La sfida dei peperoncini progressivamente più letali

Pepper challenge

Giunge un momento, nella storia della vita e delle cose, in cui la forza di ciascuno deve essere messa alla prova. Al calare fragoroso di un potente pugno sulla tavola, assieme al grosso braccio di un maestoso Buddha o Bodhisattva, figure rappresentative dell’affermazione personale. Mentre disposti ai lati della tavola, siedono i più grandi, i più terribili, i più spaventosi. Radunati da ogni angolo del globo, soltanto per quest’oggi, alle prese con l’equivalente culinario di un torneo di arti marziali! Superiore a molti altri. Più che le Olimpiadi del peperoncino, una scena come il momento culmine di saghe alla Dragonball o One Piece, quando ogni periferica connotazione narrativa diviene subordinata alla necessità di stabilire quale, tra i terribili o adorabili guerrieri, sia da porre in cima all’ardua scala del fondamentale powerlevel. Che poi sarebbe come dire: “Prima del tramonto farò di te un vero uomo, o una vera donna, lingua. Vi affilerò come altrettante spade, mie fide papille gustative. Vedremo infine sorgere la Luna, con un senso e un piglio differente…” Questo, certo, se ci arrivivi VIVO, al termine della tenzone.
Il che nel presente caso, di una folle gara di degustazione organizzata dal club del Chili di Clifton, nel New Jersey, appariva del tutto da dimostrare! Almeno, nel caso di un paio di concorrenti particolarmente testardi, che prima di arrendersi hanno superato il proprio limite più volte, riducendosi a un pulsante ammasso di dolore e capsaicina. Il contesto cattura l’attenzione fin da subito, con l’inquadratura di traverso che ci offre un rapido spaccato di chi possa auto-definirsi oggi, negli Stati Uniti, un vero amante della piccantezza: ce ne sono di ogni tipo. Veri uomini rudi pronti a dare il tutto per tutto, metallari con maglietta da concerto oppure il volto di Vlad Dracul il succhiatore, giovani dal ferreo stomaco che sembrano trovarsi alla tipica convention dei fumetti. Le quattro donne partecipanti, nel frattempo, rappresentano diverse etnie, con un paio di ragazze caucasiche più altrettante, suddivise tra subcontinente indiano ed Asia Orientale, pronte anch’esse a dimostrare la potenza della loro volontà. Benché sia proprio quest’ultima, fra tutti, quella che fin dalle battute d’apertura pare subito trovarsi in difficoltà. Ma andiamo con ordine…
Al suono del gong, la sfida si apre con un piglio vagamente rassicurante: vengono portati a tavola alcuni jalapeños verdi, appartenenti al più celebre e diffuso cultivar della pianta americana Capsicum annuum, famosa per il gusto dolciastro del suo frutto da “appena” qualche migliaio di Scoville (le unità internazionali usate per misurare l’entità del pericolo). Certo, la missione può sembrare ancora semplice, ma considerate pure che mangiare un peperoncino come questo, comunque ben diverso dalle sue varianti modificate per i palati d’Europa, è tutt’altra storia che assaggiarlo ben disciolto e diluito in una salsa, modificato in un processo che lo priva di una buona parte della sua potenza innata. Il primo round, ad ogni modo, passa senza vittime. Le cose iniziano già a farsi più serie nel secondo, nel quale viene proposto ai concorrenti una delle molte varianti di quello stesso peperoncino, il Bullet Chili (peper-proiettile) di un pregevole giallo intenso. Ciò è significativo, perché esiste in questa pianta un’automatica gradazione per colore, attraverso la quale il frutto varia dal verde al giallo al rosso, esattamente come un semaforo, all’aumentare della propria intensità caliente. In determinati casi, sulla sua scorza si formano linee marroni come cicatrici, considerate antiestetiche nel mondo culinario per così dire convenzionale, mentre largamente ricercate dai veri appassionati dell’atroce appagamento. Queste sono infatti un segno ulteriore che le ghiandole site tra la parete del frutto e la placenta hanno fatto il loro dovere, secernendo un’adeguata quantità di acido grasso monoinsaturo, in grado di mutare chimicamente diventando capsaicina. Ai giovani e maturi eroi ciò non sembra fare una particolare impressione, visto come tutti passino felicemente un tale turno d’apertura, con la possibile eccezione della ragazza asiatica, che già inizia a mostrare un vago senso di disagio. Con il sopraggiungere dello scalino successivo, tuttavia, le cose iniziano a farsi decisamente più complesse: viene infatti servito a ciascun concorrente un Chili di Serrano rosso intenso, originariamente coltivato negli stati messicani di Puebla e Hidalgo per la specifica finalità di usarlo nell’insalata piccante pico de gallo o nella salsa. Stiamo parlando di un gustoso 15-20.000 sulla scala di Scoville, cifra significativa che vediamo riflettersi nel comportamento e la sudorazione dei presenti. Ma come si dice, getta il cuore oltre la siepe e corri dietro all’ardilla listada, in cima agli alberi distanti…

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La zucca ripescata dal baratro dell’estinzione

Cool Old Squash

Una storia…Possibile. Aprire l’equivalente americano di una tomba etrusca, nei territori di un’antica riserva, e ritrovare in mezzo ai resti un piccolo vaso di ceramica, attentamente sigillato e risalente al tempo trascurabile di circa 800 anni fa. Per poi scuoterlo, e sentire che al suo interno c’era qualcosa. Che si muove-va. Certo, di fronte all’ampia corsa delle ruota dei secoli e millenni, un simile intervallo cronologico inferiore a un soffio di drago può sembrare relativamente poco significativo, ma pensate a quante specie di animali e piante, in un simile periodo, hanno trovato il modo per estinguersi, privandoci per sempre della loro vista e/o sapore. A fronte di simili considerazioni, quale sarebbe la cosa migliore da trovare dentro a un tale misterioso recipiente, se non semi, semi belli grossi e ancora pronti a fare quello per cui erano nati. Esattamente come il giorno della loro sepoltura, all’altro lato di una siepe metaforica così tremendamente alta, quanto ardua da potare.
Nella serie di romanzi e film Jurassic Park, gli scienziati ricreavano gli antichi mostri preistorici a partire da minuscole quantità di sangue, ritrovate all’interno dell’ambra assieme alle zanzare. Ora, questo approccio nella realtà dei fatti non potrebbe funzionare, per diverse quanto valide ragioni. Punto primo: alla morte di una cellula, questa inizia a disgregarsi. Microbi ed enzimi, lavorando alacremente, si assicurano che ogni minima parte costituente venga riciclata nella progressione naturale delle cose, lasciando ben poco di integro ed utilizzabile per una clonazione. Punto secondo: anche se si riuscisse nell’improbabile impresa, resterebbe il problema di far sviluppare l’embrione all’interno di un uovo, le cui caratteristiche biologiche restano tutt’ora largamente ignote. Non è certamente percorribile, ad esempio, la strada del trapiantare un embrione di coccodrillo all’interno di un guscio di gallina, o viceversa; troppo diversi risultano, nei fatti, i nutrienti contenuti all’interno delle rispettive micro-camere d’incubazione. A meno di praticare l’alchimia, ottenendo qualche chimerica creatura, che forse sarebbe stato meglio riservare alle cronache e i bestiari risalenti al Medioevo. Morire, ibernarsi e prepararsi a superare i secoli, attraverso l’impiego di una forma simile ad un minerale. Per tornare, un giorno, a popolare le distese erbose del pianeta? Non importa quanto sia affascinante in teoria un simile proposito, le forme di vita appartenenti al regno animale (e superiori a qualche micron di stazza) semplicemente, non funzionano così. Il che implica inevitabilmente, leggendo tra le righe, che nel caso in cui dovesse sopraggiungere un qualche tipo di nuova catastrofe ecologica planetaria, le uniche creature che potremo portare con noi oltre la soglia dell’apocalisse saranno quelle in grado di sopravvivere contando sulle proprie forze, ovvero tutte quelle risorse passive che vengono guadagnate grazie al succulento frutto dell’evoluzione. Lungamente, faticosamente maturato, esattamente come quello della Cucurbita Maxima, una pianta che noi definiamo, nella sua versione per così dire addomesticata, con il termine generico di “zucca”. Ma ce n’erano di molti tipi, prima che le leggi del mercato imponessero la sopravvivenza di soltanto quelle particolari varianti in grado di dimostrarsi più gustose, resilienti e prolifiche nei campi. In particolare questo nobile vegetale, che proviene dalla Cucurbita andreana del Sudamerica, fu trasportato in epoca pre-colombiana attraverso molteplici scambi commerciali, fino a giungere nei territori degli odierni Stati Uniti e Canada. Dove le diverse tribù native, tra cui gli Arikara del North Dakota, i Naticoke del Delaware, i Menominee del Wisconsin… Ne selezionarono particolari esemplari, ottenendone nei rispettivi territori una versione specifica e personalizzata per i propri gusti e le necessità locali. Ma mentre l’erba cresce, i contesti mutano i propri presupposti, e quelle che erano delle tribù del tutto indipendenti finiscono per integrarsi, dando vita a nuove stratificate realtà sociali. Il che può dirsi spesso positivo, tranne che per un piccolissimo dettaglio: a tendenza delle rispettive zucche ad ibridarsi tra di loro, se soltanto i coltivatori dimostrano l’ardire, o l’impudenza, di piantarle a meno di un chilometro di distanza. Poco male? Come si dice, panta rei: tutto scorre. Ma è indubbio che se in un luogo un tempo c’erano due piante, e adesso sopravvive unicamente la risultanza del loro accoppiamento, qualche cosa è andato irrimediabilmente perso. A meno che non si verifichi un mirabolante colpo di fortuna…

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Il pane cotto in un cilindro sotterraneo

Tajik Bread

Un altro click, l’ennesima finestra che si apre su di uno scenario di vita comune, ancora una volta proveniente da contesti quotidiani infinitamente diversi dal nostro. Eppure, c’è una strana familiarità in questa serie di gesti antichi e calibrati. Quasi come se, pur non avendo mai provato l’esperienza di fare il naan, principale cibo dell’Asia meridionale, in un certo senso ne conoscessimo il sapore. Frutto dell’incontro conviviale e la proficua collaborazione, valori di primo piano nell’etica di qualsiasi società, non importa quanto distante dal punto di vista geografico e/o culturale. In un silenzio quasi religioso, probabilmente motivato anche dalla presenza delle telecamere, Shamsullo Dustov, abitante del Tajikistan, si coordina con una sua parente o vicina di casa (il nome non ci è pervenuto) nel dimostrare il corretto impiego del tandooruno strumento di cottura che costituì, fondamentalmente, il passaggio intermedio tra un semplice buco nel terreno con il fuoco dentro e il forno orizzontale in muratura, ma che tuttavia può dirsi, in molti contesti delle sue regioni d’origine, una versione più essenziale ed efficiente di quest’ultimo elemento. Sufficiente alla creazione di un vasto ventaglio di delicatezze, tra cui la più famosa in Occidente resta ad oggi il pollo speziato di colore rosso fuoco, proveniente dall’India del Punjab, che da un tale arnese prende il nome di tandoori. Ma basta spostarsi di qualche chilometro da quel particolare luogo, per scoprire come il particolare cilindro di materiale ceramico refrattario o metallo sia sinonimo di un gusto del tutto differente, che potrebbe dirsi il fondamento stesso della cucina del Tajikistan e dell’Uzbekistan, delle genti Azere e dei Curdi, e che da questi luoghi fu esportato alla maggiore parte dei paesi confinanti. Il pane lievitato fatto con la maida, una farina molto fine che da noi si usa soprattutto in pasticceria, ha un nome che viene impiegato senza limitazioni in molte lingue, ma un’origine etimologica che ne collocherebbe l’origine tra le genti dell’odierna Iran: la parola persiana nan, infatti significava cibo, e ne conosciamo diverse varianti attraverso i secoli di storia successiva dell’aria semitica, con derivazioni Partiche, Balochi, Sogdian e Pashto. Eppure non c’è luogo tra quelli citati, e forse nell’intero mondo conosciuto, in cui il semplice pane riceva un posto di maggiore pregio sulla tavola, e una più alta considerazione, che in questo paese confinante con la Cina, stretto fra due catene montuose e privo di sbocco sul mare (fosse stato questo, pure Caspio oppure Nero). Una terra relativamente poco fertile, che negli anni recenti, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, ha visto un significativo calo della sua produzione agricola e industriale. E dove quindi, l’abbondanza alimentare in una casa è spesso riservata ad occasioni speciali, come feste, riunioni di famiglia e matrimoni.
La versione del naan che ci viene mostrata nel presente video, in effetti, così grande ed attraente, è quella definita patyr, la cui parte superiore viene attentamente decorata, prima della cottura, tramite l’impiego di posate o un’attrezzo specifico, detto nonpar. L’effetto finale, nel caso di preparatori esperti che si applicano per dei tempi particolarmente lunghi, è simile a quello di un merletto lavorato, che stimola l’occhio ancora prima dell’appetito, e la dice lunga sull’alta considerazione in cui queste genti tengono i loro ospiti e parenti. Al termine di un simile passaggio, privo di una funzione pratica eppure assolutamente necessario, il pane viene finalmente infornato. Ed è forse proprio questo gesto, quello che potrebbe rimanerci maggiormente impresso. In più di una maniera!
Ci sono molte versioni del forno tandoor, ed altrettanti metodi d’impiego. In quello tradizionale per la preparazione del naan, tuttavia, non è previsto l’impiego di alcuna superficie di sostegno o barriera tra il cibo e le fiamme vive del carbone, che possono raggiungere anche la temperatura di 480 gradi. Il cibo viene infatti, letteralmente sospeso. Si, ma come? È presto detto. Nel momento saliente del video, lavorando rigorosamente a terra, S.Dustov prende la sua ampia frittella e la depone su un cuscino piatto dalla forma circolare. Quindi, praticati alcuni tagli perpendicolari sull’impasto, prende tutto quanto e lo solleva, si avvicina al buco nel terreno. Tra il probabile stupore degli spettatori internettiani, si china verso l’apertura e sembra stare per gettarvi dentro il quibus laboriosamente preparato, quando all’improvviso…SPLAT. Un colpo di mano, frutto di anni di esperienza, basta a scaraventare l’insieme sulla liscia parete del forno. Dove, volente o nolente, resterà saldamente appiccicato, fino al risuonare metaforico di un timer di cottura, tramandato dalla prima mente agile che concepì un simile metodo di preparazione, così apparentemente contro-intuitivo. La che verrebbe anche da chiedersi, ma il naan, non cade dentro proprio MAI?

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L’esperienza culinaria del brodo di pietra

Caldo de Piedra

Le tradizioni alimentari di un popolo, molto spesso, viaggiano assieme alla diffusione della sua lingua. E fu proprio in funzione di ciò che molti, tra i piatti e gli ingredienti della cucina spagnola, finirono per fare il salto dell’Atlantico assieme alle navi dei Conquistadores. Venendo annoverati nel XVI secolo con la relativa terminologia ai margini di quell’ampio repertorio, vecchio di oltre un millennio, che proprio in quegli anni iniziava ad essere ridefinito con la vaga generalizzazione di “cucina messicana”. Ma mentre l’opposto tendeva ad avvenire saltuariamente, con alcune innovazioni come la tortilla o il peperoncino da chili che donavano un tocco di originalità ai pasti della nuova classe dirigente europea, c’era un intero mondo di antiche tradizioni regionali, custodite gelosamente dai nativi e praticate in gran segreto, come prerogativa di una preziosa identità sociale. E se questo era vero per tutta l’area sud dell’America Settentrionale, tanto maggiormente si applicava alla regione di Oaxaca, sito nel meridione ed a poca distanza dai confini di Belize e Guatemala. Il cui territorio inaccessibile, ricco di foreste, fiumi e altre barriere naturali, aveva favorito fin dalla Preistoria la formazione d’innumerevoli culture indipendenti, talvolta formate da centinaia di migliaia di persone, qualche altra alcuni piccoli villaggi, uniti unicamente dall’idioma e qualche scambio commerciale d’occasione. Ma c’erano anche lati positivi, in questo vivere in totale isolamento. La cultura Chinanteca, ad esempio, poté sopravvivere, virtualmente integra nei suoi remoti presupposti, all’espansione di due degli imperi più aggressivi e virulenti nella storia dell’uomo, di cui il primo coloniale, che giunse con le navi e le armi di un diverso Mondo. Mentre la coda del secondo, nei fatti essenzialmente coéva, colpiva ferocemente le regioni limitrofe ai suoi centri di potere, distruggendo tutto quello che non fosse Azteco. Ma immaginate adesso per un attimo di vivere, fin da tempo immemore, presso le sorgenti montane del fiume Papaloapan, nella regione prevalentemente boschiva in cui l’unica grande città è San Juan Bautista Tuxtepec (S. Giovanni Battista della Collina dei Conigli). E di non abitare in effetti, in una di tante palapa o nell’occasionale, timida casa in mattoni, ma nel Nord Est di un tale luogo, dove la strada e una soltanto, ed in effetti, fu costruita molto successivamente. Chi mai potrebbe conquistarvi? Sulla vie di quali mire espansioniste, nei fatti, potrebbe trovarsi la vostra gradevole esistenza? Così le genti dell’odierno villaggio di San Felipe Usila, fin da tempo immemore, sono rimaste libere di fare quello che volevano. Praticando, via dagli occhi della collettività invidiosa, le loro antiche tradizioni e gastronomie.
Tra cui questa qui, del cucinare quello che oggi prende il nome di caldo de piedra, un particolare piatto a base di pesce, verdure locali e gamberi, che trova la sua connotazione maggiormente particolare nell’impiego di un singolo ingrediente, la cui inclusione costituisce una parte irrinunciabile del processo di preparazione: l’inserimento di una o più pietre di fiume locali, scelte tra quelle particolarmente lisce, pulite e della grandezza approssimativa di una palla da baseball o un uovo di gallina. Perché lo fanno, vi apparirà ben presto chiaro osservandoli all’opera, durante uno dei rutilanti convìvi (in realtà più simili a pic-nic) che i gruppi di pescatori locali organizzano nella stagione primaverile, principalmente durante il mese di maggio. Il tutto si svolge attorno a un particolare macigno, con un pratico incavo nella parte superiore. Che contrariamente all’apparenza, non è affatto frutto di un naturale processo d’erosione, ma un qualcosa di scavato ad arte, tramite l’impiego di rudimentali attrezzi diamantati, dagli antenati di questi stessi uomini, con la precisa intenzione di cuocerci dentro il cibo. È una scena che, vista con l’occhio dei moderni, potrebbe facilmente lasciare basiti: ecco dei consumati gourmet, per quanto appartenenti a una visione differente del cibo, intenti a disporre con trasporto ingredienti come l’aglio, il cilantro e il coriandolo, l’erba dell’epazote, i peperoncini da chili… Dentro a un buco, sommariamente pulito con l’aspergimento di qualche manciata d’acqua di fiume. E mentre preparano la base, mettono quei sassi già citati sopra un fuoco intenso, lasciando che si scaldino fino al calor rosso. Tali oggetti incandescenti, quindi, vengono presi con delle apposite coppie di bastoni, poi gettati nel brodo, assieme ad una parte del pescato. La cottura di un tale apparato, come potrete facilmente immaginare, si completa in tempo estremamente breve.

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