Che animale fu la leggendaria bestia di Gévaudan?

Che cos’è per noi, oggi, la Natura… Camminate in un parco, aprite un libro sull’argomento, guardate fuori dalla finestra del soggiorno (se siete fortunati) e potreste ritrovarvi a scrutare dinnanzi questa forza ormai latente, debole e arrendevole, incapsulata nel suo ruolo dall’inarrestabile espansione degli umani con le loro cose, case, strade, piste d’atterraggio per i cacofonici aeroplani. È inutile dire, che non fu sempre così. L’epoca preistorica, seguita da quella classica con le sue antiche civiltà, viveva ancora in uno stato di costante nonché giustificato terrore verso tutto ciò che aveva due, quattro oppure sei zampe, in grado di costituire un pericolo per chiunque fosse incauto e impreparato. Ma sapete cosa vi dico? In assenza dei commerci internazionali e degli strumenti di comunicazione moderni, simili episodi rimanevano dei drammi meramente familiari o toccati ad una singola comunità, da accettare come la morte per malattia o lo ius primae noctis di un distante, malevolo signore. Mentre con il progressivo prendere piede dei Lumi e della Ragione, sempre meno le belve feroci apparivano col ruolo di creature sovrannaturali. E sempre più si era disposti, seppure in grado, di trovare una spiegazione logica per ogni eccidio commesso con i denti, l’affilato becco o gli acuminati artigli. In bilico tra l’uno e l’altro stato di quiete ci fu un singolo momento nella nostra familiare Europa, un attimo di panico nel mezzo della storia di Francia, in cui qualcuno, o qualcosa, sfuggì al ruolo di semplice cacciatore o preda, per entrare nelle cronache come uno dei primi criptidi, mostri spesso spietati e in grado di sollevare innumerevoli interrogativi sulla posizione dell’uomo nella più lunga e ininterrotta delle catene. Quella, per l’appunto, alimentare. L’anno era il 1764. Il luogo, l’ex-provincia di Gévaudan, sita tra le montagne Margeride in corrispondenza delle attuali Lozère ed Alta Loira.
Sappiamo più o meno tutto della Bestia, grazie ai molti scritti prodotti dai visitatori della regione in un’epoca in cui il nuovo metodo formale scientifico si stava diffondendo tra gli studiosi e già esisteva, in Francia, il sistema del processo verbale (oggi semplicemente, verbale) in cui un testimone oculare di un delitto o incidente veniva interrogato, mentre l’individuo preposto annotava parola per parola la sua deposizione. Un’altra importante ed esauriente fonte furono le descrizioni del vescovo coévo di Mende, Gabriel Florient, nel suo libro Il Flagello di Dio, in cui si preoccupò anche di attribuire alla creatura poteri sovrannaturali ed il ruolo di un punitore verso la sempre più diffusa abitudine a peccare e rinnegare gli insegnamenti della Santa Madre Chiesa. Ma se pure la Bestia era questo, essa rappresentava anche un pericolo materialmente reale, in grado di gettare nello sconforto e fare strage di un’intera classe contadina e rurale, fino ad allora dimostratasi perfettamente in grado di scacciare via interi branchi di lupi, l’orso occasionale ed ogni altro pericolo che potesse nascondersi nelle foreste dell’ormai sempre più Vecchio continente. Tutto ebbe inizio l’estate di quell’anno, quando una giovane fanciulla di un villaggio vicino Laugogne, come era l’usanza di tali luoghi, si era inoltrata da sola nei pressi della foresta di Mercoire, con un intero branco di bovini da far pascolare. Si narra che ad un certo punto del pomeriggio, dalle tenebre tra gli alberi, fosse sbucata questa creatura simile ad un lupo ma molto più grande, e che l’avesse caricata con l’evidente intento di divorarla. E che per sua fortuna i tori del gruppo, spinti dall’istinto di proteggere le loro compagne, riuscirono a scacciarla grazie all’impressionante potenza delle loro corna. Altre fanciulle, in altri luoghi, non furono così fortunate e la prima vittima non tardò ad arrivare: il suo nome era Janne Boulet, ed aveva soltanto 14 anni. C’è un momento, un singolo terribile attimo, nella vita di alcune belve feroci, in cui esse scoprono il gusto della carne umana, e comprendono quanto sia più facile divorare uno di noi piuttosto che loro prede abituali, quali cervi, gazzelle et similia. In molte cultura, viene considerato il punto di non ritorno, oltre il quale l’unica scelta è rassegnarsi ad essere vittime a vita, oppure armarsi e reagire. Verso la fine del 1764, di uccisioni confermate se ne verificarono svariate decine, tanto che alcuni iniziarono a giurare che dovessero esistere più di una singola bestia, che tuttavia, giammai avrebbe potuto essere un semplice lupo. Le ragioni erano svariate, a partire dalle dimensioni: i superstiti concordavano sempre nel descrivere una creatura grande come un vitello, agile come un gatto e mostruosamente veloce, che attaccava senza troppi problemi anche gruppi di persone adulte ed armate, laddove il tipico canide ululante ha sempre preferito tentare la sua fortuna con i bambini e le donne sole. Molte delle vittime della Bestia avevano inoltre un aspetto atroce, con la carne letteralmente staccata via dal cranio, e le orbite vuote del teschio spalancate in un eterno sguardo vacuo di terribile sofferenza. Presto fu chiaro che se ne nessuno avesse fatto qualcosa, il mostro avrebbe divorato, con la sua fame, l’intero regno di Francia. Intervenne, dunque, il suo sovrano.

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Cosa vedono i felini nella schiena dei visitatori allo zoo

Big Cats Playful

Paura, pericolo, immagini SHOCKANTI… Il bambino con l’impermeabile giallo dello zoo di Chiba, in Giappone, che poteva LETTERALMENTE “morire”! La belva leonina ha fatto tutto il POSSIBILE per tentare di sbranarlo e divorarlo, oh my! Ogni volta che càpita, è un tripudio d’iperboli e titoli concepiti per massimizzare il clickthrough delle proprie fedelissime pubblicità. Non c’è un singolo giornale, quotidiano o testata pseudo-amatoriale (per non parlare dei blog) che possa resistere alla tentazione di drammatizzare l’evento fortuito di un grande animale selvatico, rigorosamente intrappolato in una gabbia, che per pochi, incredibili secondi, dimentica la propria condizione ed immagina invece un qualcosa di mai vissuto, le vaste praterie, la taiga, la savana… Terre cariche di cibo con gli zoccoli e le corna, assieme ad altrettanto valide opportunità di arricchimento spirituale. Il cui spettro evanescente, completo di baobab e sagome teatrali di giraffe in lontananza, basta per snudare gli artigli e far tremare nelle loro scarpe gli impreparati carcerieri, o ancora meglio, il loro pubblico pagante, con i pargoli innocenti delle aspettative…. E gli avidi spettatori che, da casa, ricevono la storia così così filtrata: un ASSALTO terribile e SCONVOLGENTE condotto dall’efferata BELVA che con IMPRUDENZA è stata trasformata in una vittima ed ora è carica di un giusto RANCORE. Credete che il bambino si sia salvato? Volete fare un’ipotesi? Si però, mi raccomando, prima di passare al meteo di domani sarà meglio che facciate in modo di conoscere lo stato di salute della vittima del brutale ASSALTO. Click, click! cli-click.
Il che non significa, naturalmente, che l’intera questione sia una montatura allestita ad arte: l’altro recente fatto di cronaca in materia di zoo, relativo alla triste fine del gorilla Harambe dello zoo di Cincinnati ucciso per salvare il pargolo caduto nella recinzione, dimostra ampiamente come un animale tenuto in cattività possa essere altrettanto pericoloso, per lo meno in determinate circostanze, di uno che ha trascorso la propria intera vita potendo contare unicamente sulle proprie forze e spirito di sopravvivenza. Il fatto è che i più grandi predatori, o difensori del territorio emerso che l’ecosistema terrestre abbia saputo produrre in milioni di anni di evoluzione, potranno anche essere stati sottoposti ad una sorta di lavaggio del cervello, diventando mansueti in funzione delle alte pareti che si frappongono tra loro e l’orizzonte. Ma la forza dei loro muscoli possenti, le armi che possiedono in artigli e denti, lo spirito indòmito e imponente, resteranno per sempre componenti inseparabili del loro essere leoni, tigri, leopardi. Ed è una questione che molti dei frequentatori di Internet potrebbero conoscere davvero bene, sopratutto in funzione di canali come quello del santuario per animali da riabilitare Big Cat Rescue, di Tampa, Florida USA. Un’istituzione nata verso la metà degli anni ’90 e che adesso, grazie all’opera pluri-decennale della fondatrice e CEO Carole Baskin, è diventata anche un centro divulgativo multimediale con milioni di followers su YouTube e i principali Social Networks. Soprattutto in funzione di segmenti appassionanti come quello qui sopra riportato, che ha per titolo “Mai voltare la schiena ai grandi felini.” Vi siete mai chiesti…Perché?
È una visione quasi comica, tanto appare innocente e spontanea la chiara sete di sangue degli animali che ne diventano i protagonisti secondari, sùbito pronti a far finta di niente una volta che realizzano che è tutto un gioco. Nel breve video, di neanche due minuti, uno dei volontari del parco (purtroppo non ci viene detto il nome) si accovaccia con fare distratto di fronte alle gabbie del leopardo Cheetaro, delle tigri Andre ed Amanda, del leone Cameron e della tigre bianca Zabu, per fare un qualcosa di simile a quanto, nel caso del bambino giapponese, è riuscito gli articolisti di mezzo mondo: girarsi innocentemente dall’altra parte. L’effetto di un simile gesto sulla mente dei carnivori e lampante quanto immediato…

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Il ritorno del ruggito più pericoloso su pellicola

ROAR

ROAR, il grande squillo d’allarme, il suono e l’espressione della belva che ci affascina e che suscita l’orrore primordiale. Nella storia del cinema come in quella di ogni altra arte visuale, ci sono immagini che hanno un senso predeterminato. Sono quelle che ricorrono, a partire da un’antonomasia, nell’iconografia della cultura letteraria, religiosa e mistica dell’insieme d’esperienze valido a comporre l’odierno senso comune. Giustizia, fortezza, temperanza. Sapienza, scienza ed intelletto? Ciascuna, per sua massima prerogativa, ben rappresentata nella sua particolare essenza, da un oggetto, una maschera, un animale. E non ci sono mai stati particolari dubbi, in merito al senso, al verso ed alla suggestione del leone. Creatura maestosa per eccellenza, pericoloso predatore, imponente approssimazione di ciò che potrebbe essere un gatto domestico, se soltanto noi guardassimo il mondo con gli occhi dell’inerme topo. Usata, da chi ricerchi l’utilità delle metafore, per simboleggiare non la semplice imponenza fisica, quanto piuttosto un senso di possenza trascendente, la capacità d’imporsi sulle cose prive di sostanza. “Meglio un giorno da…Che cento da pecora!” Esclama il detto rilevante, benché sia il caso spesso di considerare che: si, la pecora sarà pur pallida e incolore. Ma non potrà mai morderti alla giugulare. Strano. Ed improbabile, nevvero, quanto questa iniziativa delle due case indipendenti Drafthouse Films ed Olive Films, di andare a prendere da sotto il tappeto di Hollywood uno dei suoi ciméli maggiormente polverosi e prossimi dal completo oblìo, un film così tremendamente problematico, tanto conduttivo a una sequela di ricordi lugubri, che persino i suoi interpreti, ben 24 anni dopo, non vogliono aver nulla a che fare con tale restauro e conseguente re-release. Interpreti come una giovane Melanie Griffith (allora poco più che ventenne) e sua madre Nathalie Kay “Tippi” Hedren, la donna che notoriamente seppe affascinare a tal punto l’indimenticabile regista Hitchcock, da diventare la futura musa ispiratrice in alcuni dei suoi film degli anni ’60 e ’70, spesso con ruoli da protagonista perturbata dagli eventi. Forse la ricorderete come la fanciulla sfortunata dell’abitazione assediata da Gli uccelli, vittima di una delle scene più ansiogene della storia del cinema, con gabbiani, corvi e cornacchie assetati di sangue, misteriosamente entrati da una finestra infranta, che tentano di ghermirla spietatamente al volto. E un senso di puro terrore che, ci narrano le cronache del tempo, fu tutt’altro che simulato “Non ti preoccupare ‘Tippi’, useremo soltanto uccelli meccanici.” Si, come no. Talmente irrealistici, per dire, che le zampe di uno di essi giunsero a recarle un profondo graffio sulla guancia, a pochi centimetri dall’occhio destro. Le riprese dovettero essere fermate per un’intera settimana, tra le proteste dell’insigne regista. Ma è difficile fargliene una colpa; questo fa, in fondo, l’arte. Si trasforma e contamina te stesso, essere umano, rendendoti uno schiavo della sua realizzazione, spesso anche a discapito del senso universale d’empatia. Notoriamente e come viene raccontato in diverse biografie, Hitchcock e la Hedren ebbero una duratura relazione amorosa, con lui che riuscì a trasformarla nella sua donna ideale, vestita sempre in un determinato modo, attenta al cibo ed all’immagine offerta al suo pubblico dei fans appassionati. Ma ecco quello che l’attrice, all’epoca sempre più infastidita dalle ossessioni di controllo del maestro del brivido, ancora non sapeva: il suo futuro gli avrebbe riservato sorprese professionali anche peggiori e interazioni con ben altri tipi d’animali, dovute alla sua successiva stima per un personaggio che la critica è stata assai più rapida a dimenticare.
Il 22 settembre del 1964, Tippi sposa il suo agente Noel Marshall, fascinoso e splendido, persino tra i molti scopritori di talenti della California. Il loro matrimonio prosegue senza intoppi per almeno dieci anni di convivenza e reciproci successi, con loro che organizzano, finanziano e producono assieme diverse valide pellicole, tra cui Mr. Kingstreet’s War e The Harrad Experiment (entrambi del 1973 e con la stessa Hedren come principale attrice femminile). Finché, nel 1973, non arriva il colpo di fortuna: lui che crede fermamente, fin dalla prima stesura del progetto, nella trasposizione cinematografica di un racconto orrorifico di William Peter Blatty sulla regia di William Friedkin, ovvero quello che sarebbe diventato il film da antologia de L’esorcista. Un opus con un budget relativamente ridotto (12 milioni di dollari) ma che riuscì ad incassare ai botteghini, secondo la stima odierna, un capitale approssimativo di ben 36 volte quella cifra e comunque largamente al di sopra dei 400 milioni, dei quali una significativa fetta fu incassata dalla celebre coppia di creativi. E se l’arte può cambiarti, come del resto pure i soldi, ciò che giungono a fare le due cose assieme fuoriesce dal sensibile, per entrare nella sfera della pura e incalcolabile immaginazione. Perché a quel punto, i pezzi erano in posizione, il contesto pronto e fertile per la follia. Così venne l’epoca di ROAR.

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Madri macroscopiche della natura

Cucciolo di giraffa

Felini riportati al loro posto, finalmente. Non cala mai la nebbia sul confine tra la Tanzania e il Kenya, nella pianeggiante regione del Serengeti. E i predatori, per cacciare, sono sempre sotto gli occhi e i nasi delle prede; che possa esistere un carnivoro così scaltro da potersi procurare il cibo in tali avverse condizioni, non è cosa facile da trascurare. Non per niente, lo chiamano il re della foresta. Benché questa incoronazione sottintenda una fondamentale dimenticanza, la tipica trascuratezza di chi guarda solo quello che vuol vedere. Non è chiaro? Tale zannuto dominio viene continuamente contrastato, giorno dopo giorno, dalla venuta di visitatori assai ingombranti. Impossibili da divorare o mandar via. Come noi, oppure questa giraffa con il cucciolo, ripresa nella riserva del Masai Mara, presso il Kicheche Bush Camp, resort turistico pensato per gli amanti avventurosi della natura. Il secondo animale di terra più grande al mondo, nonché quello più alto, sarebbe questo dinosauro dei nostri tempi, che spaventa addirittura lui, loro e tutti gli altri; alto e forte, fiero masticatore delle foglie irraggiungibili dai suoi compatrioti naturali. Soprattutto, protettivo della sua preziosa discendenza.
Il cucciolo della giraffa nasce dopo 400-460 giorni di gestazione, cadendo da un’altezza di due metri o giù di lì, con le zampe in avanti, ancora senza corna ma già alto quasi due metri, già pronto a correre e scappare via. Nel giro di poche ore, sarà virtualmente indistinguibile da un esemplare di 1, 2 settimane. Questa è la natura degli erbivori, per quanto imponenti siano nelle proporzioni: dover sempre dipendere dalla velocità, per la sopravvivenza. Anche se, alla fine, avete mai visto soccombere una bestia di tali enormi dimensioni? Il calcio di un cavallo, se colpisce il suo bersaglio, è già sufficiente a scoraggiare un lupo solitario. Figuriamoci quello dato da questa gigantessa! Nel comportamento sociale delle giraffe madri, esiste un meccanismo definito con il termine francese di crèche. Tale approccio procedurale, ampiamente documentato anche tra gli elefanti ed i leoni, consiste nel prendersi cura non soltanto dei propri cuccioli, ma anche di quelli degli altri suoi simili. È uno strumento evolutivo di sopravvivenza. Per simili appartenenti alla classe biologica della macrofauna, la riproduzione è un momento delicato, che corona mesi di pericoli e fatica. È dunque fondamentale, per la continuativa sopravvivenza della specie, che ogni singolo erede prosperi e raggiunga l’età riproduttiva.
Le giraffe non hanno un ruolo primario nell’educazione dei propri piccoli. Benché interagiscano con loro amichevolmente, soprattutto nei primi mesi, quando ancora il cucciolo è vulnerabile. E tende soprattutto a nascondersi, usando il suo manto maculato. Che funziona, però fino a un certo punto. Perché comunque nel pericolo, quando per l’appunto: hic sunt leones, c’è sempre qualcuna/o pronta/o a intervenire. Che sia la propria madre o quella d’altri, non importa. La giraffa non è predisposta alle formalità. E neanche…

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