Drone mostra che per navigare a vela l’elemento umano può essere del tutto facoltativo

L’integrazione di automatismi nei processi collegati alla navigazione umana è un utile sentiero già percorso da diverse decadi, sebbene l’utilizzo di un’imbarcazione a vela sembri inerentemente interconnesso all’intervento, continuativo e reiterato, di un vero equipaggio con ben chiari accorgimenti e procedure necessari a mantenere il proprio punto d’approdo al centro della rotta predefinita. Ciò che la tecnologia rende possibile, di questi tempi, è tuttavia non solo superare tali limiti procedurali, bensì creare la realtà tangibile di uno scafo connotato da avanzati presupposti di autonomia, al punto da poter decidere di sua totale iniziativa il come e il quando di ciascun preciso intervento su comandi finalizzato a una manovra, al di fuori di un generale obiettivo definito a priori da coloro che hanno dato inizio alla tratta stessa. Un Saildrone in altri termini, intelligente robot dell’oceano, costruito sulla base di precise cognizioni provenienti da un settore non del tutto pertinente. Come sarebbe lieto di raccontarci con chiaro entusiasmo lo stesso Richard Jenkins, ingegnere, pilota ed avventuriero responsabile di aver stabilito nel 2009 il record di velocità su terra di un veicolo a propulsione eolica, il suo yacht su ruote Greenbird, capace di raggiungere agevolmente i 202 Km/h.
Mezzo il cui profilo distintivo, costituito da una vela rigida più simile ad un’ala verticale, con tanto di coda direttamente importata dal mondo aeronautico, ricompare a pieno titolo nella sua flotta di natanti, costruita e immessa sul mercato a partire dal 2013, anno corrispondente al varo dell’SD 1, ovvero il capostipite di questo nuovo, rivoluzionario approccio all’idea. Che la startup californiana portatrice di quel nome fosse in grado di assolvere al principio di mettere in mare un qualcosa d’indipendente e in grado di assolvere ad un’ampia varietà di missioni. Potendo garantire, nel contempo, l’assoluta aderenza ad ogni presupposto di economia nel funzionamento e l’impatto ambientale del suo passaggio. Il che risulta del tutto conforme, piuttosto che un ostacolo da superare, nella congiunzione di fattori e caratteristiche inerenti del mezzo, in cui ogni minimo elemento collabora alla massima efficienza del suo utilizzo. Se così vogliamo definirlo, quando la cabina di comando è situata in tutta sicurezza sulle coste di un distante continente, al fine di raccogliere la ricca selezione di dati e rilevamenti provenienti dall’antenna satellitare facente parte del corredo di bordo. Questo perché il Saildrone, per sua esplicita missione programmatica, costituisce primariamente un vascello di tipologia oceanografica, ovvero finalizzato all’agevolazione di studiare approfonditamente le caratteristiche degli Oceani terrestri. Il che, dopo tutto, ha senso: se si dice che simili recessi della Terra sono ancora meno noti delle stelle cosmiche, da noi avvicinate già più volte tramite l’impiego di sonde autonome ed alimentate dall’inerzia e l’energia solare. Perché non cercare di trarre vantaggio, dunque, più o meno dallo stesso approccio a partire da un diverso tipo di (non-spazio) porti?

Leggi tutto

L’occhio museale finalmente inaugurato per scrutare verso l’indomani di Dubai

In una scena che pare prelevata direttamente da un film di fantascienza, l’oggetto toroidale sorto all’ombra del grattacielo più alto del mondo viene avvicinato progressivamente da un velivolo dall’aspetto inconsueto. Simile ad un drone, ma dotato di propulsori direzionabili a piacere, che in base al rumore si capiscono funzionare grazie ad una qualche applicazione avveniristica del principio aeronautico del jet. Quando giunti a una distanza sufficientemente ravvicinata, la parte superiore dell’anello si solleva, letteralmente, poco prima d’iniziare a scorrere di lato: l’edificio, a questo punto, è aperto. L’oggetto volante non meglio identificato vi atterra all’interno. Dopo qualche attimo di attesa particolarmente pregna, l’elemento apribile ritorna al suo posto. Non v’è alcuna traccia di eliporto, sulla sommità dell’ultimo edificio stravagante della capitale del divertimento, Dubai. E se vi sembra una visione lievemente troppo avveniristica, direi che siete sulla strada giusta per quanto concerne l’aspetto logico, ma non quello tematico o concettuale. D’altra parte quello che stavate immaginando è un trailer ufficiale, largamente sanzionato dalle autorità cittadine, del nuovo, spettacolare Museo del Futuro nel Distretto Finanziario, creato per incrementare ulteriormente le attrattive turistiche di uno dei luoghi già più visitati al mondo. Le ricchezze date dal petrolio, d’altra parte, debbono esaurirsi a un certo punto degli eventi. Non così la fama è la celebrità di un luogo, se ciascun tassello di un preciso piano scivola al suo posto, realizzando l’effettiva forma di un gioiello inimitabile dall’una o l’altra parte dell’intero Mondo Arabo, e non solo… Brillante che necessità, come da copione, la possibile collocazione di un anello, che sia sufficientemente grande, o significativo, da poter riuscire a sostenerlo. Ecco a voi, per questo, l’opera dell’architetto Shaun Killa, al debutto col suo studio cittadino Killa Design e che parrebbe essere riuscito a far partire la carriera indipendente dalla vetta, che può provenire unicamente dalle conoscenze, la bravura e la validità delle proprie idee, capaci di sconfiggere ogni possibile proposta alternativa ad un concorso di portata internazionale. Coi meriti di un risultato che, in maniera certamente soggettiva, può essere ammirato dagli occhi di noi tutti ma difficilmente mancherà di suscitare un certo senso di stupore e meraviglia. Quanto spesso capita di vedere una creazione simile a una vera e propria stazione spaziale, ricoperta d’improbabili iscrizioni calligrafiche in lingua araba, che costituiscono nei fatti le sue uniche finestre aperte verso l’esterno? Una struttura possibile soltanto tramite l’applicazione di tecniche architettoniche assai particolari, capaci proprio in tal modo di offrire una via d’accesso alternativa, pratica e tangibile, all’argomento principale trattato all’interno dell’edificio stesso. Ovvero: (se tutto continua come dovrebbe) dove saremo tra 100, 1.000, 10.000 anni? Non il mero incipit di un testo da romanzo di genere, in questo caso. Bensì l’apprezzabile base di partenza per una serie di allestimenti e mostre multimediali di robotica, ingegneria, urbanistica e l’occasionale accenno trasversale al transumanesimo, che non guasta mai. Dopo tutto, quale miglior modo esiste per riuscire a superare le attuali fisime del mondo contemporaneo, che modificare le stesse limitazioni biologiche della nostra esistenza sulla Terra?

Leggi tutto

Il drone che ha danzato con le pecore che non non cercavano celebrità internazionale

Particelle in viaggio, spinte innanzi per l’effetto di un vento cosmico che ha mai fine. Il poderoso flusso fluviale del destino. L’incombente concatenazione di causa ed effetto. L’elaborazione del bisogno e del desiderio, che guidano le scelte di ogni essere vivente. In una moltitudine che almeno in questo caso, sembrerebbe agire con intento collettivamente responsabile, verso l’ottenimento del proprio obiettivo finale: raggiungere i pascoli, quindi tornare nei recinti, infine prender posizione, di concerto, attorno a un’ampia serie di abbeveratoi. In quello che potrebbe anche sembrare un singolo piano sequenza, se non fosse per il reiterato cambio di colori e di vegetazione ad ogni singola inquadratura, per una probabile deriva di sito geografico o stagione cosmica apparente. Poiché nei fatti, come viene evidenziato dallo stesso autore Israeliano Lior Patel, questa breve sequenza di poco più che un minuto è un semplice riassunto di svariati mesi di riprese, realizzate mediante il fido drone DJI Mavic 2 Pro per un periodo di ben 8 lunghi mesi, con la probabilità di creare il più formidabile repertorio d’inquadrature, animate o meno, di una delle aggregazioni d’animali più rilevanti per l’uomo. Particolarmente in questi luoghi dove, dagli antichi testi della Bibbia, sappiamo essere stato praticato per svariati millenni l’allevamento sistematico degli ovini, come comprovata fonte di latte, cibo e tessuti da indossare. Con metodologie certamente meno tecnologiche, eppur concettualmente non così diverse da quelle messe ancora in pratica dall’agricoltore e proprietario del gregge in questione Michael Morgan, coadiuvato dal suo socio sudafricano Keith Markov fin dal 1985, in una collaborazione capace di portare le pecore fino al numero assolutamente rimarchevole di 1.750 esemplari. Una parte significativa dei quali possiamo ammirare nelle poche, sintetiche immagini offerte dall’artista senza il pagamento di alcuna royalty, in quello che ha già finito per diventare una via d’accesso internazionale diretta nei confronti del suo abile operato. Perché il video, intitolato Sheep in fast motion parla un linguaggio facile da comprendere per qualsiasi cultura, offrendo un punto di vista insolito nei confronti di un qualcosa che, almeno concettualmente, credevamo di aver già conosciuto abbastanza a fondo. Le dinamiche operative di una moltitudine, almeno in apparenza, capace d’agire come un singolo organismo, che finisce così per ricordare le contorsioni di un qualsiasi sifonoforo o medusa sommersa tra le acque del mondo. Laddove studi analitici pregressi hanno da tempo dimostrato, soprattutto nel corso dell’ultimo periodo storico, come le pecore domestiche siano in realtà animali di notevole intelligenza e profondità emotiva. Tanto da mettere immediatamente in dubbio lo stereotipo, ancora largamente diffuso, secondo cui modellare il proprio comportamento su tale specie possa condurre verso una problematica perdita d’individualismo. Tutt’altra storia, nel frattempo, quella raccontata da ricerche sul campo come quella di studiosi del Royal Veterinary College di Londra (Andrew J. King e colleghi) che nel numero di luglio del 2012 della rivista Current Biology intitolavano il loro articolo proprio Selfish-herd behavior of sheep under threat (Il comportamento egoista del branco di pecore soggetto alla minaccia di un predatore) sviluppando un complesso modello matematico per l’osservazione di come, all’avvicinarsi di una minaccia percepita come un cane appositamente addestrato, ciascun singolo individuo facesse il possibile per spostarsi verso il “centroide” ovvero un punto il più possibile protetto dai vulnerabili corpi dei propri compagni e compagne di vita. Esibendo una fenomenale simmetria operante, così apprezzabile anche nel video di Patel per una lunga serie di ragioni capaci di costituire una costante. Poiché chi può dire, realmente, se siano state le pecore ad adattarsi alla propria vita in cattività, oppure l’uomo stesso, attraverso i lunghi secoli di perfezionamento, a progettare una serie di passaggi e situazioni attraverso cui i propri soggetti animali si comportassero nella maniera di maggiore convenienza per lui… Una ricerca che ha accomunato numerosi popoli attraverso il corso delle Ere, ma forse nessuno più di quello che tanto spesso attribuì l’allevamento di queste utili creature ai suoi più insigni predecessori. Da Abele, secondo figlio di Adamo ed Eva, fino ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Rachele e persino Davide, il predecessore di Re Salomone. In un ideale filo conduttore, capace di attraversare ininterrotto il lungo trascorrere delle Ere…

Leggi tutto

L’attrezzatissimo percorso di metallo lungo il fianco della scogliera irlandese

Sia perciò chiaro a tutti che la forma più naturale di turismo è l’escursione, e il tipo di montagna più accessibile, soprattutto per chi vive sulle coste di un’isola rocciosa come l’Irlanda, è la scogliera. Questo è scritto a lettere palesi nell’universale repertorio delle umane cognizioni, ed ancor maggiormente appare chiaro se si osserva la casistica pregressa di un’attrazione tanto insolita e notevole, come potremmo definire al tempo stesso l’incontro funzionale di occasione, tradizione e tecnologia di “The Gobbins” nella contea di Islandmagee, rigogliosa penisola che si protende verso la Scozia e il resto dell’arcipelago che forma il Regno Unito. Un punto di passaggio, se vogliamo, posto al confine tra i pianeggianti campi di un territorio civilizzato e quello più selvaggio e inconoscibile, per sua implicita definizione, del tempestoso Mare del Nord. Non per niente si consiglia, a chiunque intenda visitare un tale luogo longilineo, di documentarsi approfonditamente in merito alle previsioni del tempo per il rischio di restarne esclusi, così come si tante volte è capitato per l’intero periodo di 113 anni dalla sua ormai remota inaugurazione. E potrà sembrarvi forse strano che una simile serie di strutture, effimera come soltanto uno zigzagante sistema di ponti e camminamenti di metallo bagnati continuamente dall’acqua salmastra possono riuscire ad essere, sia giunta intonsa fino ai nostri tempi fin dall’epoca Vittoriana, così come appare, splendida e brillante, nelle numerose testimonianze videografiche facilmente reperibili online. Il che costituisce l’assoluta verità ed apre l’immediata via verso una breve rassegna storica, per quella che potremmo facilmente identificare come una delle attrazioni maggiormente visitate di tutta l’Isola Verde.
The Gobbins nasce quindi all’inizio del Novecento, quando l’idea della sua genesi venne preventivamente ordita dall’ingegnere ferroviario di ottima carriera Berkeley Deane Wise, originario di New Ross e figlio di un avvocato operativo localmente, almeno finché l’intera famiglia ebbe l’occasione, qualche anno dopo, di trasferirsi presso la città di Dublino. Luogo presso cui avrebbe intrapreso gli studi universitari a partire dal 1871, sebbene non sarebbe mai riuscito a conseguire la laurea sperata. Fatto sta che all’epoca, esso costituiva un valore aggiunto piuttosto che necessario, se è vero che soltanto l’anno successivo sarebbe stato assunto dalle Ferrovie delle Midlands, dando inizio al percorso professionale che l’avrebbe portato a implementare e revisionare una lunga serie di tragitti, inclusivi di ponti e tunnel, oltre ad introdurre per primo una segnaletica di sicurezza per il suo paese che potesse dirsi realmente efficiente. Ma poiché la specializzazione a quell’epoca non era un concetto in alcun modo auspicabile, Wise sarebbe rimasto famoso soprattutto per l’incarico ricevuto a più riprese, e portato a termine con comprovata efficacia, di trasformare le diverse stazioni presso cui avrebbe lavorato in veri e propri punti di riferimento, per l’estetica architettonica e la varietà di servizi offerti tra le loro mura riccamente ornate. A partire dal 1988, con l’assunzione presso le Ferrovie di Belfast (BNCR) era ormai giunto a fare di tutto ciò una vera e propria arte, come esemplificato dalla passeggiata creata attorno alla fermata ferroviaria di Whitehead nell’Irlanda del Nord, capace di condurre i visitatori per uno spettacolare quarto di miglio fino al promontorio di Blackhead. Chiunque, interrogato sull’argomento, converrebbe tuttavia nel definire una tale opera come nient’altro che un prototipo, rispetto alla creazione d’ingegneria civile che costituisce, molto evidentemente, il suo capolavoro antologico più celebrato.
Le prime testimonianze che abbiamo del percorso panoramico dei Gobbins sono quindi databili al 1902, quando aperta la prima sezione incompleta dei camminamenti i giornali iniziarono a parlare di una nuova cliff walk (camminata sulla scogliera) del tutto impareggiabile in Europa e nel mondo, con dirupi, caverne e straordinari “acquari naturali” entro cui ammirare la notevole vita oceanica di questi luoghi. In breve tempo, la passeggiata acquisì un enorme valore scientifico e commerciale per il maggior benessere dell’intera penisola di Islandmagee…

Leggi tutto