Il grande albero di magma che lambisce il sottosuolo dell’isola di Réunion

Immaginate dunque la sorpresa degli scienziati, successivamente all’attivazione dei primi sismografi moderni a banda larga, nello scoprire come non tutte le onde dei terremoti viaggiassero alla stessa velocità. Ma piuttosto in punti definiti, volta dopo volta, subissero rallentamenti esattamente prevedibili, causando uno scaglionamento nella propagazione circolare del turbamento. Questo perché nessun tipo d’energia, per quanto primordiale e imprescindibile, può muoversi allo stesso modo indipendentemente dal materiale che la circonda. E là sotto, molti chilometri sotto la superficie della Terra, c’era un qualcosa in grado di opporre resistenza rispetto alla formazione di una serie di cerchi perfetti. Ci sarebbero voluti tuttavia parecchi anni, e formalmente fino alla proposta elaborata nel 1963 dal geologo canadese J. Tuzo Wilson, affinché s’iniziasse a comprendere la possibile ragione di una tale serie d’anomalie. Con l’ipotesi ambiziosa ma del tutto inconfutabile, che in determinati punti della geografia planetaria, dei veri e propri condotti attraversassero lo spesso strato tra il fondo del mantello e la crosta, all’interno dei quali roccia incandescente, e per questo fluida, risaliva costantemente verso la superficie. Radici dei vulcani, senz’altro, ma anche venature profondissime capaci di modificare la percezione stessa su cui possiamo basarci in relazione alla struttura stessa dell’unico corpo astrale che sappiamo essere stato in grado di ospitare la vita senziente. Con il tempo, ed analisi progressivamente più precise, saremmo giunti ad un quadro piuttosto chiaro ed approfondito della situazione, coerente ad una serie di regole fisiche del tutto ragionevoli e conformi alle teorie di partenza. Almeno, fino al progetto franco-tedesco denominato RHUM-RUM (Réunion Hotspot and Upper Mantle – Réunions Unterer Mantel) iniziato nel 2012 per approfondire l’esatta forma di uno dei punti di attività simica e vulcanica più rilevanti in assoluto. Il cui studio approfondito avrebbe dato vita alla metafora vegetale più gigantesca ed impressionante nell’intera storia pregressa della geologia umana. Un’effettivo Albero della Creazione, capace di agire come un ponte metafisico tra i mondi. Le cui ramificazioni (in più di un senso) stanno finalmente iniziando ad apparire chiare soltanto al trascorrere di un periodo di quasi dieci anni…
Veniamo a noi nello specifico, ovvero presso la parte occidentale dell’Oceano Indiano, nell’isola di lingua ed amministrazione francese situata 550 Km ad est del grande Madagascar, nota fin dal 1793 con il nome di Réunion. Oltre che per l’insistente possenza della sua attività vulcanica, perfettamente esemplificata dal temibile vulcano centrale di Piton de la Fournaise. Terra emersa situata in corrispondenza del tragitto compiuto, a partire da 71 milioni di anni fa, dallo spostamento progressivo della placca che sarebbe diventata un giorno il subcontinente indiano. Eravamo quindi attorno ai 66,25-66 mya quando, secondo gli studi effettuati sulla composizione e la stratigrafia del suolo, nella storia del pianeta sarebbe capitato qualcosa d’inusitato: l’accumulo di lava fusa in prossimità della superficie, attraverso il progredire di molti millenni pregressi, avrebbe raggiunto il punto critico di non ritorno. Per scaturire all’improvviso verso la parte meridionale dell’India, con la massima potenza, in un’area grossomodo corrispondente al territorio intero dell’Europa Centrale. Fu questa l’epoca di formazione dei vasti Trappi del Deccan, oggi definiti una semplice “provincia ignea” ma che attraverso un periodo di molti secoli, avrebbero assunto l’aspetto di un vero e proprio oceano di fuoco e pietra fusa, letteralmente inavvicinabile per la vita. Nonché potenzialmente, uno dei fattori contributivi nei confronti dell’estinzione dei dinosauri. Abbastanza da giustificare la disposizione, previa raccolta di una quantità di fondi adeguata, di una colossale rete di sismografi entro un territorio di 2.000×2000 chilometri quadrati attorno all’isola, finalizzata all’ottenimento di un quadro esatto delle condizioni capaci di scatenare una simile furia, e nella speranza che nulla di simile potesse accadere di nuovo. Ma l’effettiva natura del mistero, in se stessa, era ancora ben lontana dal poter rivelare l’intera portata della sua imprevista essenza!

Leggi tutto

Il pilastro del mondo tra valli di fuoco nel cuore dell’isola di Java

Secondo uno schema di credenze interreligioso, che coinvolge Buddhismo, Induismo e Jainismo, l’intero Universo e la stessa volta celeste sono supportati da un particolare rilievo montuoso, situato al centro esatto del nostro pianeta. Alto chilometri e circondato, in modo facilmente apprezzabile, dalla luce disparata di due soli distinti, le stelle della notte e i pianeti, il monte Meru avrebbe quattro facciate, rispettivamente d’oro, cristallo, lapislazzuli e rubino. Il più alto dei suoi cinque picchi, semi-nascosto dalle nubi eterne, agisce come trono del Dharma e residenza, a seconda delle versioni, di Buddha, Shiva e/o Mahavira, il 24° ed ultimo Tirthankara, ovvero discepolo del grande Insegnamento jainista. Dopo lunghe decadi d’analisi e studi filologici, dunque, gli antropologi nostri contemporanei sembrerebbero aver raggiunto la conclusione che un luogo simile possa storicamente trovare collocazione in terra d’Himalaya, presso l’alta montagna sacra di Kailash, nella regione di Ngari (6.638 metri). Ma gli abitanti della parte orientale dell’isola di Java, seguaci di un culto induista affine a quello di Bali, ma con ancora più elementi arcaici ed animisti, non sembrerebbero nutrire alcun tipo di dubbio. Possedendo la chiara testimonianza, nei loro testi culturali scritti durante l’epoca dell’impero perduto di Majapahit (1293-1527) di come i divini Brahma e Vishnu stessi, volendo aiutare l’umanità, avessero collocato un imponente massiccio entro le coste della loro particolare terra emersa, come un perno piantato fino alle remote profondità del pianeta. Chiaramente individuato, ed esplicitamente identificato da tempo immemore, con il nome altamente significativo di monte Semeru, capace di costituire con i suoi 3.676 metri il punto più alto di tutta l’isola. Ma anche punto focale, nonché maggiormente riconoscibile, di una delle zone geologicamente più insolite e caratteristiche note all’uomo, oggi denominata con il termine omni-comprensivo di Parco Naturale di Bromo Tengger Semeru, con l’aggiunta dei due termini riferiti rispettivamente alla più celebre e la più antica, nonché ormai sparita, di queste imponenti ed altrettanto notevoli montagne. Quel presumibilmente gigantesco monte Tengger, che in tempi immemori ed a seguito di un qualche tipo d’eruzione catastrofica, andò incontro alla distruzione pressoché totale, lasciando soltanto un’enorme caldera popolata da cinque ulteriori massicci (riuscite già a intravedere uno schema?) che all’ombra del sacro Semeru includono Bromo (2,329 m), Batok (2,470 m), Kursi (2,581 m), Watangan (2,661 m) e Widodaren (2,650 m). Mentre l’interno della valle stessa, circondata da un’alta parete capace di farla assomigliare a un cratere marziano, risulta ricolma di sedimenti tanti fini da renderla un letterale mare di sabbia, laboriosamente percorso quasi ogni giorno da cavalli e mezzi fuoristrada, a seconda delle preferenze individuali. Questo perché un simile luogo, inevitabilmente, ha perso negli anni le sue connotazioni puramente sacrali trasformandosi in una delle principali attrazioni turistiche dell’isola, stranamente collocabile a metà tra l’escursionismo avventuroso e la visita guidata con tanto di punti panoramici, guide specializzate e negozi di souvenir. Non che tutto ciò possa del resto inficiare l’intonso e profondo fascino, espresso da un insieme di caratteristiche esteriori, ecologiche e culturali che semplicemente esulano dall’esperienza pregressa della maggior parte dei visitatori. Con la sua zona sub-montana simile a una giungla tropicale, popolata da numerose varietà di piante tra cui 225 tipologie diverse d’orchidee, che lascia il posto all’altitudine di 1.500 metri a specie più sporadiche dal tronco legnoso come la cemara (Casuarina junghuhniana), il mentinggi gunung (Vaccinium varingifolium) e il kemlandingan gunung (Albizia lophantha). Ma è soltanto al raggiungimento dell’area sub-alpina, alle altitudini superiori ai 2.400 metri, che gli scalatori potranno avvicinarsi alla serenità intonsa di un vero e proprio Nirvana vegetale, con fiori ed arbusti sporadici che lasciano il posto, gradualmente, ad un suolo brullo composto da pietre d’arenaria. E circondato da frequenti vapori con il caratteristico odore di uova marce poiché, piccolo dettaglio che in molti mancano di menzionare è che ciascun singolo picco di questo memorabile complesso è sostanzialmente un vulcano. E cinque di essi incluso l’enorme Semeru, con l’unica saliente esclusione del monte Batok, risultano ancora rigorosamente e frequentemente attivi…

Leggi tutto

L’essenziale ruolo distruttivo del cannone a canna liscia nei grandi cementifici americani

I frammenti fluidificati rimbalzano come lapilli, tra una parete e l’altra del gigantesco cilindro refrattario prossimo al calor bianco. Un altro giorno, un altro tramonto, un’altra notte di combattimento contro le forze oscure che minacciano di rallentare la produzione. Poiché non è possibile riuscire a tollerare, l’inquietante forma di un pupazzo di neve all’Inferno. Caricare, puntare, fuoco! Come nei casi precedenti, tuttavia, una simile figura non aveva avuto modo di apparire all’improvviso; materializzandosi piuttosto un poco a poco, dapprima con la forma di una piccola protuberanza. Che si è gradualmente, inevitabilmente, trasformata in un anello. Immagino lo abbiate ben presente: il modo in cui questo piccolo mondo in fiamme ruota a 360 gradi, alla stessa maniera in cui una colonia spaziale si preoccupa di mantenere la sua forza di gravità. Un processo che può causare non pochi problemi, dato il flusso copioso di quel miscuglio di minerali argillosi, carbonato di calcio, alite e dolomite che scorre costantemente all’interno del grande tubo posto in posizione lievemente obliqua. Finché a un tratto, il conseguente miscuglio chiamato clinker inizia ad accumularsi… Ed allora plasma strane cose come queste: anelli, sfere, doppie sfere sovrapposte, addirittura con l’accenno di una forma antropomorfa. Il chiaro segno che è finita l’era della Tolleranza, e inizia quella della Disintegrazione. Colpi pesantissimi vibrati col martello: ecco un metodo perfettamente idoneo al fine di fare piazza pulita. Non fosse per il “piccolo” problema, della temperatura media che si aggira attorno ai 3.000 gradi Celsius in quell’ambiente, richiedendo preventivamente un lungo periodo di raffreddamento prima di riuscire a intervenire a quel modo. Ed è per questo che, a partire dagli anni ’30 del Novecento, fu tentato l’approccio alternativo di un diverso metodo, al tempo stesso più irruento ed assai meno diretto, senza la necessità di entrare all’interno. Fondato sull’impiego di un attrezzo che, sotto qualsiasi possibile punto di vista, assomiglia molto da vicino a un’arma da guerra.
Cannoni industriali: ecco due parole che non penseresti di trovare associate l’una all’altra. Per il semplice fatto che si tratta di un ambito estremamente specifico, il cui potenziale impiego fuori dal contesto potrebbe arrecare non pochi danni alla cosiddetta società civile. Stiamo in effetti parlando di bocche di fuoco dal calibro di oltre 20 mm, corrispondenti grosso modo a quel concetto ormai desueto dei fucili a polvere nera usati nella caccia all’anatra en masse, le cosiddette punt guns. Abbastanza potenti da slogare una spalla all’incauto cacciatore, che dovesse essere tanto folle da farne uso senza prima posizionare attentamente l’arma su un sostegno poggiato a terra. Ausilio fornito nel caso specifico, dallo stabile treppiede fornito in dotazione, completo di un preciso sistema a doppia manovella per il puntamento. Poiché sebbene possa non sembrarlo, il tipico cannone di questi ambienti costituisce uno strumento di precisione quasi chirurgica, il cui impiego richiede una certa preparazione ed occhi attenti al calcolo del tiro balistico. Questo perché il forno rotativo, prima di procedere alla pulizia del clinker, non può essere assolutamente fermato, un passaggio che potrebbe costare all’azienda molte decine di migliaia di dollari anche senza portare al possibile conseguente danneggiamento dell’intero apparato. Ecco dunque spiegate le ragioni di una simile scena: due uomini in tuta refrattaria che si posizionano, con immisurabile coraggio, proprio all’imboccatura del cilindro infuocato. Unica concessione alla loro limitante umanità, lo spegnimento temporaneo della fiamma di riscaldamento simile a un becco di Bunsen, atto a creare fiamme concentriche nella parte bassa del forno e che scaricherebbe tutta la sua furia proprio nell’esatta posizione in cui si trovano in quel momento. L’uno intento a tirare in modo ritmico la cordicella di sparo (niente grilletti, in simili armi uscite all’apparenza da un racconto sui pirati) e l’altro nel caricare continuamente le ingombranti cartucce in plastica, piene di pallini di zinco, piombo o altri metalli, pronte ad essere sparate verso l’obiettivo di turno. Questo in quanto nessun tipo di caricatore automatico, o altro meccanismo semi-automatico, è possibile laddove la mera temperatura ambientale risulta essere abbastanza elevata da far detonare in modo autonomo le munizioni. Nient’altro che un ulteriore prova, della natura estrema di una simile attività collaterale ma importantissima…

Leggi tutto

Settembre a Sumatra, stagione dei monsoni e del cielo di sangue

Fummo cauti, da principio. Attenti a quella linea in grado di dividere la ragionevolezza dal pericolo e dall’imprudenza delle idee. Finché un poco alla volta, la nuova normalità finì per prendere il sopravvento. Il che significò, semplicemente, pretendere qualcosa in più. Qualche metro, un paio di chilometri ed infine lo spazio maggiore di un’intera isola ragionevolmente inadatta all’agricoltura. Finché una mattina ci svegliammo, in un mondo diverso: l’alba era diversa, la vita era diversa, addirittura il cielo era di un altro tipo. Rosso, come il fuoco eppure tenebroso, al tempo stesso. A guisa ragionevole di quello che la scienza non avrebbe mai potuto definire, per sua predisposizione, inferno sulla Terra. Benché linee di contatto, a conti fatti, ve ne fossero diverse. Il caldo umido e opprimente, accompagnato da problemi respiratori. L’irritazione degli occhi e della pelle, giunte direttamente a contatto con un “diverso” tipo di smog. Non il prodotto del semplice inquinamento, stavolta, bensì un effetto collaterale di quello che potremmo facilmente identificare come un metodo indiretto, e molto lento, per distruggere la vita di molti innocenti. L’ultimo e potenzialmente risolutivo metodo per il suicidio collettivo dell’umanità.
Come primo impatto, una notizia “curiosa” del tipo che riesce facilmente a rimbalzare sulla piazza del moderno Web, specialmente se accompagnata da immagini capaci di colpire l’immaginazione: quelle riprese da comuni abitanti della regione di Jambi, nella parte orientale della terza isola più grande d’Indonesia, sin dall’epoca del Rinascimento centro di tutti i commerci condotti nei dintorni dello stretto della Malacca. All’interno delle quali è possibile ammirare, se così vogliamo dire, le inusitate condizioni climatiche vissute in questi giorni dagli abitanti. Ma c’è davvero molto poco da stare allegri dinnanzi allo spettacolo di un luogo trasformatasi improvvisamente in provincia distaccata del pianeta Marte, come si evince in maniera evidente dal post su Twitter dell’utente Zuni Shofi Yatun Nisa, il primo a diventare virale online su scala internazionale: “É giorno e non notte. É la Terra, non è lo spazio. Gli umani respirano coi polmoni, non le branchie. Abbiamo bisogno di aria pulita, non ci serve il fumo!”
A chi potrebbe rivolgersi, dunque, un simile grido di allarme, se non ai grandi agricoltori e all’industria dello sfruttamento del territorio, che come ogni anno verso il sopraggiungere dell’autunno ormai da parecchie generazioni, mette in atto un piano particolarmente subdolo e spregiudicato, causa della situazione iterativa del South Asian haze (foschia asiatica meridionale). Che dovrebbe ricordarci in maniera piuttosto diretta l’attuale ed assai più pubblicizzata situazione che vige in Brasile, coi fuochi dell’Amazzonia che ardono da molti mesi, causa stessa implementazione della tecnica di disboscamento comunemente chiamata slash & burn. Con una sola, fondamentale differenza: l’apertura dell’Occhio di Sauron sull’Indonesia e il diffuso colore vermiglio dell’atmosfera risultante, in grado di far porre una lunga serie di domande a chiunque risulti direttamente coinvolto, tra un colpo di tosse e l’altro. Non ultima delle quali, il “perché” di un fenomeno tanto apparentemente assurdo…

Leggi tutto