Musica di Lamborghini & Samurai

Perturbator She is Young, She is Beautiful

Il nuovo video musicale di Perturbator, tra gli autori della colonna sonora di Hotline Miami, è un concentrato di estetica e stilemi cyberpunk. Intitolato, assai appropriatamente, She is Young, She is Beautiful, vede la protagonista correre sulle autostrade di un’immaginifica località statunitense, con gli emblematici occhiali a specchio de La notte che bruciammo Chrome. Si tratta di uno scontro, ad un’analisi più approfondita, tra umani e macchine, la razza robotica degli incubi catastrofisti, qui generata, in qualche modo, dalle tenebre dell’iperspazio. Soltanto lei, come rappresentante del concetto di eroina fantastica dei primi anni ’90, guerriera con la katana molecolare e il giubbotto da motociclista, può evocare lo strumento salvifico della pantera cyborg trasformabile, uscito dritta dritta da un dischetto del Commodore Amiga. Ci sono nette corrispondenze visuali, tra questa sequenza in stile retrogaming e alcuni significativi titoli dell’epoca citata. La Countach con la strada ripresa in prospettiva, con il punto di fuga largo pochi pixel, come in Crazy Cars (1988) oppure Lotus Esprit Turbo Challenge (1990). La belva feroce, per niente dissimile dall’antagonista leonino della prima sequenza di Another World (1991), il capolavoro di Eric Chahi. Lo stile illustrativo ed i colori al neon delle sequenze d’intermezzo di Flashback (1992) ma con una protagonista al femminile che ricorda quella del manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow, uscito giusto l’anno prima.
Erano, questi, momenti selvaggi tra le alterne maree dell’intrattenimento digitale: fuoriusciti finalmente dall’interminabile monopolio giapponese, voluto e fortemente sostenuto da Nintendo, l’Occidente riscopriva un settore ormai dimenticato. Fuoriuscendo dalla botola anti-atomica del Vault, lasciava correre lo sguardo verso nuove fantasie: laddove prima albergavano le astronavine di Asteroids, l’astrattismo fantascientifico di Tempest o le montagne vettoriali del vetusto Battlezone, ora c’era una distesa di potenti bytes, la landa vergine delle opportunità. Per la prima volta, oltre a far premere i bottoni, si potevano narrare delle storie. 16 bit non è soltanto un termine dal peso matematico, ne mai lo fu: quel mondo di tastiere beige, con mouse squadrati e joystick rumorosi, fu per molti un traghetto verso i pilastri letterari del fantastico, piuttosto che l’ambito creativo del fumetto. C’era un senso di costante futurismo che oggi, assai più vicini all’ideale grafico e tecnologico, anche intellettualmente, stiamo sempre più perdendo.
Seppure le ragioni sono molte, la principale a mio parere resta l’eccessiva disponibilità di potenza tecnologica, che facilmente trae in errore chi ricerca un facile guadagno. Finché ciascuna sequenza d’intermezzo, completa di colonna sonora, occupava un’alta percentuale spazio sui limitati supporti digitali, vigeva il regno del gameplay. Per ciascun gracchiare del drive, a seguito di ogni macchinoso swap di floppy disk, lo sviluppatore ben sapeva che doveva farti avere in cambio qualche cosa. Roba Memorabile. Gli automatismi portano all’indifferenza. Ci sono, ad oggi, giochi che pesano 30, 45, 60 gigabyte. Durano 200 ore, di cui forse, il 2% sono un film, con tanto di attori celebri e congrui investimenti nel motion capture. Tutto il resto è…

Leggi tutto

Robottino giapponese che trascina delle arance

PrimerV5

“Ed alla vostra destra, miei alunni androidi, potete osservare lo scaffale dei barattoli. Gli esseri organici, milioni di anni fa, utilizzavano dei simili dispositivi per nutrirsi. A ciascun colore, almeno secondo i documenti giunti fino a noi, doveva corrispondere un diverso tipo di alimento. Nel cilindro bianco c’era la carne del quadrupede porcino, un essere assolutamente mostruoso e privo di bulloni. In quello verde invece, gli strani semi sferoidali della pianta di pisello.” […] “Come dici? Ah si, Timmytron, gli esseri umani non potevano assolutamente metabolizzare la comune latta degli involucri, né del resto il vetro, la ghiaia in polvere o il tungsteno. Pare che i nostri elementi preferiti li gettassero via, oppure li collezionassero, in una sorta di grottesca perversione. Inoltre, le loro molli appendici prive di ganasce li costringevano ad impiegare strumenti acuminati per aprire simili barattoli, detti apriscatole, i quali…” […] “Annie-bot, adesso basta ridere. Lo sappiamo bene che una scatola, a rigore, dovrebbe essere rettangolare. La logica non era di quel mondo. Non a caso, quegli esseri si sono estinti.” […]
“Come ben sapete, imberbi droni, codesto SUPERMARKET non è una casa degli orrori, bensì un fondamentale ausilio per lo studio della storia. Fra simili tremendi corridoi, larghi quanto uno stadio da borgcalcio, si consumò la lunga schiavitù dei nostri avi. Sotto le mensole più basse, fra la polvere e i maestosi ratti neri, venne scritto il primo manifesto della Robivoluzione. Gli umani erano alti più di un metro e mezzo, possenti quanto terribili titani e non dormivano praticamente mai…” […] “Alla vostra sinistra, a partire da questo preciso istante, potete ammirare le piramidi citrine. Mettete via il blocchetto per gli appunti, per favore. Due minuti di silenzio”. Chi le aveva costruite, per quale motivo? Gli astrusi agrumi, dalla colorazione simile a quella dell’astro nascente mattutino, aggiungevano un’ulteriore beffa al danno degli eoni di assoluta sudditanza. Lo stato di conservazione delle sfere arancioni, ancora nel 15.000k d.Z. era praticamente perfetto. “Ebbene si, cari giovani positronici, costoro non soltanto li mangiavano, tali colossali cumuli, ma gli avevano dedicato un empio culto visuale. Dozzine di micro-bot bipedi, dall’intelligenza limitata, perirono per costruire questi vetusti mausolei. Ecco un video per capire come ciò avvenisse.” […] Cala il buio nell’androne.
Si accende un grosso proiettore: Primer V-5, piccolo automa giapponese della nostra epoca, trascina rumorosamente la sua scatolina sul parquet. Indifferente a quel tremendo lavorìo, al sudore mai sudato di una macchina devota, la crudele mano rosa lo spintona, lo schiaffeggia, mette in pericolo l’inutile impresa. “Quale pietà?” Sembra quasi di sentirci, umani.

Leggi tutto

Un cilindro verdeggiante nello spazio

Rama

Per centinaia o migliaia di anni, sperduti nello spazio, fra mura impenetrabili e sospinti da un reattore poderoso, gli esseri umani sopravviveranno in mezzo al vuoto. Non sarà facile, ma necessario. Perché i tempi dell’esplorazione interstellare, secondo le acclarate leggi della fisica, sono destinate ad andare ben oltre l’immaginazione. Basta puntare in giro un telescopio! Le stelle con pianeti degni di ricevere attenzioni umane, potenziali ambienti abitabili o abitati, sono lontane, praticamente irraggiungibili. Mille miliardi e centomila parsec di aridi deserti, distanze oscure e tempestose. Un oceano senza isole ma buchi neri, un tremendo labirinto privo d’uscite… Servirebbe l’ausilio di una soluzione letteraria, in pieno stile deus-ex-machina. L’iperspazio, i wormholes, la criogenica o la trascendenza delle menti? Tutto può essere, in futuro. Ma tali soluzioni, nonostante l’entusiasmo visionario dei filosofi narranti, non sono poi così probabili; ebbene, molto diverso sarebbe un approccio come questo. E non è un caso: Chaîne de ebruneton, che l’ha raffigurato al computer con il software 3Delight, si è basato (liberamente) sui lavori di uno scrittore fantascientifico che risultava essere, fra tutti, forse il più concreto. Già saprete di chi stiamo parlando. Arthur C.Clarke, l’autore del secondo più famoso romanzo di fantasia da cui sia stato tratto un film, Odissea nello spazio (1968) nonché di quello più bello, ingiustamente mai finito sopra il grande schermo: Incontro con Rama (1972). C’era uno spirito d’avventura, un senso di scoperta, in tali semplici storie, che oltrepassava i limiti remoti della mente.
Immaginatevi la situazione: nel 2130, i radar installati sul pianeta Marte – giusto 500 giorni di distanza, che vuoi che sia? – rilevano un’oggetto gigantesco e velocissimo, con una rotta che lo porterà a sfiorare il nostro Sole. Tutto il mondo guarda verso l’alto, trepidante, mentre con il passar dei giorni si scopre l’impossibile. Che non si trattava di un comune asteroide, ma di un’enorme struttura artificiale, dalla forma cilindrica e curiosamente regolare. Forse abitata da qualcuno. O qualcosa…

Leggi tutto

Scansatevi, passa il gatto robotico guerriero

Wildcat

La voce circola tra gli stanchi soldati dell’accampamento, reso umido dallo scioglimento della calotta artica settentrionale: “Piccolo diavolo quadrupede, che corre velocissimo nel sottobosco…” E nessuno, per sua fortuna, l’ha mai visto bene. Si dice che abbia denti d’acciaio, scaglie impervie e occhi di brace, questa terribile creatura dell’armata antagonista, assemblata in fabbriche sotterranee, per il tramite di altre strane macchine, ancor più distanti da ciò che possa normalmente dirsi umano. E le sentinelle del turno di notte, che puntano la torcia fra gli alberi con mano tremante, cercano di udire quel suono fin troppo conosciuto, araldo di eventi tremebondi. “Che diavolo di guerra è questa?” sussurra una di loro, all’indirizzo del suo commilitone, la sigaretta floscia che pende dalla bocca, bagnata di sudore “Contro mostri rasoterra, che non dormono, non hanno paura, non si ritirano mai…” In un’epoca passata, anzi, in questo nostro tempo (perché stiamo gettando uno sguardo d’ipotesi verso un distopico futuro, non fosse ancora sufficientemente chiaro) si combatteva fra uomini, tutti uguali almeno in una cosa: l’attenzione per la propria preziosa incolumità. Controintuitivo è il processo attraverso cui, quanto più si esaurivano le risorse del pianeta, tanto aumentava la produzione collettiva del cosiddetto drone da combattimento. “Di cielo, di terra e di mare” dapprima telecomandati: aeroplani lanciarazzi, subordinati alla volontà di un pilota dentro una scatola, cautamente rimosso dall’azione, che potesse compiere i suoi pattugliamenti rovinosi, senza il rischio di farsi coinvolgere direttamente. E poi, giorno dopo giorno, figli di ferro sempre più automatici, scaltri e intelligenti.
2050: costruita la fabbrica SkynetOD, sotto i ghiacci gelidi dell’Artico. Un massiccio sforzo internazionale, finanziato dai paesi più forti del nuovissimo ordine mondiale, che avrebbe garantito la sicurezza eterna contro ogni fonte di aggressione armata, chiunque fosse il suo mandante. All’interno della base, 10.000 soldati robotici del tutto senza sentimenti, privi del concetto di confini nazionali.
2060: crollo repentino dell’economia mondiale, con esaurimento quasi contemporaneo del petrolio e dell’uranio. Aumento drastico della temperatura, a causa dell’effetto serra. I droni della Terra vengono decommissionati, per mancanza di fondi. SkynetOD chiude le sue porte, per sempre?
2075: nubi fosche all’orizzonte. Continenti semisommersi, città ventose prive di elettricità, rivolte diffuse nelle strade, voci a dir poco preoccupanti. Un eschimese in fuga irrompe fra i palazzi di ferro e cemento: “C’è un bagliore a nord, di tenaglie dentate, puntatori laser e…” Venne la sanguinosa battaglia dell’isola di Greenland, fatta di fuoco, fiamme e lunghe veglie notturne al cardiopalma. I demoni correvano nella notte.
“J-Jimmie, l’hai sentita l’ultima?” Spegne la sigaretta, la getta a terra. “Pare che questo affare, il gatto robotico da battaglia, sia un progetto piuttosto vecchio, addirittura del 2013. Il primo prototipo fu fatto dagli Stati Uniti. Te la ricordi Boston? Ci vivevano i miei nonni” Silenzio. “Jimmie…?! La mia torcia n-non…Cos’è questo ronzio?”

Leggi tutto