Il flusso di recupero dell’aereo più sottovalutato durante il secondo conflitto mondiale

Provate ad immaginare, se ne avete l’inclinazione, una di quelle grosse bottiglie per il latte usate un tempo negli Stati Uniti, da esattamente un gallone di capienza. Ora mettetegli le ali, la coda, un’ingombrante elica a passo costante da 3,7 metri diametro. Il risultato finale sarà qualcosa di… Imponente, nevvero? Eppure nel contesto del combattimento aereo, soprattutto in un’epoca antecedente all’invenzione dei missili guidati a lungo raggio, questa è forse l’ultima delle doti considerate desiderabili in quello che doveva essere, nell’idea del suo progettista originale, un caccia. Soprattutto quando concepito originariamente al fine di contrastare, per quanto possibile “l’elegante strumento di un’epoca civilizzata” dell’universale Messerschmitt 109 con le sue interminabili iterazioni, ciascuna quasi sempre più leggera, scattante e maneggevole di quella precedente. Se c’è una cosa che occorre riconoscere agli americani durante il corso della più costosa guerra in termini di vite umane dell’intera storia dell’uomo, tuttavia, è il coraggio ingegneristico di continuare a mettere in pratica idee nuove, riuscendo in svariate occasioni ad ottenere dei risultati finali degni di essere definiti superiori alla somma delle loro singole parti. E in tale ottica potrebbe anche rientrare, a pieno titolo, l’iconico ed istantaneamente riconoscibile Jug (“bottiglione”) o per usare il ben più altisonante nome ufficiale proposto e quasi mai impiegato dallo stesso comando centrale, il P-47 Thunderbolt, destinato ad essere prodotto in oltre 15.000 esemplari tra il 1941 e il 1945. Per lo meno secondo l’interessante interpretazione analitica offerta sul canale Real Engineering, che ha recentemente dedicato una trattazione monografica a questo aereo tanto discusso ed inserito erroneamente da molti, a posteriori, in mezzo alle nutrite schiere storiografiche dei successi mancati. Il che non spiega, d’altra parte, quanto segue: la vasta quantità di esemplari costruiti e le molte missioni portate a termine, particolarmente nel ruolo ancora innovativo del cacciabombardiere, ad opera di un velivolo che non era più veloce, non aveva un’accelerazione maggiore, e non risultava certo più gestibile durante le manovre del suo principale collaboratore e competitor coévo, il leggendario North American P-51 Mustang, trionfatore d’innumerevoli battaglie in ogni teatro del grande inferno chiamato seconda guerra mondiale. Prima d’inoltrarci nella storia operativa di questo aereo, tuttavia, sarà opportuno analizzare brevemente il modo in cui avrebbe preso repentinamente forma, a partire dal tavolo da disegno dell’immigrato georgiano Alexander Kartveli, scappato all’inizio del secolo assieme all’altro progettista di discendenza russa Alexander P. de Seversky dall’ira dei bolscevichi, per fornire al paese d’adozione un’importante nonché significativo ventaglio di competenze. Approdato professionalmente presso il produttore Republic Aviation di Farmingdale, New York, Kartveli raccolse quindi il guanto di sfida di un comando che considerava i prototipi dei due fatti decollare fino a quel momento come inappropriati ad affrontare in battaglia i caccia tedeschi, concependo qualcosa di letteralmente più grande, più pesante e rumoroso di qualsiasi altri velivolo per il combattimento aereo messo in campo fino a quel momento. Era l’inizio, a suo modo, di una leggenda…

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Zampe di cavalletta per l’aereo che domina il bush

Con un rumore quasi elicotteristico, la strana belva sembra ripiegarsi su se stessa. Le ali ampie mentre arretra, la coda tenuta ben dritta, il muso che freme anticipando l’attimo glorioso del decollo. Draco, il grande coccodrillo, l’essere di fuoco che ha il colore di un tramonto in fiamme! Colui che preme con forza contro il duro suolo sterrato, quindi nel momento in cui riceve una sorta di segnale… Dal suo padrone? Da una sorta d’invisibile stregone? Effettua un rapido sobbalzo: ed ora inizia a muoversi, ruggendo. E qui qualcuno potrebbe pensare che con il suo peso di circa 1,3 tonnellate, equivalente a quello di un’automobile di dimensioni medie, il mostro abbia necessità di un’appropriata rincorsa per staccarsi dal suolo. Ebbene quell’ipotetica persona, magari in piedi tra il pubblico della competizione tra i maggiori volatili dell’ecosistema della High Sierra californiana, farebbe assai presto a rimangiarsi la propria idea. Così d’un tratto tutti, sulla pista improvvisata (ammesso che si possa giungere a definire tale) di quel fatidico 2018 si ritrovano a guardare in alto. È l’attimo preciso questo, in cui un paio d’ali rigide si ammantano di gloria. E agli occhi e nelle orecchie di chi possiede il giusto interesse, s’intraprende il ripido percorso di colui che tenta di riscrivere la storia.
Lasciate che vi presenti Mike Patey, sincero aviatore dei nostri tempi, capo di un’azienda di servizi e fratello gemello del suo socio in una piccola squadra di 11 figli (oggi a sua volta padre di 4) che ci tiene ripetere quanto ami dedicare del tempo alla sua famiglia. Ogni singola volta, possibilmente, in cui si ricordi d’atterrare nel vialetto della sua non necessariamente metaforica casa. Qualcosa che può capitare molto più spesso di quanto si possa credere, in funzione delle specifiche caratteristiche dell’ultima creazione uscita di quell’hangar fattivo e fecondo, che è il principale sito d’investimento voluttuario delle sue non trascurabili finanze. Diciamolo di nuovo, gridiamolo persino: il velivolo dal nome estremamente suggestivo di DRACO. Che non è più soltanto quello che sembra, ovvero una versione pesantemente modificata del vecchio apparecchio STOL (Per Decollo ed Atterraggio Brevi) di fabbricazione polacca PZL-104 Wilga, ma un vero e proprio dispositivo dalle straordinarie doti, con un peso dimezzato ed il mostruoso motore Pratt & Whitney Canada PT6 da 680 cavalli, più del doppio in termini di potenza dell’originale impianto radiale previsto in questa tipologia d’aereo. Qualcosa capace di scaraventarlo a pieno titolo fuori dagli anni ’60 della propria remota origine, dritto verso un intero secolo di trionfi, durante le competizioni nazionali e internazionali per cui in origine era stato, idealmente, costruito…

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La nave più affilata nella storia della marina militare inglese

Volendo stilare un’ipotetica graduatoria degli uomini più influenti in uno specifico momento storico, sarebbe impossibile non porre in prima posizione colui che possiede la capacità d’influenzare e dirigere i flussi di forza. Ovvero lo spostamento, attraverso l’aere e lo spazio, degli atomi instradati attraverso il percorso della sua incrollabile volontà. Ed era il 26 giugno del 1897 quando, durante la sfilata della marina per il giubileo di diamante della regina, il conte irlandese del castello di Birr, Charles Algernon Parsons, sarebbe diventato quest’uomo, dinnanzi ad alcune delle figure più importanti della sua epoca e niente meno che il principe del Galles, colui che sarebbe salito al trono d’Inghilterra come Edoardo VII nel giro di appena sei anni. Figlio ed erede della monumentale monarca Vittoria, colei che aveva visto e determinato la crescita del più vasto Impero, nonché uomo di marina dalla notevole esperienza. Il quale tuttavia non avrebbe potuto far nulla, dinnanzi alla spropositata arroganza del suo contemporaneo.
Tutto ebbe inizio in un lampo di luce di una ciminiera incandescente, tra gli spruzzi del mare oltre la costa di Spithead nella contea dello Hampshire, dove storicamente si erano sempre tenuti simili eventi di rappresentanza: effetti prodotti dal riflesso ed il rapido movimento dello yacht privato, sottile come una spada da samurai, costruito e pilotato dal capitano Christopher J. Leyland, in qualità di proof-of-concept per un nuovo metodo finalizzato a trasformare l’energia del calore in navigazione. Turbinia era il termine scelto da Parsons stesso, di nome e di fatto. Così come sarebbe stato particolarmente evidente per chiunque avesse potuto scrutare, con occhi indagatori, all’interno della sua sala macchine sferragliante. Dove non v’era traccia residua, di nessun tipo, del sistema tradizionale della macchina a vapore e in effetti neppure l’ombra di un pistone. Entrambi sostituiti da un approccio decisamente più semplice ed elegante: l’elemento girevole ed aerodinamico, replicato tre volte e direttamente collegato a un’impressionante serie d’eliche, con un’efficienza energetica assolutamente invidiabile (per l’epoca) di circa il 10-15%. Ciò che tuttavia ebbero modo di vedere, e in qualche modo metabolizzare, i nobili e il futuro re assiepati sugli spalti sabbiosi antistanti, sarebbe stata l’impressionante velocità di 34 nodi (63,4 Km/h) raggiunta dal natante, abbastanza da girare letteralmente attorno ad alcune delle più possenti navi militari della sua epoca, gettando copiosi spruzzi sul ponte dagli equipaggi increduli e incapaci di fermarla. Viene in effetti narrato, a proposito di questo attimo leggendario, che alcuni dei marinai incaricati avessero tentato di puntare i cannoni all’indirizzo dell’intruso non identificato e in attesa dell’ordine di far fuoco, senza tuttavia riuscire a inquadrarlo nei propri mirini. Talmente elevata era, in parole povere, la velocità del Turbinia.
Si trattò di un rischio attentamente calcolato, dalle chiare finalità pubblicitarie “d’assalto”, nonché la risultanza di molti anni di lavoro da parte del suo inventore, colui che avendo intrapreso una carriera ingegneristica nel nuovo campo della generazione elettrica, avrebbe invece finito per rivoluzionare il sistema di propulsione per eccellenza del mondo militare. Perciò prima di spostarci in avanti nella nostra cronologia, vediamo almeno per un attimo di considerare da dove, ed in che maniera, fosse giunto alla ribalta questo impressionante bolide dei britannici flutti…

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Edgley Optica: il ritorno di una libellula per tre passeggeri

Forma e funzione, il più delle volte, trovano corrispondenza nel mondo dell’aviazione. Come dimostrato da una linea guida che può applicarsi egualmente all’ambito naturale, per cui un qualcosa di affusolato è immancabilmente svelto e agile, come un falco pellegrino, mentre un ponderoso cilindro dotato di ali finisce per corrispondere all’aquila reale, adeguatamente appesantita dal carico di una preda quadrupede ghermita tra l’erba delle pianure. Esiste tuttavia un campo in cui l’umana tendenza a presumere tende a seguire spunti d’analisi formalmente scorretti e questo sarebbe, senza lasciare la via metaforica, quello degli artropodi volanti. Insetti: imenotteri, ortotteri… Odonati – strana parola, quest’ultima! Quasi come se la creatura corrispondente, tipica esploratrice delle acque stagnanti con il suo duplice paio d’ali, appartenesse a un’insieme del tutto diverso nell’ambito delle creature sottodimensionate, un ordine antico e altrimenti dimenticato. E sapete qual’è la parte migliore? Che effettivamente non siamo affatto lontano dalla realtà. Potremmo anzi dire d’averla centrata in pieno, sia per quanto riguarda l’essere, che l’aeroplano.
Già, perché sarebbe in effetti difficile, a distanza di esattamente 44 anni, tentare d’individuare a cosa stesse effettivamente pensando l’inventore e progettista aeronautico inglese John Edgley, quando propose ai suoi finanziatori l’idea per l’Optica, il buffo velivolo “capace di sostituire l’elicottero” facendo fronte a un ampio catalogo di necessità e funzioni. Sarebbe stato difficile tuttavia non notare l’abitacolo vagamente sferoidale, con ampi pannelli tondi simili ad occhi composti, seguìto da una parte centrale il cui diametro ampliato ricorda quello dell’addome volante e le ali dritte e sottili con la duplicazione di un elemento diverso e quanto mai inaspettato: la coda (qui occorre ammetterlo: niente di simile esiste nel mondo degli animali). Ovvero un ventaglio di caratteristiche funzionali, ed aerodinamiche, finalizzate a garantire una velocità di volo continuativa di appena 130 Km/h, abbastanza bassa da permettere di osservare il paesaggio in ogni sua minima caratteristica, o sorvegliare direttamente un principio d’incendio e/o sospetto criminale.
Esattamente come il tipico mezzo a decollo verticale fornito della prototipica coppia di eliche eppure, impossibile negarlo, con alcuni vantaggi assolutamente rivoluzionari: tanto per cominciare, la stabilità. E chiunque abbia mai puntato uno strumento scientifico o telecamera dal sedile passeggeri di un tale apparecchio, ben conosce le vibrazioni prodotte dal classico occhio-nei-cieli, tali da invalidare molti degli approcci più approfonditi ai possibili sondaggi compiuti in volo. L’Optica risulta essere, inoltre, comparativamente assai più silenzioso e SOPRATTUTTO, molto più facile da pilotare. E questo è il fondamentale nesso della questione perché, come in molti tendono a sapere fin troppo bene, all’elicottero non piace affatto volare. Ragione per cui il suo pilota, ad ogni intervento sui comandi, deve apprestarsi a compensare almeno due tipi di derive mediante l’applicazione di forza su ciclico, collettivo e manetta della potenza, pena l’imminente perdita di controllo e conseguente schianto potenzialmente letale. Mentre pilotare un piccolo aereo come questo può essere paragonato, sostanzialmente, al tenere il volante di un’automobile, benché le possibili complicazioni siano di un tipo a cui è decisamente più difficile porre rimedio. E caso vuole che fu proprio un problema di questo tipo, verificatosi alle origini della storia commerciale dell’Optica, a decretare il fallimento del sogno custodito dal suo creatore…

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