Oʻahu H-3, l’augusto strale di cemento che attraversa l’isola dei sogni hawaiani

“Non è la cosa più magnifica che abbiate mai visto?” Guidando a una velocità serena ed uniforme, nel mantenimento della lieve curva della carreggiata in quel punto, l’automobile pareva sospesa tra le lande tangibili del mondo materiale e un incontaminato Paradiso ai primordi stessi dell’esistenza umana. Eppure nulla, in tutto questo, lasciava presumere che si trattasse di un caso raro. Altri condividevano quel mistico momento. E il rilassato accompagnatore, autista dei suoi cugini in visita nell’ancestrale arcipelago di famiglia, sembrava in quel momento l’anfitrione più felice dell’intero Oceano Pacifico tra Stati Uniti e Giappone. “Vedete, questa strada è stato un caso politico e sociale per intere generazioni. La gente ha combattuto, con le unghie e con i denti, perché non fosse possibile riuscire a realizzarla. Ma adesso che i piloni sono stati eretti, la foresta stessa occultata sotto il ponderoso passaggio delle ruspe e gli altri mezzi da costruzione… È probabilmente il nostro dovere di abitanti, quello di trovare un senso ed un significato a questo magnifico… Scempio.”
L’interstatale H-3, successivamente destinata ad essere ribattezzata come autostrada John A. Burns, dal nome del Governatore che era stato tra i suoi promotori al principio degli anni ’60, è un singolare capolavoro ingegneristico che costituisce anche uno dei più grandi rammarichi dal punto di vista della conservazione, mai commessi ai danni di un patrimonio naturalistico davvero eccezionale come quello dell’isola di Oahu. Tanto che sarebbe stato proprio, molto paradossalmente, proprio un decreto ratificato dal presidente Nixon sul tema dell’ambiente dieci anni dopo l’iniziale pianificazione e stanziamento dei materiali, a mettere i bastoni tra le ruote all’implementazione effettiva di un così difficile e importante progetto. Il cosiddetto National Environmental Policy Act, che avrebbe aneddoticamente portato nel giro di sette anni, o almeno si narra, la pila di documenti consegnati presso l’Autorità dei Trasporti all’altezza di un metro e mezzo, nel disperato tentativo di bloccare il proseguimento dei lavori. Un desiderio condiviso da ampie fasce di popolazione nativa, amanti della natura, dell’archeologia e proprietari degli antichi territori, ove gli avi delle genti aborigene avevano lungamente individuato il posizionamento dei propri antichi santuari. Una tra tutte, la famiglia Damon, attiva nel campo dello sviluppo immobiliare, che mettendo a frutto le proprie proprietà certificate nella valle di Moanalua, riuscì ad ottenere che il Dipartimento degli Interni nominasse tale spazio come un Parco Naturale da preservare, per poi collaborare con l’Ufficio della Conservazione Storica delle Hawaii per espanderlo e costruire una barriera normativa, a tutti gli effetti, impossibile da superare. Almeno finché a partire dal quel fatidico 1977, il cantiere non venne spostato presso la vicina valle di North Hālawa, considerata il nuovo punto di passaggio stradale, sebbene proteste ed iniziative simili non mancarono ben presto di bloccare nuovamente i lavori. Il che non era in alcun modo accettabile, a partire dal pretesto stesso per la costruzione dell’interstatale, che formalmente tale non poteva essere in quanto scollegata dalla terra ferma dei restanti Stati Uniti. Ma costruita, nondimeno, con i fondi accantonati dalle autorità federali per simili progetti in forza del suo ruolo strategico considerato fondamentale, al fine di connettere in maniera veramente efficiente la base militare di Honolulu al porto di Pearl Harbor, a seguito della dura lezione notoriamente vissuta come uno dei principali punti di svolta della seconda guerra mondiale. Ragion per cui un metodo poteva e doveva essere trovato ad ogni costo, come sarebbe infine avvenuto nel 1986…

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St. Louis degli acquedotti stravaganti: cinque torri all’ombra del Gateway Arch

“Cittadini, avete dimenticato la storia di Noé? Tutti furono puniti, tranne lui. E adesso demolite questa dissacrante… Struttura, giacché Dio può essere raggiunto solamente con lo spirito, non certo scale a chiocciola e slanciati minareti!” Avrebbe potuto dire qualcuno all’indirizzo dell’architetto finnico-americano Eero Saarinen, prima che la sua opera maggiormente destinata a rimanere negli annali cominciasse a ritornare verso il suolo. Formando la più ragionevole e palese imitazione di un arcobaleno, costruito con l’acciaio inossidabile e per questo in grado di riflettere la luce solare. E soltanto una continuò ad essere la lingua parlata della gente, Egli permettendo, nel grande centro urbano definito Porta dell’Ovest, che da quel fatidico momento avrebbe dato forma fisica all’appellativo metaforico in questione. Ma oltre 70 anni prima di quel frangente, la più affollata tra le piane fluviali del Missouri, che prende il nome sugli atlanti di St. Louis, aveva già i suoi punti di riferimento, costruiti in senso verticale al fine presumibile di ergersi e attirare gli ammirati sguardi della gente, almeno finché non capitasse di avvicinarvisi (ove possibile) soltanto per udire un lieve suono gorgogliante che pare protendersi al cospetto dell’Infinito. Giungendo a rivelare l’effettiva natura, difficilmente sospettabile, di simili apparati: non dei monumenti commemorativi, né il monito del municipio a non costruire palazzi più alti del dovuto. Bensì parte imprescindibile, ed innegabilmente necessaria, dell’intero impianto idrico cittadino, destinato ad espandersi in maniera esponenziale con la fine del XIX secolo, mentre le industrie dei commerci e quella terziaria andavano a sostituirsi gradualmente alle antiche fonti di reddito dell’intera regione. Questo perché all’epoca, in un luogo tanto ricco di risorse idriche e contrariamente ad altre celebri città statunitensi, il problema principale non era tanto raggiungere i luoghi più alti mediante l’utilizzo di un’adeguata pressione. Bensì limitare questo implicito valore, evitando la vibrazione usurante dei tubi e il loro occasionale collasso, con conseguenti allagamenti di locali ed altri ambiti preferibilmente predisposti al fine di restare asciutti. Situazioni per risolvere le quali, all’epoca, menti fervide s’industriarono per decadi, fino all’elaborazione teorica della torre idrica di sfogo, una struttura tanto differente dalle odierne alternative tozze e bulbose, quanto efficace nel suo ormai desueto compito all’origine della creazione di partenza. Così nel giro di appena un paio di generazioni, oltre 700 simili strutture cominciarono a sorgere nei luoghi più affollati degli Stati Uniti, per poi essere gradualmente demoliti con l’ingresso dell’epoca contemporanea, e l’implementazione di metodologie più efficaci atte a risolvere la stessa tipologia di problemi. Tutte tranne l’effettivo 1%, di cui poco meno della metà si trova effettivamente ancora ad ergersi nella seconda metropoli dello stato, per una singola nonché palese ragione: la maniera in cui tali arnesi verticali riescono a spiccare tra la massa dei grigi edifici contemporanei, risalendo a un’epoca in cui la bellezza delle forme pareva essere la propria stessa ricompensa. Ed abili architetti, chiamati sulla scena al presentarsi dell’opportunità, crearono altrettante meraviglie degne di essere inserite, col trascorrere degli anni, nell’elenco dei luoghi storici degni di essere preservati nonostante il cambiamento significativo del proprio contesto. A partire dalla candida, svettante e quasi surreale “Grandiosa Colonna” (di “Grand Avenue” per l’appunto) che svolgendo la funzione accidentale d’imponente meridiana, segna il giro delle ore nella tranquilla e relativamente poco trafficata zona di College Hill…

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L’odierna e funzionale riscoperta dei ponti ad arco nel sistema delle infrastrutture africane

“Così è il modo. Questo è il metodo. Abbiamo trovato la soluzione.” Parole significative scaturite, nel momento della prima opera portata a compimento, dai supervisori di uno dei progetti più importanti portati a coronamento negli ultimi anni dall’associazione belga di assistenza ai paesi in via di sviluppo, la Enabel impegnata a lungo termine entro i confini della Tanzania. Alla constatazione della massima efficienza, con cui il popolo di agricoltori della regione di Kingoma poteva finalmente raggiungere la piazza dei propri mercati regionali, senza dover camminare al di sotto del livello di sicurezza nel guado di svariati profondi e problematici torrenti. E per una volta non dovendo fare affidamento sulla buona grazia, la poca considerazione ambientale ed il continuativo supporto di un’impresa di costruzione proveniente dal facoltoso Nord del mondo. Bensì l’energia dei loro stessi muscoli, coadiuvata dal più utile ed operativo degli strumenti: la conoscenza. Quella contenuta per l’appunto all’interno di un conciso manuale, che potremmo collocare tra gli scambi più fondamentalmente utili derivanti dall’incontro con i popoli di questo continente. Il cui titolo è sorprendentemente semplice e diretto, così come l’effettivo materiale contenuto tra le sue pagine: Stone Arch Bridge. E chi l’avrebbe mai potuto immaginare che nel secondo decennio degli anni duemila, una significativa fascia di popolazione avrebbe tornato ad affidarsi a una simile tecnologia, risalente a niente meno che l’epoca del Mondo Antico, da cui tutt’ora alcuni esempi restano perfettamente in piedi e sono utilizzati occasionalmente. Avete presente, ad esempio, il ponte Fabricio verso l’Isola Tiberina?
Il tutto verso un approccio logico al problema che potremmo definire estremamente logico, quando si considerano le implicazioni del suo contesto. Nella stessa maniera in cui nel XIX secolo il Dipartimento per le Opere Pubbliche della Colonia del Capo assunse a distanza e accolse tra le sue fila il giovane ingegnere inglese Joseph Newey, le cui competenze avrebbero portato, per i 32 anni a venire, alla costruzione di un gran totale di 80 ponti dislocati in quella regione critica e i paesi confinanti, molti dei quali costruiti con le metodologie moderne del cemento precompresso e travi di ferro. Ma alcuni tra la moltitudine, nelle opere di restauro e miglioramento di strutture pre-esistenti, fondati sull’applicazione di un particolare metodo del tutto simile a quello utilizzato dagli Antichi Romani. Non c’è una grande necessità di risorse d’altra parte, materiali e tecnologia, quando tutto ciò che ci si mette a fare è sollevare una serie di centine ed altrettante volte, per tutta la lunghezza resa necessaria dall’attraversamento di turno. Laddove ciò che potrebbe piuttosto sollevare un senso di latente meraviglia, è il fatto che nel corso degli ultimi anni, a partire dall’inizio della venture collaborativa avviata nel 2016, la quantità di opere realizzate entro i confini di un paese oggettivamente molto meno facoltoso del Sudafrica abbia ampiamente eguagliato e persino superato di numero gli obiettivi raggiunti dal solo Newey nel corso della sua intera carriera. Anche grazie alla spontanea partecipazione d’ingenti parti della popolazione locale, motivata dai successi supervisionati direttamente dalla Enabel, scegliendo di aggiungere il proprio contributo al territorio natìo. Potendo finalmente realizzare il sogno proibito, e spesse volte neanche menzionabile, che fosse la stessa gente d’Africa, ad affrontare le sfide necessarie a migliorare la locale qualità della vita…

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L’iniziativa di affondare un’autostrada per avvicinare la Scandinavia al centro del continente europeo

Il 30 ottobre del 1990, senza particolari cerimonie, un foro del diametro di appena 50 mm venne completato orizzontalmente attraverso uno spesso strato di marna. Probabilmente uno dei più costosi di tutti i tempi, vista la maniera in cui completava finalmente il collegamento, dopo oltre due anni di lavoro, tra le gallerie scavate con immense trivelle a 55 metri di profondità e 50 Km di lunghezza sotto le fredde acque della Manica, preparando il sottosuolo al transito di due imponenti tragitti ferroviari. Così che l’Eurotunnel, inaugurato infine nel 1994, avrebbe finito per costituire una delle infrastrutture più notevoli della sua epoca, sebbene sussista ragionevolmente un tipo d’interrogativo dalla significativa pertinenza di una domanda: dovendo perseguire oggi lo stesso obiettivo, saremmo inclini a utilizzare macchinari equivalenti? Affrontare la stessa serie di difficoltà, potendo contare sull’esperienza precedentemente acquisita? Oppure fare affidamento a un tipo differente di soluzione, maggiormente calibrata sulle effettive esigenze di chi costruisce arterie di collegamento sotto i profondi strati dell’azzurra umidità terrestre… Come quello dell’immersione, applicato per la prima volta ed una singola corsia statunitense nel 1910 ma che proprio al volgere del millennio avrebbe dato prova della sua applicabilità su larga scala nel tunnel completato nel 1999 di Drogden, pari a 3.500 metri di cemento e acciaio letteralmente prefabbricati che contengono due corsie stradali ed altrettante dedicate al passaggio di convogli elettrici ad hoc, collegando efficacemente la punta meridionale della Svezia con l’importante porto danese di Copenaghen, assieme al ponte consequenziale di Øresund. Il che non prescinde una possibilità per l’ipotetico viaggiatore di dirigersi ulteriormente ad occidente, oltrepassando lo Storebæltsforbindelsen (collegamento fisso del Grande Belt) per giungere in una trasferta ininterrotta fino alla parte continentale della Danimarca, oltre un ponte a trave scatolare tra la Selandia e l’isola di Sprogø. Eppure fin da un lungo periodo e stata percepita, nella cognizione logistica di tali situazioni rispettivamente risalenti al 1998 e ’99, una grande mancanza veicolare a vantaggio di tutti coloro che, per ragioni di qualsivoglia tipo, avessero deciso piuttosto di procedere verso il meridione. Per raggiungere l’isola tedesca di Fehmarn, passando per la Lollandia, terra emersa oltre la quale l’unica maniera per procedere era imbarcarsi su un traghetto perdendo un tempo stimato che si aggira attorno ai 40 minuti. Del tutto accettabile in determinate circostanze, ma non sempre, e d’altra parte inadeguato in un contesto in cui simili attraversamenti richiedono generalmente una mera frazione di quel prolungato periodo di flemmatica navigazione. Per cui fin dall’epoca della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca della Danimarca, l’architetto Heinrich Bartmann aveva elaborato un piano ambizioso per unire le due terre mediante l’impiego di un ponte sospeso, poi passato in secondo piano per le problematiche di tutt’altra natura derivanti dalla conclusione del sanguinoso conflitto. Ciò detto, l’ipotesi continuò ad affascinare la gente di quel paese, fino a concretizzarsi verso l’inizio degli anni ’90 con la proposta molto concreta di quello che sarebbe diventato di gran lunga il ponte sospeso più lungo del mondo, con quattro pilastri ed oltre 20 Km di carreggiata sopra le acque ondose dello stretto. L’effettivo coronamento di parecchi anni di pianificazione, destinato tuttavia a naufragare ancor prima dell’inizio dei lavori, dopo uno studio di fattibilità capace d’evidenziare la maniera in cui i forti venti trasversali, tra le direzioni est ed ovest, avrebbero reso quell’avveniristico sentiero inaccessibile per una parte significativa dell’anno. Dal che, l’idea: perché non invitare gli aspiranti attraversatori, piuttosto, a procedere direttamente sotto il mare…

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