Artista usa vecchi pneumatici per creare i mostri del cinema e della mitologia cinese

Nello studio della prima Era dell’antica storia del Regno di Mezzo, molti aspetti sfumano nel mito e nella leggenda, con eventi miracolosi ed interventi divini, lotte tra i popoli di proporzioni epoche e improbabili prima della fondazione di grandi regni e identità nazionali. Eppure molte delle vicende fatte risalire al periodo dei Tre augusti e cinque imperatori, collocato tra il 2850 e il 2205 a.C. in base al calendario gregoriano, sembrerebbero aver posseduto una base materialmente tangibile fondata su eventi e personaggi realmente esistiti. Non è affatto improbabile, ad esempio, che durante il regno di Huangdi, il famoso Imperatore Giallo, sia effettivamente esistito il condottiero dal nome di Chiyou, unificatore delle nove tribù dei Li, grande stratega e antagonista del sovrano, vista la sua discendenza dinastica non meno prestigiosa e perciò degna, almeno in linea di principio, di riuscire a governare la Cina. Un diritto che avrebbe rivendicato sul campo di battaglia, nell’epico confronto passato alla (proto?)Storia con il toponomastico di Zhuolu. Ed è qui che i fatti iniziano ad assumere proporzioni maggiormente mitologiche e capaci di sconfinare nella nebbia della leggenda. Poiché si dice che non solo questo re sagace, riconosciuto a posteriore come capostipite dalle moderne etnie dei Miao o degli Hmong, o persino degli antichi Nanman, i cosiddetti “barbari del sud” sia stato in grado di modificare in tale occasione il clima, facendo magicamente calare una fitta nebbia sull’esercito nemico. Ma che lui stesso avesse diretto lo scontro in prima persona, sbaragliando intere compagnie grazie alla sua spropositata forza e abilità in combattimento. Doti accresciute in modo significativo dal poter contare su quattro occhi e sei braccia, ciascuno in grado di brandire un’arma altrettanto tagliente, nonché il poter fare affidamento sulle proprie instancabili zampe d’orso, la fronte di bronzo indistruttibile ed almeno una testa, se non due, di bue, con lunghe corna in grado di trafiggere il nemico. Una guisa spaventosa e possente, che compare oggi in tutta la sua marziale magnificenza nel cortile di Cao Shengge alias Tireman, presso il villaggio di Tan, nella contea di Xingtai, assieme a innumerevoli altre creature di provenienza non meno stupefacente. Ma non grazie a rituali segreti né sacrifici mistici al Signore dei Draghi, bensì la pratica del riciclo e la sua eccezionale abilità d’artista “di recupero”, coadiuvato dalla valida assistenza della sorella Shengxia.
Un minimo approssimativo di trenta giorni, letterali migliaia di chiodi, qualche centinaia (o migliaia) di pneumatici reperiti presso una discarica a scelta e intere montagne di pazienza, coadiuvata da esperienza, precisione, fantasia. Niente meno di questo potrebbe giustificare, nella misura in cui ci è offerta l’opportunità di conoscerla, l’esperienza di una visita presso una simile galleria all’aria aperta di guerrieri, mostri e creature niente meno che terrificanti, ricostruite nei benché minimi dettagli dando massima soddisfazione a chiunque abbia l’occasione di vederli di persona o ancor più facilmente, sullo schermo del proprio computer, come tanto spesso avviene per i più abili creativi nell’epoca della cultura digitalizzata e di portata ormai globale. Forse per questo, molti dei soggetti scelti da questo notevole artista appartengono in effetti al mondo della cinematografia e dei videogiochi, per cui nessun confine nazionale è invalicabile, dinnanzi al potere comunicativo del concetto globalmente noto come rule of cool: che ogni opera artistica può funzionare, se risulta infusa di qualità stupefacenti o impressionanti, inclusa la capacità di suscitare un istintivo senso di timore reverenziale. Il che si applica allo stesso modo al leggendario guerriero Chiyou, così come ai suoi King Kong e Godzilla, per non parlare dell’immancabile Alieno xenomorfo che campeggia alla loro sinistra, una visione che parrebbe prelevata direttamente dal laboratorio del grande artista svizzero H.R. Giger, benché costituisca in effetti un’elaborazione successiva della sua creazione più famosa, rimasta inutilizzata nella realizzazione finale del secondo film della serie. Essenzialmente la versione scaturita dall’oscura enormità del Nulla di un diverso tipo di sovrano cosmico. Il Re dell’Alveare, con tutta l’autorità e potenza in divenire che un tale titolo comporta…

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La millenaria tradizione in bilico sul filo del coltello tibetano

Poiché ogni popolo è sostanzialmente, almeno in parte, il prodotto culturale del suo ambiente d’appartenenza e ciò è tanto maggiormente vero, quanto più quest’ultimo è dotato di caratteristiche che variano dalle comuni aspettative situazionali. E perciò in quale altro luogo, piuttosto che il letterale tetto geografico del mondo, avrebbe potuto svilupparsi e prendere piede un simile sistema filosofico, lo schema di valori in grado di dare un significato all’esistenza dell’uomo, alle tribolazioni della vita ed il destino che ci aspetta successivamente alla morte? Tra gli svettanti altopiani e le verdi valli del Tibet, circondate da scoscesi picchi montani, contro i quali riecheggiavano da tempo immemore i sutra delle preghiere, ed il suono roboante delle campane buddhiste. Ma se tutto questo è pienamente apprezzabile dal punto di vista filosofico e religioso, altrettanto facilmente possiamo ritrovare simili correlazioni tra gli schemi tecnologici di una particolare civiltà ed il tipo di risorse minerarie su cui gli è concesso fare affidamento, dagli imprescindibili schemi del sistema naturale. Materiali come gli utili metalli, capaci di costituire il fondamento stesso di molti dei processi industriali e militari della storia stessa. Ed è attraverso un chiaro riferimento a tutto questo, che possiamo ritrovare uno degli elementi stessi alla base del mito delle origini del regno montano di Tubo, in cui si narra del divino governante Nyatri Tsenpo, disceso dal cielo stesso mediante l’utilizzo della scala di corda dmu thag, descritta come una sorta di arcobaleno. Così come l’essenziale aspetto di quel particolare fenomeno atmosferico appariva chiaramente sulla lama dell’attrezzo usato per fabbricarla, il cosiddetto coltello di gus. Così all’interno delle cronache, la narrazione procede con i saggi discendenti di quel personaggio che governando le genti del Nepal, avrebbero insegnato loro una serie di utili segreti: la fabbricazione di arco e frecce, di asce e trappole per gli animali. Dei vasi di ceramica. Di scudi ed attrezzi di ferro. Ed infine, il segreto più grande di tutti, quello necessario ad emulare e mettere a frutto lo stesso tipo di potenza posseduto dall’antico capostipite dell’intera dinastia. La prima versione terrestre del coltello si sarebbe quindi concretizzata durante il regno di Zhigung Tsampo, ottavo governante del paese destinato, come i suoi predecessori, a far ritorno nei cieli al momento della sua morte attraverso una corda di luce, il che non avrebbe d’altra parte impedito alle sue spoglie mortali di trovare posto tra i sacri tumuli della valle di Chongye, importante lascito della sua tangibile dinastia, conclusasi secondo gli storici attorno al XIII secolo d.C. Ma non prima che, o almeno così si narra, un gruppo di nove fratelli “dagli occhi piccoli”, che abitavano presso l’irraggiungibile picco montano di Sidor, potessero imparare i segreti della forgiatura celeste, in modo tale da costruire il primo esempio di lama divina, tra i tangibili recessi dell’esistenza. Per poi trasmettere il loro segreto al leggendario fabbro Mitotago della foresta di Gyiyulhozha, capace di costruire un tipo di spada capace di tagliare nove alberi allo stesso tempo.
Tutto ciò benché storicamente parlando e per ovvie ragioni, il coltello tibetano non potesse possedere una simile potenza, pur rappresentando un importante possedimento, dai molti tipi di utilizzo, per coloro che ne resero famosa l’affidabilità e resistenza. Sfruttandone l’affilata lama per un vasto ventaglio di necessità tipiche del vivere rurale, tra cui la caccia, la preparazione della carne, la lavorazione del legno, l’autodifesa. Mentre la spada da guerra, anche un importante simbolo religioso in quanto fondamentale attributo del bodhisattva Manjushri, diventava un oggetto irrinunciabile all’interno della casa dei potenti. Giacché tradizionalmente sia uomini che donne di questo paese erano abituati a muoversi attraverso i giorni armati di un simile implemento di taglio, tradizione destinata a continuare fino all’inizio dell’epoca moderna ed anche in seguito ad essa, per quanto possibile nonostante le severe restrizioni imposte in seguito alle imposizioni normative dei cinesi. La cui stessa esperienza pregressa avrebbe in effetti potuto contribuire, secondo alcune interpretazioni filologiche, all’affermazione della particolare tecnologia metallurgica tibetana durante i commerci effettuati nel corso delle dinastie Ming e Qing, giacché non era insolito che tale oggetto venisse chiamato tradizionalmente coltello degli Han, ovvero in altri termini, il prodotto per antonomasia del vasto ed ingegnoso Regno di Mezzo. Benché i tibetani stessi, come loro esplicita prerogativa, fossero riusciti ad integrare e modificare tale specifico fattore culturale, in un un complesso rito produttivo composto da oltre 20 passaggi distinti, capaci di prolungarsi attraverso un periodo di svariate settimane, se non addirittura mesi nel caso dei pezzi più elaborati ed imponenti…

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Soluzioni semplici, problemi complessi: mai pensato ad una gru a banana?

Nel mezzo di un gelido inverno, fuoco e fiamme scaturirono di nuovo dal crogiolo dell’opificio metallurgico dell’Ammiragliato di Keyham. Gli operai specializzati, controllando che il ferro grezzo venisse mantenuto alle temperature necessarie grazie all’immissione della giusta quantità di coke nella fornace a riverbero, fecero calare il grosso recipiente, quindi ne versarono il contenuto all’interno degli stampi per la creazione di larghe piastre di forma quadrata. Trascorso il tempo necessario affinché si raffreddassero in parte, passarono a piegarle tramite l’impiego del maglio ed uno stampo della forma attentamente prevista, affinché potessero costituire la parte fondamentale di una trave scatolata di concezione totalmente nuova. L’ingegnere e baronetto scozzese William Fairbairn, dal camminamento rialzato, supervisionava con la massima concentrazione i lavori, annuendo per l’esecuzione di ciascun passaggio. Sotto i suoi occhi attenti, gradualmente, iniziarono a prendere forma: sei oggetti di metallo oblunghi e perfettamente identici, della lunghezza unitaria di 9,1 metri. E un raggio della curva, tendente ai 90 gradi, pari a 9,8 metri. Sostanzialmente validi a costituire gli archi di un’immaginaria circonferenza, come la scultura di un’artista senza limiti di materiali e spesa. Eppure necessari ad assolvere a una chiara, limpida e continuativa necessità: sollevare i carichi pesanti.
Molte furono le opere create, attraverso il trascorrere delle generazioni, al fine di compiere un simile gesto: prendere il carico e portarlo in alto, in alto e poi farlo ruotare. Fino allo spazio di stoccaggio a lungo termine, dove potesse essere temporaneamente dimenticato. Ed il problema fin dai tempi antichi, era sempre lo stesso: come riuscire a moltiplicare la forza degli umani. Una questione già largamente risolta, quando in epoca Vittoriana lo stimato direttore della Fairbairn & Sons procedette a brevettare nel 1850 il modello di gru che avrebbe immediatamente preso il suo nome, concepita per funzionare grazie al sistema dell’argano e una serie di carrucole, in quantità maggiore a seconda dell’impegno necessario per assolvere all’opera programmatica e progettuale. Ovvero il sollevamento medio di 20 tonnellate, nei sei casi della prima costruzione in serie, durante le operazioni portuali per le città britanniche di Keyham e Devonport. Dimostratisi talmente validi allo scopo, da motivare la costruzione successiva di versioni ancor più grandi e potenti, tra cui spiccò la leggendaria gru “colossale” di Keyham, con un’altezza di 18 metri e 32 di diametro, capace di sollevare fino a 60 tonnellate, grazie all’opera laboriosa di 4 persone, la cui forza veniva amplificata di 632 a 1. In parole povere, il più potente strumento della sua classe nell’epoca della posa in opera, quando comunque molti apparati simili avevano già trovato l’inclusione nell’attrezzatura d’innumerevoli banchine al mondo.
Ma il punto principale del brevetto Fairbairn, nonché principale vantaggio rispetto alle offerte della concorrenza, era di un tipo fondamentalmente nuovo. Mirando a risolvere l’annosa questione del come, durante lo spostamento dei carichi, si potesse manovrare un qualcosa di eccezionalmente ponderoso ed ingombrante, senza urtare con gli spigoli lo stesso braccio dell’intero apparato. Ecco quindi il caso di una gru che venne poeticamente definita “a collo di cigno”. Poiché la natura, questo è noto, simili problemi aveva già imparato ad affrontarli da tempo! Mentre le nozioni necessarie a tradurne la sapienza in soluzioni pratiche, con il trascorrere degli anni, entrava gradualmente a far parte della cognizione e il repertorio della civiltà umana…

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Jizai okimono, i draghi plasmati sulle incudini dei samurai

Con guanti e mascherina bianca, l’addetto del Museo Nazionale di Tokyo maneggia il piccolo dio dei fiumi come se potesse spiccare il volo da un momento all’altro. Apre e chiude la bocca, solleva le zampe, piega innanzi la coda. L’animale straordinariamente vivido, benché del tutto passivo, mantiene un’espressione indecifrabile mentre i suoi baffi oscillano lievemente, per il solo effetto dell’inerzia e lo spostamento d’aria. Mentre con il potere posseduto dagli antichi manufatti, riesce ad evocare non soltanto lo spirito degli antenati grazie a un ruggito inaudibile, bensì la stessa catena di eventi che avrebbe portato, senza deviazioni possibili, alla sua magnifica esistenza.
Invincibile, orgoglioso, pronto a tutto. Dopo quel cruciale inverno del 1615 in cui aveva diretto con successo la difesa del castello di Osaka, all’età non più giovanissima di 48 anni, il famoso samurai Sanada Yukimura dovette infine rassegnarsi a un crudele destino: l’alta fortezza temporanea in legno che portava il suo nome ormai smontata, così come i due fossati che circondavano il suo signore erano stati riempiti per l’inganno del conquistatore di Mikawa, che pur avendo promesso la pace continuava a insediare l’eredità di colui che avrebbe dovuto essere shōgun. Quel Toyotomi Hideyori figlio del reggente imperiale, tradito e circondato da truppe nemiche assieme ai più fedeli servitori, rimasti legati a un senso dell’onore che non era soltanto creato dalla forza, bensì dal diritto di nascita e le promesse fatte in una vita trascorsa, ormai soprasseduta dal progresso inarrestabile della storia. Così circondato dai Tokugawa e affrontato da un guerriero senza nome, che soltanto a partire da quel giorno ne avrebbe avuto uno sulle pagine della storia, il penultimo dei Sanada si tolse il celebre elmo con le sei monete sulla placca frontale. Ed ormai esausto, venne così decapitato sul campo di battaglia.
Il concetto particolarmente amato dalla filosofia nipponica del cosiddetto “Ultimo Samurai” viene generalmente attribuito alla figura di Saigo Takamori, colui che 9 anni dopo il totale rinnovamento politico del paese nel 1868 si ribellò assieme al suo feudo nel tentativo di riportare innanzi gli antichi valori. Per morire armato di spada ed arco contro le manovre di un esercito dotato dei più avveniristici fucili con canna rigata, ed alcuni esempi importati dalle potenze occidentali di primitive mitragliatrici con assemblaggio rotativo. Ma se quella fu la fine di un’ideale, resta difficile negare che il suo mestiere avesse cessato di avere una logica già oltre due secoli prima, con la fine dell’ultima vera, grande battaglia delle guerre civili per l’unificazione del paese. Il che avrebbe portato ad una serie di cambiamenti a tutti i livelli della società, incluso quello di un’intera industria metallurgica, per cui la costruzione di spade e armature aveva costituito, attraverso i secoli, la linfa vitale della propria stessa esistenza continuativa di un tempo. Sarebbe possibile affermare dunque che, così come la fine di un epoca si era consumata all’ombra delle mura del castello di Osaka, l’inizio di un’altra avrebbe avuto luogo sotto quelle di Himeji, l’antica rocca fortificata col soprannome di Airone Bianco che il trionfatore di Sekigahara e del successivo assedio avrebbe assegnato al suo seguace Ikeda Terumasa. Situata nell’omonimo centro abitato famoso, tra le altre cose, per la qualità del proprio artigianato guerresco. Di cui tra i praticanti più celebri figurava la famiglia Myochin, le cui armature ancora vengono celebrate nel mondo del fantastico e dei videogiochi, come sinonimo insuperabile del concetto di protezione personale. Ma quale poteva essere il loro scopo, nella nuova, lunga epoca di una nazione finalmente in pace con se stessa e gli altri?

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