La torre ghiacciata in bilico sul grande inverno

Tuono e fulmini, il soffio del vento come il sibilo di Jörmungandr, la serpe sotterranea che avvolge il mondo. Nubi fosche avvolgono le case della piccola città. Il cui alito nebbioso porta con se l’aria gelida del più remoto Nord. “Povero, dolce figlio dell’estate!” Come farebbe dire George Martin alla vecchia Nan: “Tu non capisci davvero il gelo.” E dopo la notte, svegliarsi come nulla fosse, percependo qualcosa di strano nell’aria. Una durezza, una rigidità diversa, mentre le membra faticano a spostarsi fino alla finestra. Il freddo è uno spettro che permea le stanze illuminate dalla luce dell’alba. Uno sguardo alle temperature locali, dal cellulare lasciato distrattamente sul tavolo da pranzo: -26 gradi in zona. Ah, però! Scosti le tende di scatto, volti lo sguardo al lago. Sul molo della città di Joseph, costa orientale del lago Michigan, c’erano un tempo due fari. Adesso ce n’è uno, vicino alla riva, mentre quello lontano è un ghiacciolo.
È un’immagine che ha fatto il giro del mondo per la prima volta quest’anno, benché in effetti si stia verificando ormai da svariati inverni. Quando il mercurio del termometro scende al di sotto di una certa tacca, anche se sulla terraferma cade poca o pochissima neve, determinati oggetti ad est del quinto più grande lago al mondo si ricoprono di una rigida coltre bianca, tale che l’originaria superficie, generalmente, scompare sotto la coltre del netto bianco. Ma che potesse avvenire su questa scala lo scopriamo soprattutto grazie all’opera di Reyna Price, proprietaria della Great Lakes Drone Company, la quale ispirata dall’opera del fotografo locale Josh Nowicki ha deciso, quasi per caso, di rendere onore a questo straordinario fenomeno della natura. E c’è differenza, questo è chiaro, dal sentire qualcosa descritto a voce e vederlo fotografato da terra, piuttosto che girargli tutto attorno alla velocità degli uccelli, fluttuando all’altezza della sua sommità più estrema. Per conoscere a pieno l’aspetto di questa torre impossibile, che pare uscita da un film della Disney, sembra uno scenario tratto dal mondo ludico di Dark Souls. Nel giro di breve tempo, dunque, la donna con il telecomando è stata contattata dalla compagnia per video virali e marketing del web Storyful, ottenendo la pubblicazione sull’ABC News. Da lì al resto del mondo, il passo era davvero breve. E in un attimo, fu dietro di lei.
Oltre un milione di visualizzazioni nella metà di una settimana, di cui purtroppo, ed aggiungerei ovviamente viste le usanze comuni del web, “appena” 89.000 presso il canale ufficiale della compagnia. Ma stando all’intervista dell’Herald Palladium, giornale locale della città, Price non se l’è presa troppo per questa situazione, sembrando piuttosto felice dell’occasione di portare attenzioni internazionali alla sua beneamata città natìa. Un’ottima storia, con tanto di lieto fine, se non fosse per la questione di fondo che in buona sostanza, nessuno si è preoccupato di trattare: qual’è la ragione per cui determinati edifici sul lago Michigan si ghiacciano completamente, ed altri invece no? Si tratta realmente di un semplice fenomeno atmosferico, o c’è dietro l’agitarsi della bacchetta di Elsa in Frozen, che cantando poderosamente le ragioni del suo trionfo, cancella fino all’ultima traccia di tiepida benevolenza residua? Senza indugiare oltre, dunque, sarà meglio procedere con lo SPOILER ALERT: è vera la prima – non c’è niente di assurdo oppure sovrannaturale in quello che state vedendo. Si tratta di un effetto inevitabile della condizione meteorologica nota come effetto-lago, che fin dai tempi dell’invenzione dei termometri ha condizionato la situazione costiera del Michigan, ma anche gli estremi occidentali di New York, Ohio, Pennsylvania ed Indiana. Ma non del Wisconsin, che pure si affaccia sullo stesso sistema dei cinque Grandi Laghi, costituenti tutti assieme una delle riserve d’acqua dolce più grandi del mondo, superata in estensione lacustre soltanto dal (salato) Mar Caspio. E la ragione ve la dico subito: se tutto questo succede, la colpa è dei venti. O per meglio dire, di ALCUNI tra loro.

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Un’altra capra di Natale soccombe ai piromani svedesi

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La città da oltre 71.000 abitanti di Gävle, situata sul Mar Baltico in prossimità della foce del fiume Dalälven, è tra i luoghi più gradevoli da visitare nel freddo inverno dei paesi del Nord: la sua popolazione amichevole, il grande parco cittadino, il celebre museo nell’ex-prigione comunale ed il centro storico, costruito grazie agli introiti dell’industria mineraria del XV secolo, pieno di soluzioni architettoniche affascinanti e una fiorente industria del turismo. In particolare risulta celebre l’annuale festival musicale organizzato verso la fine di Novembre, con la partecipazione di artisti rinomati della regione, svariati dei quali originari proprio di questa fiorente municipalità. Gävle, tuttavia, ha un problema: ogni anno tra l’Avvento e il Natale, inevitabilmente, la sua capra gigante brucia. Non si tratta di una tradizione intenzionale, come quella di numerose feste di matrice pagana tenute in giro per il mondo in diversi periodi dell’anno. Ma si tratta piuttosto del gesto scriteriato, e molto probabilmente privo di una motivazione comune, portato avanti da gruppi sovversivi che a quanto pare traggono inspiegabile soddisfazione nel rovinare il frutto del lavoro e dell’investimento altrui. Anche quest’anno, per il 50° anniversario della Gävlebocken, la grande statua con scheletro di legno ricoperta interamente di paglia è stata eretta a Slottstorget, la piazza del castello e in prossimità della caserma dei pompieri, come solenne atto d’apertura delle celebrazioni in attesa del culmine delle festività. Ma questa volta siamo giunti a nuove vette d’inusitata crudeltà ed efficienza: nel giro di neppure 24 ore a partire dal suo allestimento il 26 novembre, mentre una delle due guardie pagate proprio per evitare imprevisti si trovava al bagno e l’altra era sul retro della capra, misteriosi sconosciuti si sono appropinquati di soppiatto, e con una rapida secchiata di accelerante, seguita assai probabilmente dal lancio di un semplice cerino, hanno dato il via all’ormai familiare deflagrazione fiammeggiante del grosso animale di fantasia. Con questo spiacevole episodio, siamo alla 36° capra che brucia a Gävle, tra l’apparente incapacità dell’amministrazione cittadina di garantire la sopravvivenza del fantoccio, smontato senza incidenti soltanto una dozzina di volte a partire dalla sua invenzione nel 1966. Qualche volta, in modo particolare se la distruzione avviene troppo presto durante le festività, la capra viene ricostruita con la materia vegetale che si riesce a trovare sotto natale, generalmente giunchi e canne. Ma quest’anno, a quanto si riesce a desumere dai canali social ufficiali, potrebbero mancare i fondi per farlo.
È una strana usanza che trae l’origine da ancor più strane circostanze, e che almeno all’apparenza, quasi nessuno avrebbe un vantaggio a portare avanti, almeno nel particolare modo in cui si verifica da tanti anni. L’incendio incontrollabile e imprevisto, tra l’altro, può costituire un pericolo per la popolazione. Innumerevoli tentativi sono stati fatti, nel tempo, per evitare il verificarsi del disastro, inclusi recintare la capra (1968) farla proteggere dall’esercito (1985) o da volontari (1990) sorvegliarla con videocamere (1996) e infine ricoprirla con le migliori sostanze ignifughe sul mercato, generalmente usate nel campo dell’aeronautica (2013) che tuttavia non si sono rivelate sufficientemente efficaci da impedire la combustione di quello che comunque rimane, a tutti gli effetti, un gigantesco covone d’erba secca nel centro della città. Sembra in effetti impossibile, volendo impedire il verificarsi del disastro, che nessuno abbia mai pensato di realizzare la capra in un diverso materiale. Ma il punto della capra di Yule, un caratteristico simbolo natalizio in uso in tutti i paesi scandinavi, è che essa sia fatta immancabilmente di paglia. Ed ogni variazione, la renderebbe sostanzialmente inutile allo scopo. Qualunque esso sia….

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UFO delle vacanze: la strana casa di un altro futuro

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Fa freddo nel cortile del WeeGee Exhibition Centre, ad Espoo in Finlandia, fra il fruscìo della vegetazione rigogliosa piantata tutto attorno a una tipografia dismessa ormai da circa vent’anni. Ma lo sguardo, per lo meno, è riscaldato da un’inconciliabile visione: una bizzarra capsula di quattro metri di diametro, sospesa da terra, costellata di oblò equidistanti sopra la livrea di un vistoso color giallo zafferano. D’un tratto, con un sibilo meccanico, uno spicchio dell’oggetto si apre, rivelando una rampa ribaltabile del tutto simile a quella di un aereo. Un paio di piedi iniziano a discenderla, per diventare quindi gambe, vita e inevitabilmente, un volto. Gli occhi grandi, la folta barba… L’avete riconosciuto? Si tratta, senza alcuna ombra di dubbio, di…
Se guardiamo al domani adesso, tramite la lente della letteratura o del cinema di fantascienza, tendiamo a percepire una distesa desolata al cui confronto gli aridi deserti paiono dei prati alpini. Morte, povertà e devastazione. L’armonia del consorzio umano ormai un remoto ricordo, mentre le persone si combattono per le ultime risorse di un pianeta ormai stanco, battuto dai mutanti, dagli alieni e dagli spiriti affamati di rivalsa. Mentre tutto ciò che popola le nostre fantasie, in qualche maniera, lo riflette: le auto corazzate di Mad Max, le armi mostruosamente letali dei romanzi di William Gibson, i vampiri mangiatori di carne umana di Io Sono Leggenda… Mentre per quanto concerne l’architettura, è raro che i creativi si dilunghino eccessivamente nelle descrizioni. Il che è piuttosto logico, a pensarci: perché quale diamine potrebbe mai essere, l’aspetto di una casa concepita per ospitare una persona ragionevole all’interno di una tale distopia? Se non un cubo di cemento, privo di finestre tranne quelle per prendere la mira, tutto spigoli e filo spinato, dietro varchi successivi di porte blindate e trappole letali! Le abitazioni del domani in fiamme, per come lo vediamo tristemente oggi, non presentano sorprese di alcun tipo. Né la benché minima traccia di linee curve. Ma di contrasto, fino all’altro ieri non fu così. Quando la strada innanzi a noi pareva luminosa e corroborata dal bagliore dell’ottimismo mentre la plastica, materiale indistruttibile ed innovativo, trovava applicazione in ogni ambito che voi possiate concepire. Incluso quello, strano a dirsi, abitativo. Per lo meno in base alla visione operativa di Matti Suuronen, architetto finlandese celebre per l’uso che faceva di poliestere, resine termoindurenti, acrilico e fibra di vetro. Tutti materiali che trovarono l’applicazione nella sua visione di una casa ideale, o per usare l’effettivo marchio commerciale usato a partire dal 1968, l’adorabile Futuro house.
Immaginate, se potete, un’epoca di surplus finanziario, durante la quale ogni famiglia disponeva di risorse in eccedenza. Quando praticamene chiunque, persino i lavoratori con stipendio minimo dell’allora neonato Walmart, era PER LO MENO benestante. Ciò perché i soldi, quei pezzi di carta privi di una reale utilità nel mondo fisico, potevano giovarsi di un potere d’acquisto che cresceva in modo esponenziale. Tanto che ben presto, fluttuando sulle fantasie sui viaggi nello spazio, la robotica, l’idillio di una società pacifica che accelerava i suoi progressi, si iniziò ad immaginare un 2000 in cui nessuno avrebbe più avuto bisogno di lavorare, se non per scelta personale, e tutti avremmo avuto bisogno di un luogo in cui divertirci per far passare i lunghi mesi di una vita senza impegni. Ora, i modi chiaramente non mancavano. Ma il buon Suuronen, a quanto ci è possibile immaginare, amava soprattutto questo: sciare. Così il suo più celebre contributo generazionale, verso il volgere del decennio, fu l’idea per un nuovo tipo di baita per la montagna, non più concepita per essere faticosamente messa insieme sul posto, grazie al sudore sulla fronte delle maestranze locali, bensì costruita in fabbrica in qualche decina di pezzi, da far assemblare al personale tecnico in un paio di giorni, o in alternativa, addirittura, trasportata tutta intera con l’ausilio di un prestante elicottero. Il che doveva presentare una visione piuttosto bizzarra. Perché vedete, la Futuro house è costruita con la precisa forma di un disco volante. Si tratta di una mera coincidenza, intendiamoci. Di una forma concepita, nelle parole dello stesso creatore, per massimizzare l’isolamento termico e risultare, al tempo stesso, in grado di lasciar scivolare via la neve dal tetto, potendo in aggiunta contare sul solo appoggio di quattro palafitte, soluzione ideale in condizioni di suolo instabile o roccioso. Ma l’illusione non può che persistere immutata…

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Basta cani da valanga, è tempo di affidarsi al Gulo gulo

Wolverine Rescue

Tra tutti i personaggi dei fumetti ispirati in qualche maniera ad un animale, nel loro nome, reputazione o costume, l’artigliato Wolverine, probabilmente il più popolare degli X-Men, è forse l’unico ad avere una corrispondenza col suo totem bestiale che possa definirsi di un tipo, per così dire, principalmente psicologica. Certo la volverina, una creatura imparentata con la donnola che in Italia è spesso definito “ghiottone” (dopo tutto questo è il significato del suo appellativo latino) ha pure lui il suo bel set d’unghioni, che comunque non sono assolutamente retrattili come quelli del gatto o per l’appunto, del supereroe. È inoltre molto resistente alle ferite e agli infortuni di ogni tipo, come del resto qualsiasi altro animale selvatico che vive in degli ambienti inospitali, ma non può certo rigenerare le parti offese alla maniera di una stella marina, o dell’interpretazione più famosa del prestante attore Hugh Jackman, l’uomo dai basettoni trasformabili che fa spesso da contrappunto alla distaccata razionalità di Patrick Stewart/il Dr. Xavier. Così le somiglianze tra i due omonimi, la belva quasi umana e l’uomo dall’istinto combattivo, finiscono per concentrarsi soprattutto nell’ambito caratteriale, visto che ben pochi potrebbero definire l’alter-ego indistruttibile di James “Logan” Howlett, come nient’altro che tenace, indefesso, caparbio, volitivo. Tutte caratteristiche che, in qualche maniera, possono tranquillamente essere attribuite all’omonimo compatto, peloso e ringhiante abitatore dell’intero Settentrione del mondo, dall’Alaska alla Kamčatka, dal Canada alla Siberia. Ora, qualcuno ha pensato che simili doti potrebbero davvero, essere utili all’umanità. E tutto in funzione di un’accidentale, drammatica presa di coscienza individuale…
Mike Miller, direttore esecutivo dell’Alaska Wildlife Center, rinomato centro di conservazione faunistica, si trovava presso Hatcher Pass, nelle Talkeetna Mountains, per fare da consulente in occasione della realizzazione di uno spot pubblicitario, all’interno del quale doveva comparire niente meno che una renna vera (probabilmente, di Babbo Natale?) Ora, mentre aspettava il resto della troupe, si ritrovò a conversare con un ranger del parco, che gli indicò un veicolo parcheggiato in fondo al piazzale: “La vedi quell’auto, Mike? Devi sapere che è di una donna che ha perso suo figlio in una valanga, diverse settimane fa. Il corpo non è stato ancora trovato e da allora lei, senza mancare un solo giorno, viene qui nella speranza di potergli dare degna sepoltura…” Terribile, agghiacciante. È del resto una realtà del mondo innevato, spesso trascurata dal cinema di genere o i documentari, che l’attività di soccorso effettuata dai cani addestrati per rispondere ai disastri montani si trasformi, nella maggior parte delle volte, in una missione di recupero dei già defunti. Una volta soverchiato dalla massa solida dell’acqua semi-congelata, infatti, il corpo umano non può sopravvivere che pochi, tragici minuti. Ed a quel punto, lo stimato naturalista non potè fare a meno di chiedersi tra se: “Possibile, che non si possa fare qualcosa per queste persone?” Ora, un cane è ovviamente un animale formidabile. Dall’olfatto rinomato, eternamente pronto ad imparare e dar soddisfazione al suo padrone. Che vorrebbe sempre, con ogni residua fibra del suo essere, rendersi utile a un profondo bene universale. Ma qualsiasi Pastore Tedesco, Labrador o San Bernardo, per quanto abile e capace, non si è evoluto per cercare nella neve. Non è perfettamente predisposto a questo compito, e non lo sarà mai. Così, perché no, la volverina, che notoriamente possiede un olfatto pari o superiore a quello del suo distante cugino quadrupede abbaiante? Ah, ci sono innumerevoli ragioni. In primo luogo, quasi nessuno è mai riuscito ad ammaestrare uno di questi animali, dalla reputazione di ferocia comparabile a quella del diavolo della Tasmania, o per essere ancor più diretti, a Lucifero stesso. Tanto dovrebbero essere mordaci, nell’opinione di tutti, questi carnivori da 20-30 Kg, Ma aspetta un attimo. Ho appena detto, QUASI nessuno? Beh, in effetti qualcuno c’è. Una singola, notevole persona…

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