Il glorioso carciofo che siede sul trono del Regno Floreale Sudafricano

Avvistata per la prima volta dai botanici al seguito delle spedizioni europee che dovevano doppiare il Capo di Buona Speranza attorno alla metà del XVII secolo, il fiore spettacolare di questa pianta suscitò immediatamente la tentazione di scambiarlo per qualcosa di assolutamente diverso. Ed è così che a un tale membro della grande famiglia delle Proteaceae, famose per la notevole varietà di forme, fogge e colori con cui hanno l’abitudine di presentarsi, venne affibbiato il nome latino di cynaroides, dal genus commestibile Cynara, cui appartiene il più saporito globo stagionale della tipica cucina mediterranea. Carciofo di cui conosciamo, primariamente la forma scagliosa lontana dall’ora della maturazione, e conseguente apertura dei sepali ricoperti da una fitta rete di peli viola e con cui non sussiste alcun grado di parentela, per quanto concerne questa presenza dall’altezza raramente superiore al metro, ma caratterizzata da una delle infiorescenze più spettacolari dell’intero mondo vegetale. Globulare con una forma vagamente paragonabile a quella di una cipolla, ricoperta di strali fibrosi e incoronata da una serie di aculei a raggera, non eccessivamente diversi da quelli di una corona. E non a caso un altro dei nomi utilizzati per questo fiore è quello di protea “Reale” nella sua accezione di singolo membro più formidabile ed appariscente del suo intero ambiente di appartenenza, fatto di regole e condizioni ecologiche estremamente distintive. Immaginate, a tal proposito: una sottile striscia di macchia Mediterranea (intesa come bioma scientificamente riconoscibile) posta nell’estremo meridione del continente africano, dove una diversa evoluzione pregressa ha portato allo sviluppo attraverso i secoli di un contesto geograficamente all’opposto del cosiddetto regno floreale paleartico, il più vasto e ragionevolmente omogeneo dei cinque contesti regionali in cui è stato suddiviso il mondo. Il che dimostra, inerentemente, la maniera in cui la convergenza dei tratti ereditari può arrivare fino ad un certo punto, mentre sono le effettive linee genetiche trasmesse in ciascuna specie, a determinarne l’effettivo aspetto e caratteristiche ecologiche immanenti. Ed è per questo che la Protea cynaroides, di suo conto, viene inserita nel gruppo ideale delle piante cosiddette antartiche, in considerazione dell’originale supercontinente Gondwana, formato attorno a 690 milioni di anni fa dalle attuali masse del Sudamerica, l’Africa, il Medio Oriente, l’Australia e quella che per l’appunto, ad oggi costituisce l’area glaciale del Polo Sud. Una divergenza dai crismi a noi noti pienamente apprezzabile nel suo aspetto mostruoso e quasi preistorico, capace d’evocare possibili florilegi di mondi e dimensioni alternative alla nostra.
Considerato il fiore nazionale del suo paese fin dal 1976, il King Protea s’inserisce nondimeno in una serie di molte possibili varietà appartenenti alla stessa famiglia, ciascuna caratterizzata da una forma particolarmente riconoscibile ed affascinante: vedi le P. neriifolia coi fiori che sembrano dipinti, o la P. longifolia dalla forma notevolmente aerodinamica ed ancora il genere confinante delle Leucospermum, dalla cosiddetta forma a “puntaspilli” che sembra pronta per trovar l’impiego all’interno della bottega di un sarto. Il che rientra a pieno titolo nelle caratteristiche maggiormente rappresentative della macchia delle cosiddette fynbos o in lingua locale “fini cespugli” benché la maggior parte delle piante costituenti appartengano al gruppo morfologico delle ericacee, senza neanche entrare nel merito delle significative eccezioni come la suprema sovrana di tale ambiente. Per un totale di 8.550 specie al conteggio attuale in un’area di circa 89.000 Km quadrati, riuscendo in tal modo a superare per densità centri della biodiversità globale come la giungla malese. E rivaleggiare a pieno titolo il prototipico polmone del mondo, la vasta foresta pluviale dell’Amazzonia. Benché in un così ampio catalogo floreale, alla base di un prospero eco-turismo fondamentale per l’economia locale, sia spesso proprio l’ideale carciofo delle origini, a rimanere maggiormente impresso nella memoria dei visitatori…

Leggi tutto

La seta creata con il gambo del fiore che accompagna le maree

Esiste a questo mondo, forse, una creatura dal destino più infelice del baco? Nato al fine d’inseguire, ricercando il nutrimento, la possibile promessa di annientare la sua essenza, nella gabbia del suo bozzolo, auspicando la trasformazione alata che costituisce l’anticamera della riproduzione. Ma invece raccolto da mani sconosciute in mezzo ai verdeggianti campi di gelso, per essere bollito nel suo involucro. Ed ucciso, senza nessun tipo di rimorso, prima di poter forare quel tessuto che l’evoluzione gli ha insegnato ad intrecciare. Strade alternative, d’altra parte, non esistono ed è una forma d’oro, quello che produce, utile a creare un’ampia serie d’indumenti mantenuti in alta considerazione presso tutte le culture che hanno avuto la fortuna d’indossarli, ammirarli, metterli sul piedistallo della moda. Persiste d’altra parte, sempre e in ogni caso, quel sentiero alternativo d’altre stoffe, potenzialmente altrettanto valide per assolvere allo scopo di creare un guardaroba valido in ogni occasione; si, ma quali? Il lino è ruvido al confronto. Il cotone, morbido ma privo di sostanza. La lana spessa ed inadatta ai climi caldi… Ciò che resta, come nel mestiere di chi cerca verità nascoste, è soltanto l’impossibile, che diventa praticabile mediante il giusto tipo di esperienze. Vedi quella imprenditoriale, produttiva e commerciale di Phan Thi Thuan, la donna vietnamita con oltre 60 anni di esperienza nel campo tessile che ha creato un nuovo tipo d’impresa nel territorio periferico della città di Hanoi. Fondata sul rimorso e il senso di fastidio nati dall’osservazione di una pratica assai diffusa. In questa terra umida, dove il corso del fiume rallenta in modo sufficiente alla creazione di acquitrini, presso i quali ampie fasce agricole della popolazione hanno da sempre ricercato la coltivazione intensiva della pianta Nelumbo nucifera, normalmente nota con il nome di loto sacro. Ampiamente utilizzata nella cucina e nei rituali buddhisti dell’intero Sud-Est Asiatico nel quale numerose ricette esistono per le sue foglie, i rizomi, i semi e naturalmente i petali rosa del grande fiore, tanto decorativo quanto utile ad infondere un sapore ricco a particolari varietà di tè coreani. Ciò che Phan Thi aveva tuttavia avuto modo di notare, fin dalla giovane età, era il modo in cui i gambi della pianta venivano sistematicamente accantonati, venendo lasciati a marcire a lato della strada senza nessun tipo di rispetto nei confronti della natura. Il che ebbe modo di aprire, la sua fervida mente, ad una possibilità letteralmente mai studiata nel suo paese: “E se spezzassimo quel corpo vegetale, per estrarne il contenuto segreto, per poi farlo filare dentro l’arcolaio e infine lavorarlo tramite il telaio a pedali?”
Arti nuove nascono dalla necessità di perseguire un mezzo di sostentamento continuativo nel tempo. E qualche volta, antichi metodi vengono scoperti nuovamente, nell’acquisizione di una strada alternativa per l’acquisizione del benessere all’interno dell’intera società in paziente attesa. Ciò detto, non è propriamente semplice sostituire in essere, mediante il frutto della fioritura vegetale, il complesso metodo del baco per creare laboriosamente la sua seta…

Leggi tutto

L’incombente distopia situazionale del palazzo più imponente a Macao

Scaturendo dal suo massiccio uovo dorato, la torre di cristallo emerge tra le nubi con stranissimo profilo a martello, alto esattamente 256 metri. Come un fiore, come un Faro, come la distanza tra il dire e il fare. Oltre i calibri dei condomini anneriti dallo smog, situati ad un’elevazione comparabilmente limitata dal livello stradale, il suo profilo sfrangiato sembra non soltanto voler grattare il cielo, ma tagliarlo via letteralmente, dallo scorcio che riesce a profilarsi oltre il punto di fuga prospettico dal surrealismo e un certo livello di minaccia latente.
Nel giorno in cui l’espressione programmatica e corrente del cyberpunk sta per ritornare alla ribalta grazie alla pubblicazione dell’atteso videogioco eponimo, è difficile non ricordare come l’intento di partenza di quel movimento, alle sue origini letterarie degli anni ’80, fosse mirato a evidenziare una serie di elementi in forte contrapposizione: la ricchezza delle multinazionali rispetto all’esigenza di arrangiarsi per gli hacker e i samurai delle strade derelitte; la tradizione delle antiche discipline orientali contro la più sfrenate soluzioni digitali dei tempi moderni; il pessimismo, quasi dickensiano, per intere generazioni perdute di fronte alla promessa di un futuro impossibilmente migliore. Transumanismo e cibernetica a parte, tuttavia, sarebbe disingenuo voler fingere che almeno dal punto di vista visuale ed apprezzabile, tale intento segretamente didascalico non si sia rivelato anche profetico, in qualità di commento storico a tecnologie e tendenze che stavano iniziando a palesarsi, con estrema pervicacia, già un trentennio a questa parte, in alcune delle metropoli più variopinte ed interessanti dei nostri tempi. Vedi a tal proposito l’estremo sincretismo di Macao, la più longeva delle colonie europee in Asia, destinata a rimanere tale fino al 1999, prima di tornare in qualità di costola cinese nel Celeste Impero, con qualifica formale non diversa da Hong Kong. Se volessimo del resto riassumere in una singola espressione la fondamentale differenza tra questi due luoghi, potremmo anche scegliere d’utilizzare la singola espressione “gioco d’azzardo”, proibito presso l’isola ex-inglese, e permesso invece qui sulla penisola, che si affacciano a una manciata di chilometri sul palcoscenico del Mar Cinese Meridionale. Ma se la città rinominata dai portoghesi rispetto all’antica definizione di Àomén (澳门) può essere detta la monumentale realizzazione dedicata ad una tale basica pulsione degli umani, ciò è anche attribuibile alla singola figura e l’intento imprenditoriale del grande Stanley Ho, l’unico detentore per gli oltre 50 anni a partire dal 1961 di una licenza atta a costruire e gestire in tale terra la remunerativa struttura di un casinò. O parecchi, come sarebbe giunto a fondarne sotto l’etichetta della compagnia Sociedade de Turismo e Diversões de Macau (STDM) ancora oggi amministratrice di 22 tra le 41 siffatte istituzioni tra i confini della città.
Consultando tuttavia le fonti coéve, appare chiaro come verso l’inzio degli anni 2000 la splendente fama della “Las Vegas d’Oriente” stesse iniziando a sfumare assieme alla reputazione in essere, causa un graduale peggioramento e sovraffollamento di alcune delle strutture più rinomate, diventate luoghi di prostituzione e messa in pratica per alcune delle attività meno apprezzabili degli strati sociali in cerca di un facile, per quanto imprescindibile guadagno. Serviva quindi una ventata di rinnovamento che non fosse solamente dovuta all’apporto d’investimenti stranieri e tale metaforico fenomeno atmosferico avrebbe avuto modo di palesarsi, ancora una volta, grazie alla sapiente mano del suo più anziano amministratore. Così l’onorevole Dato Seri Ho, ormai detentore di uno dei titoli onorifici civili più elevati che possano essere assegnati ai non appartenenti di una casa reale, chiese ed ottenne il permesso di far costruire agli architetti di Hong Kong Dennis Lau e Ng Chun Man un qualcosa che potesse essere degno di rivoluzionare lo skyline, ed assieme ad esso le aspettative dei turisti, convergenti tra i dorati confini di Macao. E quel qualcosa sarebbe stato proprio, da molti e appariscenti di vista, l’impressionante Grand Lisboa Hotel.

Leggi tutto

La verità botanica sul fungo medico dei cavalieri di Malta

La tempesta di proiettili, spade e punte di lancia infuriò approssimativamente per un periodo di quattro mesi, nonostante il clima relativamente temperato dell’isola, finché al diradarsi delle nubi, e il provvidenziale sbarco della flotta mista spagnola ed italiana da Occidente, i soldati ottomani furono respinti da quel territorio strategico che nonostante il diritto storico da loro percepito, a partire dal 1310 era stato occupato dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di ritorno dalla Città Santa di Gerusalemme, che qui avevano costruito le loro imprendibili fortezze. Al sicuro contro chiunque, tranne gli oltre 40.000 uomini che esattamente 255 anni dopo sarebbero stati condotti fin qui da Solimano il Magnifico in persona, fermamente intenzionato a ricacciare tutta la cristianità entro lo spazio che il mondo aveva iniziato a definire “Europa”. Si trattò, dunque, di un confronto sanguinario, e dispendioso in termini di vite umane, durante cui molti dei circa 500 cavalieri, assistiti da una milizia composta da appena 6.000 combattenti ausiliari, restarono a più riprese feriti mentre impugnavano le armi con la forza della disperazione, dalle alte mura merlate degli insediamenti di Birgu, Sant’Angelo e San Michele. Una condizione che avrebbe coinvolto anche, verso le ultime battute della lotta, niente meno che l’ormai settantenne Jean Parisot (1495-1568) gran maestro dell’Ordine che si dice nel momento dell’insperato trionfo, giacesse tra lenzuola insanguinate in attesa della sua inevitabile dipartita. Se non che una volta tornati in possesso dell’isola, i suoi fedeli sottoposti poterono accedere alla roccia benedetta che si trovava a largo della vicina isola di Gozo e con essa il suo tesoro vegetale, offrendo al loro amato condottiero un’ultima speranza di avere in salvo la vita.
Misterioso, maleodorante, assai probabilmente magico; il “fungo” di Malta sembrava essersi guadagnato, attraverso le decadi trascorse, una meritata fama di miracolosa panacea di tutti i mali, grazie alla sapiente distribuzione da parte dei controllori militari della sua unica fonte acclarata presso le maggiori corti d’Europa, dove costituiva un dono degno dei sovrani più rinomati. Largamente noto alle popolazioni arabe e nordafricane con il nome di tartuth, poiché piuttosto comune alle più basse latitudini mediterranee, esso aveva infatti l’unico punto d’origine a portata di mano dei cristiani proprio in quel particolare scoglio, nella baia di Dwejra, le cui pareti erano state rese scivolose artificialmente al fine di evitarne l’eventuale furto da parte di coloro che aspiravano a ricchezze del tutto spropositate. Tra le doti fantastiche attribuite a una tale escrescenza semi-sotterranea, con l’aspetto rossastro, vagamente fallico e bulboso, possiamo citare: fermare il sanguinamento ed il vomito, curare le malattie a trasmissione sessuale, rinforzare la virilità e gli organi interni, bloccare l’ipertensione o la mestruazione irregolare. Egualmente utile a uomini e donne, tale bizzarra esistenza veniva quindi estratta con cura, sminuzzata e trasformata in una spezia, dal valore pari o superiore a quello dell’oro. E se a questo punto doveste sorgere in voi l’assolutamente condivisibile obiezione, secondo cui uno spesso sostrato micologico sia particolarmente difficile da spiegare, in uno scoglio dall’aria salmastra e battuto per 12 mesi l’anno dal cocente Sole meridionale, sarà indubbiamente il caso di chiarire come tutti i cavalieri, gli ecclesiastici ed i rinomati filosofi naturali di quei tempi avessero nei fatti compiuto un madornale errore; poiché ciò che oggi trova il nome scientifico di Cynomorium, un composto in lingua greca che allude al pene dei cani cui viene metaforicamente posto in associazione, non è in effetti un fungo nonostante l’apparente somiglianza esteriore, bensì il fiore di una pianta parassita assai particolare, concepito per attrarre l’interesse delle mosche verso il diabolico, dispendioso perpetrarsi del suo inquietante approccio alla vita…

Leggi tutto

1 3 4 5 6 7 10