L’esercito dei graffitari di Los Angeles contro le svettanti torri del silenzio californiane

Una macchina perfettamente collaudata in cui ogni persona, ciascuna singola norma, le diverse cognizioni di contesto tendono a collaborare nell’ottenimento di un risultato duraturo e importante. Questo può costituire, in un certo senso, l’amministrazione di un grande centro urbano come la seconda città più popolosa degli Stati Uniti con una popolazione quasi equivalente a quella di Roma, sommata a Milano. Così è quasi sempre con le migliori intenzioni che una di quelle entità tentacolari, spesso multinazionali e in grado di contribuire con un nuovo grattacielo ai mari tempestosi di vetro e cemento aprono i propri cantieri di fronte al pubblico non propriamente interpellato degli abitanti. E se le cose prendono una piega inaspettata, allora cosa? Dinosauri senza una voce giacciono incompleti eternamente, finché il tempo e l’incuria, nel punto di svolta fatale che costituisce un danno per l’immagine e il decoro, non determinano l’esigenza di tornare ad uno stato di grazia? Certo, in periferia. Diverso il caso in cui ciò tenda a concretizzarsi dall’altro lato della strada di una delle arene e palazzetti dello sport più famosi del paese. Tra proprietà immobiliari e terreni dal valore spropositati che rientrano nella particolare sfera del DTLA (il Centro). Un luogo in cui determinati tipi d’ingiustizie, che si tratti d’abusi o soprusi, tendono a venire presi in mano dalla pubblica opinione. Perché possano, se vogliamo, “risolversi” da soli.
La situazione ha cominciato dunque a palesarsi, degenerando progressivamente, con data di partenza nei primi giorni di questo febbraio 2024 sulle alte pareti della Oceanwide Plaza, il cantiere lungamente abbandonato di un gruppo di condomini da 504 unità residenziali + un albergo con 184 stanze. Ormai diventato una vista familiare per la gente di qui, nell’attuale stato derelitto e dolorosamente aperto alle intemperie del mondo. Finché coloro che passavano lungo l’arteria stradale spaziosa e rapida di Figueroa Street, scrutando casualmente verso l’alto, iniziarono a scorgere qualcosa di non totalmente inaspettato. Qualche tag variopinta, le tipiche firme abusivamente prodotte dei cosiddetti artisti di strada, moderni guerriglieri fuorilegge e fuori dall’ordine costituito, latori di proteste de facto nonché considerati con valide ragioni degli avversari della pace laboriosamente acquisita. Quindi altre che continuavano ad aggiungersi, finché quasi ciascuno dei 49 piani della torre più alta, ben presto seguita dalle sue vicine, non hanno continuato la propria rapida ed inusitata trasformazione in un museo verticale all’aperto. Haarko, Shaak, Rakm, Naks, Tolt, Tonak e via di seguito, uno per ciascun piano, si erano premurati di marchiare il territorio derelitto a nome proprio e degli altri, facendosi i palesi portavoce di un possibile intento di ribellione comunitaria. Giustizia… Era stata fatta? Beh, dipende in larga parte da quale sia la vostra esatta cognizione in materia…

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L’uomo che aggirò per un secolo le regole del design, esaltando la verità primordiale della sfera

In uno dei fraintendimenti più improbabili dei tempi contemporanei, ricorre su Internet la presentazione di una serie di eccezionali fotografie. Automobili, camion, locomotive ed aerei dalle forme straordinariamente eclettiche, una serie di creazioni meccaniche degne di uscire dal repertorio di un disegnatore per il cinema di fantascienza. Qui un capolavoro alato con la grazia innata riconducibile a quella di un cigno, ma dotato di una serie impressionante di ugelli per i motori a razzo. Là un treno simile a un pesce siluro, concepito per rientrare su se stesso in caso d’incidente salvando la vita del conduttore. E che dire della motocicletta dotata di una carena talmente avvolgente, che il suo guidatore svanirà effettivamente all’interno…
Fotografie di prototipi, progetti e l’occasionale reperto prodotto in serie accompagnate, in maniera evitabile, dalla citazione del nome di colui che seppe immaginarli, Luigi Colani. “Ah, questi designer italiani!” Esclama allora immancabilmente qualcuno nella discussione: “Sempre i soliti anticonformisti, irragionevoli, bizzarri, curiosi, anomali, pluralisti, straordinari cercatori di peculiarità divergenti […]” Il che non tende a suscitare nella maggior parte dei lettori della penisola un certo senso di latente sorpresa. Come sarà mai possibile, in effetti, che un nostro connazionale di tal calibro non risulti essere maggiormente noto nel suo stesso paese? La risposta alla domanda è in realtà piuttosto semplice e trae l’origine dal fatto che l’individuo in questione, nonostante il suono del proprio nome e cognome, non è affatto italiano bensì tedesco. E discendente di curdi immigrati in Svizzera da parte di padre, polacchi da parte di madre. Il che se vogliamo costituisce anche l’introduzione al discorso da un’angolazione tanto corretta quanto insolita, divergendo dal classico elenco delle molte memorabili creazione realizzate nel corso di una lunga ed articolata carriera: la sua infanzia. Poiché Colani ha sempre amato raccontare, fino ai 91 anni della sua dipartita nell’anno 2019, del modo in cui aveva trascorso l’infanzia già imparando a saldare il metallo, intagliare il legno e plasmare l’argilla, dietro la singolare regola che avrebbe potuto avere qualsiasi giocattolo… Se soltanto si fosse premurato di costruirlo da solo. Così che entro gli otto anni di età, assieme ai suoi tre fratelli, era già titolare di un’incredibile collezione d’immaginifici veicoli idealmente capaci di muoversi attraverso i tre regni di cielo, acqua e terra. Una passione destinata a concretizzarsi ulteriormente a partire dall’anno 1946, quando dopo aver partecipato alla guerra come addetto all’artiglieria antiaerea nel Münsterland (Vestfalia) si iscrisse all’Università delle Belle Arti di Berlino, per studiare cultura e pittura. Esperienza quest’ultima destinata a dimostrarsi per lui drammaticamente insoddisfacente, come spesso avviene per coloro che hanno anteposto l’individuazione della propria visione d’artista all’incontro con i professori di materie creative. Per cui decise di trasferirsi e frequentare una scuola di progettazione aerodinamica di Parigi, lavorando in miniera per pagarsi le lezioni autonomamente. Un trampolino di lancio destinato ad influenzare l’intera parte rimanente della propria esistenza. Giacché già nel 1954 lo ritroviamo, all’età di soli 26 anni, che progetta notevoli ed estremamente funzionali carrozzerie per l’industria automobilistica…

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La “spinosa” condizione di chi abita dentro a un kaktus di Copenaghen

Uno dei più ricorrenti diagrammi nelle campagne contemporanee di sostenibilità ambientale e transizione ecologica è quello che prevede una collezione di figure umane all’interno di schematizzate rappresentazioni dei veicoli che costituiscono la trama e l’ordito del tessuto urbano. Automobili, in larga parte, motocicli, qualche taxi e in genere un singolo autobus trasparente, con un significativo carico di passeggeri. Questo con lo scopo di mostrare la differenza: da una parte 40 persone ordinatamente in piedi e sedute all’interno di un singolo, vasto abitacolo. Dall’altro, una pari collettività distribuita in altrettanti mezzi di trasporto, con conseguente aumento non soltanto dell’impronta carbonifera, ma anche del caos, gli ingorghi, i problemi di parcheggio etc. Al che potrebbe scorgere spontanea la domanda: perché mai la stessa etica di ragionamento, al punto di svolta a cui siamo arrivati, non dovrebbe essere applicata anche agli spazi abitativi? Perché mai 200 appartamenti necessitano di 200 lavatrici, 200 cucine, 200 sale hobby, 200 soggiorni… Soprattutto quando queste due ultime categorie di amenità, per loro stessa natura, beneficerebbero di essere condotte all’interno di spazi comuni. Giungendo possibilmente a coinvolgere, per loro stessa natura, altri gruppi di persone con la stessa esperienza o visione del tempo libero. È l’esperienza del vivere comunitario dunque, quella al centro dell’ultima creazione dello studio BIG di Bjarke Ingels proprio nella città d’origine e base operativa dell’architetto di fama internazionale che, più di ogni altro, sembrerebbe aver saputo mantenere tematiche d’introspezione ed analisi sociale al centro della propria attività creativa degli ultimi anni. Così come efficientemente dimostrato in questo nuovo approccio all’esigenza di far vivere persone in spazi progressivamente minori. Denominato per l’aspetto estetico del primo esempio costruito ad Esbjerg nel 2019 (nome ufficiale: A Place To) con l’appellativo di torri Kaktus, in riferimento all’insolita e distintiva struttura in larga parte prefabbricata, capace di prevedere un succedersi trasversalmente avvolto su se stesso di balconate triangolari. Come “spine” per l’appunto, della più riconoscibile categoria di piante succulente. Allusione biomimetica che appare nei fatti molto meglio realizzata per la seconda coppia di torri gemelle della capitale danese, alte ed affusolate come altrettanti fusti cilindrici della tipica piantina Echinopsis da esporre in appartamento. “Avremmo potuto chiamarlo palazzo porcospino o riccio di mare” Scherza con uno stile ingenuo ed accattivante il sito ufficiale per gli aspiranti affittuari all’interno della FAQ di supporto “Ma amiamo davvero queste adorabili piante!” Oh, my! Mentre meno evidenza viene attribuita, di contro, all’effettiva logica e concezione di questi edifici costituiti interamente di “appartamenti per studenti” dalla dimensione media di una trentina di metri quadri, disposti come spicchi di un frutto attorno ad una colonna centrale di sostegno contenente gli ascensori e le scale. “A volte potreste anche salire gli 80 metri a piedi o correndo, sarebbe un ottimo esercizio per tenersi in forma.” Ah, ah. Prosegue scherzosamente il botta e risposta ipotizzato dagli addetti al marketing dell’amministrazione. Con una familiarità stranamente reminiscente di un linguaggio che potremmo definire vagamente orwelliano…

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Waveroller sotto i mari: i più avanzati dei generatori ormai prossimi allo schieramento europeo

In principio l’uomo inventò il fuoco; questo fu l’inizio, e la fine, di tutti i suoi problemi. Poiché non esiste presa di coscienza maggiormente significativa di quella sull’applicabilità ad ampio spettro del principio secondo cui la sopravvivenza può dipendere ed invero beneficiare dal consumo produttivo della materia, fecondo carburante al treno inarrestabile del progresso. Un lavorio costante, frutto di una relazione con la natura che non era più simbiotica, bensì antagonistica, conflittuale. Ove la costruzione di un particolare tipo di prospettive era diventato l’annientamento, almeno in linea teorica, di altre. Millenni dopo la situazione è rimasta fondamentalmente del tutto invariata: poiché non è forse vero che lo sfruttamento del pianeta tramite l’impiego di carburanti fossili ha individuato nella fiamma, più d’ogni altra cosa, l’elemento imprescindibile da cui deriva l’energia che instrada e sostiene la moderna civiltà tecnologica? Il che in verità può essere lo spunto di una riflessione importante. Poiché come la fisica c’insegna come ogni processo può essere generalmente trasformato in altri, resta innegabile la nostra collocazione universale al centro di una significativa convergenza d’impulsi. Ovverosia la spinta pressoché costante degli elementi meteorologici e terrestri, l’uno contro l’altro ed a ridosso di ciascun principio contrapposto, che incidentalmente fu al margine del moto stesso dei continenti. E tutt’ora continua, indefessa, come l’incessante moto ondoso degli oceani di cui fanno parte. Il che ci porta, dunque, all’idea. Quella nata dalla mente fervida del finlandese Rauno Koivusaari, già trent’anni a questa parte un esperto sommozzatore con significativi interessi ed imprese completate nel recupero di relitti navali sommersi. Navi ormai da tempo diventate parte dei fondali marini, come quella incontrata nel 1993 che per un particolare gioco dinamico dei flussi sottomarini vedeva un grosso boccaporto muoversi costantemente avanti e indietro, avanti e indietro nella corrente. Tanto che: “Interessante” egli pensò “Qualcuno potrebbe usarlo come metodo per generare energia elettrica.” Come una pala eolica sommersa… Una sorta di… Pala idrica? Di sicuro, avrete già sentito parlare dell’oceano utilizzato come fonte sostenibile benché si parli più frequentemente di turbine in grado di traslare il moto ricorrente delle maree. Non che esperimenti precedenti nello sfruttamento del più continuo e denso flusso delle onde stesse siano d’altronde privi di precedenti, con il primo esempio in materia brevettato nel 1799 a Parigi dall’inventore Pierre-Simon Girard e suo figlio. Per non parlare delle centinaia di luci e radiofari di navigazione create dal giapponese Yoshio Masuda, alimentati da null’altro che il moto angolare di una zattera ancorata stabilmente al fondale marino. Ma l’elettricità del moto ondoso come concetto ha sempre presentato non indifferenti problematiche logistiche, relative alla corrosione dei suoi componenti per l’effetto dell’acqua marina. Oltre al nesso fondamentale dell’intera questione: come rendere economicamente efficiente la sua implementazione su larga scala, soprattutto rispetto alle concorrenti metodologie sostenibili, quali l’eolico e l’energia solare? Caso vuole che lo stesso Mr Koivusaari, come avrebbe ampiamente dimostrato nel corso degli anni a venire, avesse più di un valido suggerimento in materia…

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