Il drago delle zucche si dedica ai cocomeri scolpiti

Watermelon Lizard

Rinfrescante come un coccodrillo, saporito e dolce quanto il dentro dell’iguana. Un frutto che diventa la testimonianza naturale, più realistica del volo degli uccelli, che si, siamo in estate, il piatto è caldo, gli occhi appesantiti. La gola riarsa dalla sete che non ha confini. Mentre la fantasia corre sfrenata, all’epoca in cui l’uomo e donna, liberi da ogni preoccupazione, vivevano fra gli alberi di un vero Paradiso. In Terra, l’alba senza fine, per sempre primavera, frutta e fiori a profusione. Finché un giorno, sopra l’albero proibito, fa saettare la sua lingua un grugno di serpente. Diabolico, si fa per dire. Colubride, scaglioso insinuatore dell’orrenda tentazione: pera, fragola, banana, troppe volte vi ho mangiato. Per la conoscenza questo ed altro, così: “Mèla-mi, strano signore dalla lingua ad Y saettante.” Perché tutto è in proporzione: molto male ed un terribile travaglio senza fine, ci saremmo risparmiati, se soltanto a penetrare in mezzo a quelle fronde fosse stato un rettile di tipo differente. Una lucertola, brillante salamandra, il muso a strisce dalla stazza contenuta; allora rispettivamente Adamo avrebbe avuto, ciliegina, fragola, susina o nulla più. Un altra idea? Il grosso e scaglioso coccodrillo, perché no. Strisciando via dalla palude, sinuoso ed insinuante, avrebbe avuto tra le fauci troppo grandi un altro tipo di “regalo”. Il COCO-MERO del Kalahari, mirabile tesoro e assi più sostanzioso di quell’altra, inoltre privo di pretesti per l’esilio. Per lo meno, a Lui piacendo. Ma così non fu, dannato si quel Belzebù! E da quel giorno del fatidico “Tu avrai le doglie” superato il segno e il passo dell’Età dell’Oro, il seme nero della pianta rampicante più amata da grandi e piccini rimbalzò senza sostare sui confini delle avulse civiltà, dall’Africa egizia all’Europa delle antiche civiltà, dall’India alle foreste del Sud Est Asiatico, dove attecchì, talvolta, per volere duramente coltivato dei suoi estimatori. Ed altre invece, solamente perché questo volle il fato. Del Citrullus lanatus, il simbolo ed il senso dei tre mesi che costituiscono l’alfa & l’omega di un processo di rinascita, il fuoco zuccherino che purifica la mente dai pensieri dell’inverno. Cibo rettiliano degli dei del cosmo? Sostanza che costituisce il senso alimentare rettiliano? Assurdo! Un varano non è un frugivoro che mangi questi cose. Né l’alligatore, si accontenta dello spirito vegetativo per condire il gusto delle sue giornate. Il che in fondo significa, comunque, che decada la correlazione.
Perché guarda, se puoi credere ai tuoi occhi: questa è l’opera di Valeriano Fatica detto l’Ortolano, colui che di Halloween ha gia da tempo fatto un simbolo di riconoscimento. Le cui zucche, mirabile espressione di sapienza cucurbitacea, facilmente rivaleggiano con quelle dei più gettonati artisti americani, richiamati a più riprese per guarnire le alte mura della Casa Bianca (vedi quella nostra vecchia conoscenza, l’encomiabile Ray Villafane et al.) Ma che talvolta preferisce, addirittura lui, arrendersi al passaggio inarrestabile delle stagioni: sarebbe assurdo praticare quel rito ottobrino dello scolpire l’orribile Jack-o’-Lantern, il vecchio fabbro con la rapa alla cintura, senza il clima che sviluppi un giusto grado di foschia, ove il Diavolo potrebbe silenziosamente camminare. Senza contare che… Sotto il Sole di un potente Luglio atomico, quanto mai resisterebbero quei lineamenti, senza squagliarsi come cera, per la gioia delle mosche che ne fanno il proprio parco giochi… Molto meglio ricercare un altro metodo espressivo! Qualcosa che al termine della realizzazione, sotto gli occhi di un gran pubblico adorante, può essere sbucciato e consumato, gioiosamente, in un catartico rito liberatorio. Persino i mostri, non sempre vengono bruciati al rogo. Perché hanno troppo un buon sapore.

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La Bestia di Torino fa tremare la campagna inglese

Beast of Turin

Un’automobile stavolta, ma con il motore più imponente della storia. Preso come niente fosse da un comune dirigibile e montato lì, sopra quattro ruote dalle dimensioni più appropriate ad una moto. La brughiera è sempre stata piena di leggende su mastini della notte, creature indissolubilmente legate a questo o quello stemma nobiliare, eterne persecutrici dell’antico sangue. Ne parlò per primo Sherlock Holmes, con la sua indagine sull’infame maledizione dei Baskerville, per mille volte riproposta nelle sale cinematografiche di molte ere, ringhio canide e occhi di brage fiammeggiante. Ma forse nessuno, tra gli appartenenti a simili famiglie, ricevette mai la visita di un mostro come questo. Per 104 anni sopito in qualche sotterraneo, le catene della trasmissione tintintinnanti giù nel buio e nel silenzio, la sua voce un tempo tonante, già dimenticata. Il veicolo perfetto. L’imponenza spropositata del desiderio di primeggiare ad ogni costo, sopra un record che era stato appena agguantato dai tedeschi. Una fame senza precedenti. La fierezza di quel periodo e un mondo tecnologico che ha nome Italia, puramente futuribile e già quasi Futurista. La Fiat S76 Record, dal nome comune più affine a quello del cattivo di una piéce teatrale, l’alto cofano col radiatore a pera, oltre 28.000 centimetri cubi (venti-otto-mila) di cilindrata per 1.650 Kg di peso, l’equivalente motoristico di un ariete per l’assedio di Costantinopoli, quando ancora i barbari correvano da un lato all’altro di spauriti continenti. È un veicolo davvero senza precedenti, ma cosa altrettanto rilevante, neanche successori, quello che qui vediamo pilotato da Charles Gordon-Lennox, Earl di March e di Kinrara, nel grazioso giardinetto prospiciente casa sua. O per meglio dire, la tenuta del suo mirabile castello, al quale mancano gli armigeri ma non di certo, i draghi. Perché lui seppe ricercarseli con gioia e un dispendio motivato degli ingenti capitali, quella che l’ha portato, dall’ormai remoto 1993, un evento che seppe subito imporsi nell’ampio e variegato panorama delle commemorazioni motoristiche. Una passione che accomuna la fredda Inghilterra al caldo sole della nostra penisola mediterranea: stiamo parlando, per intenderci, niente meno che del celebre Godwood Festival of Speed, dal nome del maniero che costituisce poi il suo punto di partenza, una gara in salita per macchine dell’epoche trascorse, fatta seguire da sfilate, mostre e gran concorsi di bellezza delle cromature. Vera e propria festa annuale del carburatore, rigorosamente collocata la fine di giugno e l’inizio di luglio, per evitare di sovrapporsi alla stagione della F1, altro sacro passatempo di questo titolato discendente dell’antica elite britannica, simbolo di estrema eleganza e grande dignità.
Perciò eccolo, capelli al vento, assieme all’attuale proprietario dell’unico esemplare funzionante dell’automobile, l’ingegnere meccanico di Bristol, Duncan Pittaway mentre fuoriesce brevemente dagli schemi designati, trascinato verso l’entusiasmo di un bambino. E come biasimarlo? Le mani ben strette attorno a quel volante leggendario, gli occhi fissi innanzi, sulle curve leggiadre della sua tenuta, casualmente fiancheggiate da un fagiano e qualche pecora, perché diciamolo: la natura ha sempre il suo fascino immanente. Persino dinnanzi alla furia sregolata dell’irraggiungibile tecnologia.

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Gli ultimi ribelli della linea tratteggiata

La linea russa

“Ci obbligano ad andare dritti Ivan, ma in verità ti dico: cos’è Dritto e cos’è invece… Ss..stor-to!? [beve un sorso di Vodka dalla bottiglia quasi terminata]. L’altro giorno, camminando per andare fino alla scuola di guida e farmi ridare la patente, ho visto che: i lampioni di Novosibirsk sono sempre ec-ecs-quidisctanti. Tranne UNO!” Sull’esclamazione carica di sentimento, la Tata Nano rugginosa sbanda vistosamente verso il bordo della quintultima strada provinciale dell’Oblast. Sopra il rombo del motore, si ode a malapena l’eco di un belato infastidito, proveniente da una capra, lì sperduta, semi-nascosta dietro a un albero piuttosto amiforme. L’autoradio resta spenta ormai da anni, senza neanche l’ombra di una manopola sopra il suo frontalino scalcagnato. Ivan guida concentrato e cerca di ignorare il passeggero. “Mah [burp] tu lo sciai cosa c’è lì – è il sscegreto della geo-metria. Perché se ti metti al centro della stradt-al centro de-la stra-da, e guardi dritto innanzi a te…” Per sottolineare l’affermazione, l’anziano ubriaco si appoggia sul cruscotto, inclinandosi parzialmente verso il lato guidatore. Ivan agita la mano destra infastidito per scostarlo, mentre il motore va troppo su di giri per un mancato cambio di marcia. “Vedi, lo sai COSA vedi? Triangoli isosceli l’uno sull’altro e sovrapposti, ciasch-iuno confinante all’altro. Scommetto che non ci avevi mai p… Pensato” Ivan se l’immagina con gran facilità: il suo zio scapestrato che pianta i piedi in mezzo a una strada di scorrimento del centro della terza città russa per popolazione, mentre gli automobilisti gli sfrecciano rabbiosamente ai lati. Un braccio orgogliosamente piantato sul fianco sinistro, l’altro teso dritto innanzi a se. Con il pollice alzato alla ricerca del punto di fuga e un occhio semi-chiuso. I lunghi capelli bianchi che svolazzano nel vento del crepuscolo transiberiano…. [Alza di nuovo la bottiglia, resta insoddisfatto. Ne controlla attentamente il fondo, quindi tira giù il finestrino e la lancia di fuori.] “Vedi [hic] quando facevo il macchinista della ferrovia, avevamo un detto: non è l’incidente che ti frega, ma la noia. Siamo tutti gran lavoratori, fino a che non sopraggiunge la routine” Ma tu guarda, adesso parla pure il francese! “Allora, o si dorme, o si conta!” Come, cosa? “Ma le traversine, quesch-to dovrebbe essere ovvio, caro mio. Non avrai bevuto un bicchierino di troppo a pranzo? Cento, 200, tremilacentoventidue, questo qui è il mio record-s.” La bottiglia rimbalza sull’erba senza rompersi, quindi sparisce oltre l’ansa di una curva “Non si arriva a tremilacentoventidue, mio caro Ivan, senza comprendere la geo-metria.” E poi continua… Tu forse non sai, oh giovane senza coscienza artistica ma pur sempre nipote di mio padre, ma io facevo il pittore. Quando avevo la tua età, mi chiamavano “Il Giotto ferroviere”. E so riconoscere la mano di un collega. Nelle vaste distese grigio-verdi della tundra abbandonata, non c’è un senso ulteriore, in ciò che fai, tranne quello che tu porti nel profondo del tuo portafoglio. La coscienza di un lavoratore, che come sicuramente avrai capito, non risiede nel suo fegato. Oppur nell’anima, nella mente carica di elettriche sinapsi interconnesse, ma nel senso di riconoscenza verso la sua società. Che gli concede considerazione, in cambio di opere preziose perché salvifiche nel loro scopo. Di mettere a frutto questa somma geo-metria. Ma tutta questa spiegazione va perduta, come lacrime nel vento del mattino.
“Figliolo, ora guarda!” Dice invece, ad alta voce. “Adesso guarda bene, non distrarti…” Le mani saldamente strette sul volante, lo sguardo torvo dal fastidio, l’autista-suo-malgrado, reclutato per andare alla sessione degli alcolisti anonimi laggiù in città, riduce la pressione sul pedale di accelerazione. Suo zio ha ragione, c’è qualcosa di strano. La corsia di destra sulla carreggiata, che basta a malapena per contenere la sua piccola automobile, si sta stringendo. È come se la strada tendesse a destra, con una piccola ma significativa differenza: in quella parte ulteriore, l’asfalto non ci sta. “Ahahahaha. Ah! Ah! Разметка дороги где-то в России, figliolo. Разметка дороги где-то… Smettila di preoccuparti e segui il flusso.” Strano, lo zio Vyacheslav, per una volta, non sembra perso nel suo mondo. Il tono di voce è ritornato quello di una volta (e anche l’idioma!) Talmente resta colpito, Ivan, che per un attimo si volta verso il suo fastidioso passeggero. Quando torna a guardare dritto innanzi a lui, un enorme autoarticolato oscura il limpido orizzonte, dalla parte sbagliata della strada. La sua griglia cromata protettiva, verticale e quasi goticheggiante, è sovrastata da una splendida vetrata variopinta. C’è quello che sembrerebbe un tappeto persiano, appeso in fondo alla cabina, mentre un alberello deodorante dondola illusorio al centro dell’incredibile miraggio. Sotto a quello, un camionista che fatica a tenere gli occhi aperti, semi-addormentato sul volante. Ma Ivan lo sa bene: è impossibile sterzare in tempo. Per tutti gli orsi candidi sulle conifere innevate…

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Come nasce un fucile super-lusso di Beretta

Beretta Premium

Questo video è il frutto di un particolare approccio al marketing, molto moderno, che punta alla divulgazione prima che alla semplice pubblicità. Basandosi sulla consapevolezza che quando una cosa è davvero bella, lo sarà per gli occhi di tutti veramente, anche quelli chi non si sognerebbe mai di acquistarla. Magari per tutta una vasta gamma di ragioni: è un prodotto con un target specifico, è troppo caro per le proprie tasche, gli si preferisce un’arma meno impegnativa da gestire, etc. etc.. Ma resta impossibile, assistendo alla genesi di un simile fucile, non desiderarlo, almeno per un attimo. Sognar bonariamente di tenerlo in mano, spalancare la sua bascula ed accarezzare il calcio marezzato, quel grilletto ben equilibrato. Possederlo ed ammirarlo, se non per fare fuoco contro varie cose svolazzanti, quanto meno, allo scopo di appenderlo sopra il camino e rimirarne le incisioni, l’alta qualità costruttiva e l’incredibile armonia dei materiali e delle forme.
La serie Premium di Beretta, imperituro orgoglio del Made in Italy, si rivolge a chi desidera possedere uno strumento unico, largamente fatto a mano, eppure nonostante questo costruito con le tolleranze dell’industria moderna, e quindi tanto maggiormente affidabile & efficiente. Un’arma come questa può costare, a seconda del modello, anche diverse decine di migliaia di euro e non è chiaramente concepita per il semplice utilizzo, scevro di connotazioni ulteriori. Simili oggetti, fin da quando il primo fabbro romano decorò una spada legionaria, nascono con l’obiettivo di essere sfoggiati. Sono il culmine, la punta di diamante di uno stile personale eppure conforme a meriti assoluti, che non vuole scomparire neanche nel momento della propria sfacchinata, su e giù per le colline, quando l’automobile, la villa al mare, i gioielli e l’orologio d’oro passano in secondo piano, di fronte al desiderio di trovare una folaga o un fagiano, ben nascosti tra i cespugli ombrosi. E saranno certamente lieti, questi ultimi volatili, di essere colpiti a loro volta dalla “straordinaria eleganza e raffinatezza” di un fucile come il Diamond Pigeon, lo shotgun sovrapposto messo in mostra nel presente cortometraggio HUMAN TECHNOLOGY, già mostrato sui diversi principali social network. Segmento che si è guadagnato nell’ultimo mese, grazie all’ottimo soggetto e cinematografia, quasi quattrocentomila visualizzazioni. Dunque diamogli una spinta, diamine, affinché si possa riconoscere la qualità in quanto tale, indipendentemente dalle controversie suscitate dal settore operativo, la caccia. Che è pur sempre estremamente significativa dal punto di vista culturale, quanto meno perché antica. A dir poco!
Tutto inizia con la scena di un fenomenale crogiolo fiammeggiante, simbolo potente, immerso nella pura ed assoluta oscurità. Da qui si passa, con sapiente giustapposizione, ad un’immagine quasi bucolica: lui, l’artigiano-Virgilio dai giganteggianti baffi (nei commenti paragonati a quelli di Stalin, oppure un meno problematico Super Mario) accarezza un tronco, poi ne prende tra le mani un’estrusione magica, perfettamente levigata. Non ci viene mai mostrata l’opera del boscaiolo, poco rilevante nel discorso operativo. Soprassediamo e proseguiamo nel mirabolante viaggio. Questo pezzo, un levigato ciocco, appare già formato nell’aspetto di un calcio ligneo da fucile ed ha più venature di un tocco di marmo di Carrara; al primo sguardo, si capisce che qui siamo ben oltre i limiti della seconda o prima scelta. Solo il meglio, può essere impiegato per chi sceglie di acquistare un Beretta Premium, fatti con il cuore stesso degli alberi più rari e splendidi di questo mondo. Si passa quindi ad un montaggio parallelo: mentre avveniristiche macchine CNC (a controllo numerico) plasmano il metallo nella forma del camera di scoppio dell’arma, con tutto ciò che quest’ultima comporta, mentre un paio di sapienti mani, forse appartenenti a quel traghettatore di anime perdute, stondano la sagoma del legno, alla ricerca di un canone estetico che può soltanto essere definito: pura perfezione.

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