioritura…

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La leggenda del piccolo drugstore inchiodato tra terra e cielo

Convergenza: l’incrocio di una multipla sequenza di fattori che, in determinate circostanze, può instradare il senso dei momenti verso la trasformazione dei rapporti tra causa ed effetto. Cambiando le regole, alterando le aspettative, inducendo a nuove connessioni tra le idee. Il tipico escursionista arrampicatore del geoparco dell’entroterra montagnoso nello Hunan, noto con il termine di Shiniuzhai – 石牛寨 (“Villaggio della Mucca di Pietra”) era solito ad esempio giungere al momento cardine della propria spedizione trasportando il carico non certamente indifferente di almeno un paio di litri d’acqua. Ovvero il fabbisogno giornaliero tipico, rivisto verso l’alto in funzione dello sforzo necessario a giungere nel punto panoramico al termine di quel piccolo pellegrinaggio. Mentre a partire dal 2018, in modo indubbiamente inaspettato, un nuovo approccio risolutivo alla questione ha scelto infine di palesarsi; come un orologio a cucù a 119 metri da terra, come una casetta per gli uccelli, come il locale di servizio abbarbicato sulle mura della fortezza per il massimo vantaggio dei suoi abitanti. Ma nel caso specifico, la fonte inalienabile del consumismo, un luogo sacro dove la pecunia può essere scambiata con servizi, oggetti, accoglienza. O più semplicemente ed in modo assai rilevante, provviste per alimentare gli organi e la mente fino al concludersi dell’avventura, acqua, cibo ed energy drink.
Capito, che idea? Fondamentalmente nient’altro che il particolare tipo di rifugio, nella sostanza tutt’altro che infrequente, che viene usato lungo il corso delle vie ferrate come punto di appoggio per chi sente la sua presa indebolirsi lungo il corso verticale di quei difficoltosi tragitti. Con l’aggiunta importante di un intero staff di guide alpine trasformate in commessi e addetti all’approvvigionamento, all’inizio un po’ per gioco. Finché non si è scoperta su Internet l’incredibile risonanza mediatica dell’iniziativa, con un misurabile aumento dei turisti e potenziale clientela sul sentiero della propria realizzazione fisica e personale. Tutti interessati, incidentalmente, a fare compere nel luogo diventato celebre come “il negozio più scomodo al mondo”. Ma ha davvero senso una tale definizione ingenerosa, quando si considera l’eventualità della sua assenza?

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L’avvoltoio che disdegna la carcassa per ingoiare le ossa contenute all’interno

Trattandosi in entrambi i casi di rapaci facenti parte dello stesso ordine e famiglia, quella degli accipitridi, la fondamentale distinzione tra avvoltoio ed aquila non fu sempre una questione da dare per scontata. Esempio fondamentale del fraintendimento, la denominazione scientifica risalente al 1758 dell’ossifrage o Gypaetus barbatus, dall’unione letterale delle due parole in lingua greca gups (“avvoltoio”) ed aetos (“aquila”). Un fondamentale fraintendimento derivante dal possesso da parte di questa creatura di un ricco piumaggio sulla testa ed il collo, letteralmente all’opposto dello stereotipico mangiatore di carogne alato. Se è vero d’altra parte come il tratto caratterizzante maggiormente citato per ciascun insieme di creature, che vede gli avvoltoi nutrirsi di creature già passate a un’esistenza ulteriore, mentre le loro controparti beneamate dall’araldica del Medioevo sono cacciatrici di esseri viventi inclini a mantenersi tali, non dovrebbero sussistere dubbi particolari sulla classificazione di questo dinosauro di fino a 125 cm di lunghezza, 2,83 metri di apertura alare. Le cui abitudini gastronomiche, ancor più rispetto a quelle di altri carnivori obbligati della sua categoria, lo portano ad avvicinarsi all’ora di pranzo con un certo, specializzato languorino. Come altrettanto desumibile dalla reputazione di questo abitante di un areale che si estende dalle montagne dell’Europa Occidentale fino a quelle dell’Africa Meridionale e parte dell’Asia, famoso per il suo stile gastronomico insolito e sottilmente inquietante. Che lo vede trarre il proprio nutrimento, in una percentuale variabile tra il 70 ed il 90%, interamente dalle ossa che fagocita con voracità impressionante. Tutte intere o provvedendo prima a farle a pezzi, sbattendole o gettandole da grandi altezze, una tecnica impiegata anche per l’uccisione delle malcapitate ed occasionali prede viventi. Questione nota da un tempo così lungo che già nel quinto secolo a.C. girava voce che il drammaturgo Eschilo fosse morto accidentalmente, per essere stato colpito in testa da una tartaruga lasciata cadere proprio da un gipeto che cacciava negli immediati dintorni. Un’eventualità… Improbabile, ma non del tutto impossibile, quando si considera la forza notevole ed il modo in cui questi opportunisti della caccia non sembrino spaventarsi di fronte a nulla, attaccando anche capre, pecore o vitelli, nel tentativo non senza speranza di riuscire a farli cadere da una rupe riuscendo a trasformarli nella propria fonte di cibo preferita. Un’attività, quest’ultima, che benché rara ne avrebbe segnato un fato poco vantaggioso, vista l’idea non del tutto priva di fondamento che potessero arrivare un giorno a provarci anche con gli umani, particolarmente quelli vulnerabili a causa della giovane o tarda età. Un senso di macabra reverenza che non avrebbe impedito al magnifico predatore, essenzialmente inconfondibile con qualsivoglia altro pennuto, di assumere il ruolo in tutto il Medio Oriente di simbolo della regalità e la buona sorte, in una sorta d’idiosincrasia o fraintendimento dei preconcetti ricevuti in eredità…

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Visita nell’inaudito canyon greco della pioggia che non ha mai fine

Panta rei, tutto scorre: locuzione lapidaria che riesce a sottintendere l’apprendimento di un assioma privo di limitazioni apparenti. Poiché imprescindibile risulta essere l’attribuzione, ad ogni oggetto, fenomeno o imperfetta circostanza, dei processi ininterrotti nell’essenza stessa della Natura. In cui la più basica ed insignificante delle trasformazioni implica, ciò non di meno, radici profondissime fin dalle remote profondità della scienza. Un movimento tra i più semplici da tradurre in parole, basandosi sull’amena osservazione dei modelli, risulta tal proposito essere quello dei fiumi. Zone lineari tratteggiate nel paesaggio, risultanti dalla mera progressione gravitazionale, che porta tutte le acque della Terra a protendersi verso il vasto mare Oceano. Per quanto lontane e irraggiungibili possano essere, nei loro principi generativi, le precipue fonti della loro provenienza. E di sicuro non vi sono molti altri, tra i corsi d’acqua dell’intera area ellenica, a presentare un percorso remoto e qualche volta irraggiungibile quanto quello del Krikeliòtes (o Krikelopòtamos) fiume singolare che scaturisce presso l’innevata vetta del Velouhi, massiccio di 2.315 situato nella Grecia centrale. Per poi attraversare senza grosse deviazioni la regione periferica dell’Euritania, antico luogo noto per la sua altitudine mediana particolarmente elevata. E la maniera in cui i diversi popoli nativi, formato dai discendenti dei Cureti e dei Lelegi già nell’epoca delle possenti poleis del Mondo Antico, furono unificati dal re Etolo, che seppe crearne l’identità storica e culturale. Valida a resistere, nei secoli a venire, a diversi tentativi d’invasione o coinvolgimento nelle numerose guerre dei bassopiani, tra cui il lungo conflitto tra Atene e Sparta (431 a.C.) l’invasione della Persia (426 a.C.) e la disputa territoriale ellenica contro la Macedonia (323 a.C.). Almeno finché la lega degli Etoli, come avevano iniziato a farsi chiamare, non abbandonò la propria neutralità per schierarsi al fianco dei Romani nella battaglia di Cinocefale (196 a.C.) diventando nei fatti uno stato cliente della maggiore potenza del Mediterraneo. Mentre l’unicità territoriale e paesaggistica di questi luoghi avrebbe nondimeno continuato a costituire, in maniera pienamente valida e apprezzabile, unica meta possibile di un pellegrinaggio rimasto segreto fino ai giorni immediatamente antecedenti all’epoca odierna. Perché mai non dovremmo, perciò, scegliere di prendere visione con i nostri occhi di una simile meraviglia? Là, dove il sopracitato corso d’acqua sembra immergersi e insinuarsi progressivamente in mezzo ad uno stretto canyon. Sebbene il termine corretto in questo caso sia “gola”, in mezzo a un tratto semi-coperto lungo all’incirca un centinaio di metri. Il cui nome risulta essere, per l’appunto, Panta Brechei (Πάντα Βρέχει) o “Piove Sempre” con riferimento a una caratteristica ambientale che sembra emergere direttamente dall’esposizione di un paesaggio fiabesco; mentre plurime cascate parallele, disposte lungo l’ergersi perimetrale di siffatte ruvide pareti, scrosciano maestosamente verso il basso. Spezzate a portate a disperdere le proprie gocce costituenti lungo un’area vasta, almeno in apparenza, quanto il cielo stesso e creando i presupposti per migliaia di possibili arcobaleni. Di un luogo che sarebbe degno di essere visitato da letterali decine di migliaia di persone l’anno, se soltanto non fosse così terribilmente complicato da raggiungere anche con le più moderne tecnologie di navigazione computerizzata…

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