Scoperto il geco con le scaglie che si staccano da sole

Dev’essere un momento estremamente memorabile. Quando lo studioso del mondo naturale, disposti i suoi campioni sul tavolo di laboratorio, inizia a scrivere la serie di parole: “Abbiamo rilevato una serie di caratteristiche contigue in alcuni esemplari raccolti sul campo, che ci permette di determinare l’esistenza di tratti genetici in comune. La forma del cranio di questa lucertola…E i suoi denti dai 13 loci…” Segue lunga e pedissequa disquisizione. Per sfociare al saliente punto di arrivo, niente meno che automatico: “…Per questa, quella e quell’altra ragione, riteniamo che si tratti di una nuova specie, precedentemente sconosciuta. Il suo nome, a partire da oggi, sarà…” Gioia, giubilo, esaltazione! Per la prima volta da 123 anni, la famiglia s’ingrandisce. In risposta ai molti animali che si estinguono ogni anno… Ne arriva uno (quasi) del tutto nuovo. Le cui caratteristiche, sono pronto a scommetterci, susciteranno in voi qualche domanda!
Che cosa sareste disposti a perdere, pur di aver salva la “pelle”? Se un uccello alto come una casa di due piani, o un serpente lungo quanto un autobus dovessero tentare di ghermirvi tra le fauci acuminate, glielo lascereste il portafoglio? I documenti? La borsa e il cellulare? Probabilmente si. I calzini? I guanti? La fede matrimoniale? Bene per assurdo, se ciò fosse utile in qualche maniera… Non gli lascereste anche i capelli, le sopracciglia e le unghie? Direi proprio di si! Il corpo umano, data la sua estrema complessità e minima quantità residua di cellule staminali, dispone ormai di una capacità molto limitata di rigenerare. Ma ci sono parti che ricrescono, quindi si possono sacrificare. E se per assurdo tale capacità potesse estendersi alla barriera dell’epidermide che avvolge l’organismo…Io non credo che nessuno esiterebbe, nel dar via la pelle con tutti i suoi pori e peli, pur avere la salva la “pelle” che permette di sorridere, piangere, vivere la vita un giorno dopo l’altro sulla strada di uno sfolgorante domani. Questa è di sicuro la natura di noi esseri viventi: prolungare, per quanto possibile, la nostra esistenza sulla Terra. Sia pure quest’ultima, nella nostra ipotesi di poco sopra, popolata da mostruosi esseri divoratori di ogni cosa che si muove, parla o riesce a camminare. Quale orribile, remota fantasia… A patto di non essere un piccolo geco del Madagascar. Perché (solamente) in quel caso, siamo di fronte (purtroppo) all’assoluta e terribile realtà.
Fra le acuminate rocce carsiche della regione di Ankarana, nella parte settentrionale della quarta isola maggiore al mondo, vivono svariati esseri del tutto unici al mondo: la mangusta dalla coda ad anelli, il famelico fossa, simile a un furetto mannaro, l’aye aye dal lungo dito indagatore, il potamocero, il tenrec dal puntuto naso e numerose specie diverse di lemuri, che scrutano i visitatori con i loro grandi occhi sferoidali. Mentre tra le ombre, si aggirano in copiose quantità lucertole arrampicatrici, timorose di ogni cosa che parli, respiri o produca altri tipi di rumore. Tra esse, c’è un particolare gruppo di rettili, denominato Geckolepis o gechi dalle scaglie di pesce, è particolarmente famoso tra gli studiosi per le difficoltà incontrate nell’inserirlo nell’albero della vita, tentando di suddividerlo in un gruppo variabile tra le tre o cinque specie. In aggiunta al suo particolare potere di fare a pezzi se stessi, tornando integri nel giro di appena un paio di settimane, senza l’ombra di sangue, cicatrici o segni residui. Con un metodo che nasce, neanche a dirlo, da quella stessa superficie esterna che gli fornisce il nome: lo strato di osteodermi corazzati, dalla grandezza variabile, che non hanno tanto lo scopo di fermare il morso del predatore. Quanto di restargli in bocca, impedendogli di mordere efficacemente, mentre il proprietario se ne libera, strisciando via libero e felice come un verme. I videogiocatori di una certa data ricorderanno probabilmente le gesta di Arthur, coraggioso cavaliere dell’epopea bidimensionale Ghosts ‘n Goblins, il quale restava in mutande dopo il primo colpo ricevuto da un nemico, per tentare di completare comunque il livello. Ecco, si tratta praticamente la stessa cosa. Fatta eccezione per le mutande.
Questa specie precedentemente sconosciuta alla scienza, della misura approssimativa di 7-8 centimetri, è quindi riconoscibile dai suoi simili in funzione delle scaglie particolarmente grandi. Che la rendono, incidentalmente, anche la più abile nel praticare suddetto stratagemma. In primo luogo, per la superficie più ampia degli osteodermi, che tendono a restare più facilmente impigliati nella presa del nemico di giornata; non a caso, è stata definita G. Megalepis, ovvero letteralmente, dotato di grandi scaglie. Ma sopratutto per la stretta striscia di pelle che tiene ciascuna di esse attaccata al corpo, in grado di lasciar disgregare un sottile strato di grasso subcutaneo, dando il via al processo sostanziale di autotomia (rimozione volontaria di parti del corpo). Talmente efficiente, che può verificarsi all’improvviso senza alcun tipo di sollecitazione apparente, semplicemente perché l’animale si è spaventato e desidera scappare via. Altro che coda di lucertola, signori miei…

Leggi tutto

Nuovo cucciolo di scimmia-demone allo zoo di San Diego

Aye Aye

Soltanto perché noi moderni abbiamo le armi concettuali necessarie a considerare una particolare creatura come “dolce” oppure “carina” non significa che sia in alcun modo facile riuscire a definirla tale. Immaginate di assistere a una tale scena, in forza di un bizzarro anacronismo, attraverso una sfera di cristallo trasportata in un contesto medievale, all’epoca in cui gnomi, folletti e/o altri problematici mostriciattoli percorrevano la mente, e le presunte case notturne dei nostri vicini meno fortunati (mai la propria, erano sempre storie di seconda mano). Senza un attimo di esitazione, saremmo qui a considerare quel buffo personaggio come un chiaro rappresentante del regno sovrannaturale, allevato in un pentacolo dagli evocatori in uniforme marroncina, chiaramente dediti a una qualche atipica eresia. Ma dico, guardatelo: ha la faccia volpina da pipistrello, orecchie mobili simili a quelle di un topo gigante, un corpo e coda di scimmia, movenze da scoiattolo. Per non parlare, poi, di ciò che si trova all’estremità delle sue deliziose zampette: cinque dita estremamente sviluppate, con tanto di pollice opponibile ed un medio lungo e flessibile, totalmente fuori scala con il resto della mano. Non c’è quindi tanto da meravigliarsi, né un grande biasimo da coltivare, se nella sua terra natìa del Madagascar questo primate membro degli Strepsirrhini (strephis – curvo; rhinos – naso) fosse considerato portatore di sventura, per non dire morte improvvisa a danno del primo essere umano a cui si fosse avvicinato. Il che tra l’altro è maggiormente problematico, proprio per la tendenza del primate a scendere dagli alberi ed avventurarsi tra la gente alla ricerca di cibo, senza un particolare istinto di autoconservazione. Esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare, stando alle nostre più accreditate fonti sull’argomento, un figlio di Satana o del Re dei Goblin.
Il primo scopritore occidentale a descriverlo in modo scientifico fu il francese Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, che scelse un appellativo con lo scopo di onorare il suo professore, Louis-Jean-Marie Daubenton: così oggi la creatura viene denominata, sui libri di testo, Daubentonia madagascariensis, anche se nel suo paese continua a vedersi definita con un semplice grido di stupore improvviso, AYE-AYE (o hai-hai). Forse del tutto incidentalmente, il termine rassomiglia di vicino anche all’espressione malgascia heh heh, che significa “non saprei”. Secondo alcuni, il suo uso in quel contesto avrebbe lo scopo di evitare l’effettiva pronuncia del nome di un qualcosa che veniva ingiustamente considerato malefico, temuto da ogni fascia della popolazione. Secondo una diffusa leggenda del popolo Sakalava, una delle maggiori etnie della quarta isola più grande al mondo, le notti tra il 12° e il 25° parallelo sarebbero estremamente pericolose, visto come i genitori del nostro amico peloso potrebbero in qualsiasi momento scostare la paglia del tetto di casa, penetrare all’interno e strisciare silenziosamente fino al letto di famiglia. Per protendere quindi, come l’equivalente selvaggio del bonario E.T, questo loro dito cercatore, ma rivolto verso il collo degli umani addormentati, fino a perforargli l’aorta, causando emorragie letali. Perché mai dovrebbero farlo? Heh heh, chi può dirlo. Secondo altre fonti, il lemure cercherebbe direttamente il cuore, provocandone l’arresto immediato con estrema e immotivata spietatezza. Che ci vuoi fare: questo è il destino delle bestie ingiustamente screditate. Anche se dubito che persino il più nero dei gatti, nei nostri antichi borghi e luoghi più superstiziosi, avrebbe mai potuto suscitare un’odio e diffidenza comparabili a quelle di una simile proscimmia, che qui, così inerme e paciosa, può anche risultare graziosa. Ma che nella notte del suo ambiente naturale, diventerebbe uno spietato ed insistente predatore di…Bruchi.

Leggi tutto

Invasione di locuste nella capitale del Madagascar

Locuste ad Antananarivo

“Quando giungerà l’autunno nel nono giorno del nono mese, il mio fiore sboccerà e tutti gli altri moriranno. Quando la fragranza del crisantemo saturerà Chang’an, l’intera città verrà ricoperta di un’armatura d’oro.” Il celebre componimento di Huang Chao, capo ribelle contro la dinastia cinese dei Tang, era stato impiegato dal regista Zhang Yimou nel film La Città Proibita (2006) per introdurre un’epica battaglia. Il manto splendido dei fiori di crisantemi era lì trasfigurato, infatti, nell’armatura gialla e luminosa di altrettanti soldati, gli strenui difensori del Mandato Celeste e dell’Imperatore. Il ciclo delle stagioni è una realtà che caratterizza ogni regione, civiltà e cultura del mondo. Le sue immagini floride ci conturbano, mentre i gesti che ne conseguono, le ribellioni ad opera degli esseri naturali con queste folli e pericolose migrazioni, ci ricordano le alterne peripezie dell’umanità. A Sud-Est del grande continente africano, presso l’isola del Madagascar, si sta ora verificando la più antica e terribile delle confluenze, mentre una città di un milione e mezzo di abitanti, Antananarivo sul finire dell’estate, si ricopre di un impenetrabile velo nero. È rumoroso e multiforme, mentre fluttua nell’aere, questo feroce sciame di cavallette giganti. Si potrebbe quasi definire: biblico. Tutto è iniziato, per inciso, lo scorso giovedì 28 agosto. E finirà…
Le cavallette appartenenti alla famiglia delle Acrididae, estremamente vasta e variegata, sono generalmente caratterizzate da antenne corte e dalla collocazione dei timpani auditivi sul lato del primo segmento addominale. Ma sono note, soprattutto, per la loro predisposizione a migrare diverse volte nel corso della propria vita, causando enormi problematiche per l’industria agricola e l’economia dei paesi in via di sviluppo, così sfortunati da trovarsi sulla loro strada. La causa scatenante di un tale disastro, secondo l’evidenza logica nonché alcuni studi effettuati dall’Università di Oxford (evviva la scienza!) Sarebbe primariamente la sovrappopolazione. Questi insetti, che come tutti gli altri appartenenti a tale classe sono davvero molto prolifici, si sviluppano attraverso fasi precise, che causano variazioni anche significative nella loro pigmentazione e grandezza. In modo particolare, risulta rilevante il ciclo della Locusta migratoria, la specie più diffusa in Africa nonché la probabile colpevole della situazione di Antananarivo: questa vive una gioventù solitaria. Pacifica mangia erba e foglie di piante a basso fusto, che sminuzza e incamera nell’organo definito mesenteron, all’interno del quale la materia viene dissociata e digerita da specifici enzimi. In tale fase l’insetto è prevalentemente grigio-marrone, con un tocco di giallo che aumenta in proporzione all’età. Mano a mano che un’habitat si rivela propedeutico alla crescita e al prosperare delle cavallette, tuttavia, restare soli diventa progressivamente più difficile. Aumentano gli incontri battaglieri e con essi lo stress. Gli animali in questione, riattivando un  meccanismo evolutivo insito nella loro fisicità, iniziano a secernere un particolare feromone, che richiama i consimili a raccolta; da un estremo all’altro, dunque, si forma l’assembramento. È davvero mirabile a vedersi. La loro colorazione assume il caratteristico colore verde brillante, mentre ciascun esemplare aumenta notevolmente di dimensioni. Superato il punto di non ritorno, la locusta diventa estremamente vorace, riuscendo a fagocitare il suo equivalente di peso (alcuni grammi) per ciascuna giornata. Potrebbe sembrare poco, ma moltiplicatelo per mille, diecimila, milioni di volte…Ben presto, del bosco primordiale delle tranquille origini artropodi, non resta pressoché nulla. Giunge, dunque, l’ora di spostarsi verso lidi migliori.
I quattro movimenti della vita animale sono: nomadismo, stanzialità, selezione R (alta crescita) selezione K (alta percentuale di sopravvivenza). Una specie che punta alla sopravvivenza di ciascun membro della sua prole, come siamo noi esseri umani, punta generalmente al predominio di una specifica nicchia evolutiva. Prima che la preponderante massa del nostro cervello, con l’intelligenza che ne deriva, rovesciasse del tutto i rapporti di potenza, le civiltà protostoriche oscillavano tra le soluzioni contrapposte della caccia e dell’agricoltura. La prima, conducente al nomadismo, tra bestie feroci e rischi ambientali. Mentre la seconda, costituiva il fondamento stesso della costituzione di vere città, impervie ai pericoli naturali. Tranne uno. Per una specie come le locuste, che mirano alla riproduzione in grandissimo numero, indipendentemente dalla realizzazione dei singoli individui, il viaggio è tutto. E guai a chi dovesse frapporsi fra loro e la meta…

Leggi tutto

La marcia oplitica dei millepiedi corazzati

Giant pillbug 1

L’unione fa la forza, così per gli uomini come per gli animali. Questi sphaerotheriida, o millepiedi giganti corazzati del Madagascar, sono abituati a spostarsi solo in grandi gruppi. Circa una volta l’anno, in un periodo variabile, intere comunità di questi artropodi si radunano, come per un appuntamento, puntano le antenne nella stessa direzione e poi si avviano verso una destinazione ignota, con obiettivi poco chiari, spostandosi da un capo all’altro dell’isola. Il loro aspetto esteriore, se preso fuori dal contesto, ricorda quello degli armadillidium, anche detti onischi o porcellini di terra, alcuni fra i più tipici abitanti dei vasti prati europei. Questi però sono lunghi fino a 7 cm. Quando si chiudono, per difendersi dai predatori, hanno la dimensione di una palla da tennis. Le loro placche dorsali si congiungono perfettamente, in una sorta di sfera, risultando impervie ad ogni tipo di attacco, tanto che i suricati, per tentare di mangiarseli, hanno l’abitudine di usare una pietra come banco da lavoro. Ma neanche loro, probabilmente, li sfiderebbero in tali quantità. Il primo avvistamento registrato di tale incredibile sciame risale al 1892, ad opera del missionario inglese James Sibree, che racconta di averne incontrato un’enorme concentrazione, per caso, durante le sue esplorazioni fra Tamatave e Antananarivom, nella parte centro-orientale del paese (via mitsinjo.org). Era difficile non notarli: decine di migliaia di questi esseri segmentati, ma di colore verde brillante, che marciavano nella foresta come presi da un’incredibile frenesia. Immaginatevi il rumore. La comunità scientifica dell’epoca, non disponendo di sufficienti prove e ulteriori attestazioni, decise di sottostimare la scoperta, che poi venne gradualmente dimenticata.

Leggi tutto