Nuota come un drago celeste, morde come una murena leopardo

Vi sono luoghi, disseminati nel Pacifico, dove l’esistenza di esseri superni non è in alcun modo subordinata all’adorazione degli esseri umani. E ogni montagna, ogni lago, ogni valle possiede un nome e un volto, più o meno inconoscibile, personificazione non interpretabile della Natura stessa. E così tra le possenti e inamovibili colonne del suo palazzo, il Dio strisciante attende il sopraggiungere del suo momento. Fauci semi-aperte, occhi fissi, antenne protese a rilevare l’attimo predestinato. Quando l’ennesima ombra, proiettata casualmente sopra quegli anfratti, significherà il passaggio di una preda inconsapevole ancorché perfettamente predisposta ad essere fagocitata. O accolta in mezzo alle sue sale, per accompagnarlo silenziosamente nel passaggio degli Eoni. È un Dio magnanimo, questo. Subacquea manifestazione di pazienza e consapevolezza. Ma è anche un Dio… Affamato. E chi da lontano la sua solitudine, non può fare a meno di comprenderne l’essenza ultraterrena, la guisa senza tempo né confini definiti, che si perde nei colori cangianti della scogliera. Bianco, nero, rosso ed arancione, in un disegno a macchie che non sfigurerebbe di sicuro in mezzo alla savana dell’Africa distante. Per questo sono soliti chiamarlo leopardo, murena leopardo, poiché personifica caratteristiche di entrambi gli animali; ma per tutti, da queste parti, è la murena drago, altrimenti detta Enchelycore Pardalis. Diffusa grosso modo nello spazio che si trova tra l’isola di Réunion e il Giappone meridionale, tale specie trova specificamente in quel paese una definizione utile a chiarirne le caratteristiche fondamentali. Poiché tra le molte interpretazioni post-moderne del concetto di Kami (divinità) ve n’è uno che si adatta in modo particolarmente utile al contesto presente. Di sicuro lo conoscerete: sono i Pokèmon, pluralità cangiante di danzante, canticchiante mitologia pre-moderna, trasferita in un pacchetto facile da vendere e apprezzare, non importa quale sia il proprio background religioso e culturale di provenienza. Creature tra le quali, il collezionista digitale più perspicace e addentro al “gioco” non potrà fare a meno di ambire ai cosiddetti shiny, singoli esemplari molto rari, caratterizzati da una colorazione nettamente distinta da quella dei loro conspecifici incontrati nell’habitat di provenienza. Il che ci porta alla questione di giornata poiché in questa specie di murena, assai semplicemente, OGNI singolo rappresentante costituisce formalmente uno shiny. Come quello mostrato nel presente video su Instagram dall’agenzia per immersioni internazionali Maduro Dive, la cui località non viene resa nota, ma dotato di colori e tonalità davvero interessanti. Laddove come avviene per i pesci koi allevati dagli umani (Cyprinus carpio) potremmo prendere anche una decina di murene appartenenti ad una simile specie, trovandone taluni tendenti al giallo, altre rosse, altre ancora bianche in campo nero, con righe, macchie, strisce diagonali e ogni altra possibile diavoleria visuale. Il che del resto è lungi da essere l’unica caratteristica particolare, quando si considera la minacciosa configurazione della testa, con denti ben visibili data l’impossibilità di chiudere completamente la mascella. Ed un paio di vistose corna carnose, in realtà facenti parte di altrettante insolite narici direzionabili, perfettamente adattate a individuare da lontano il passaggio di possibili prede. Dagli anfratti rocciosi di scogliere o barriere coralline, dove è solita risiedere la forma sinuosa di codesta insolita creatura, tanto evidentemente mantenuta in alta considerazione da sub, esploratori degli abissi ed estimatori di ogni essere che nuoti in mezzo alle profondità inusitate. In mezzo all’acqua, scorre un fremito: è un piccolo pesce di passaggio. Fioriscono i colori delle ostili profondità. Il momento è giunto e assieme ad esso, l’inizio di una cena tanto a lungo attesa, così fortemente agognata dal suo singolo e sinuoso partecipante!

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Il grande scheletro metallico di un drago addormentato sulle coste di Francia

Al principio di ogni cosa, bestie colossali popolavano la Terra. E si tratta di un curioso caso di simmetria concettuale, se si pensa alla nozione biblica secondo cui al concludersi dei tempi, un serpente lungo quanto una quaresima farà la sua comparsa dal regno dei Cieli, discendendo tra i viventi per assolvere al destino di ogni cosa. Compiendo la solenne annunciazione, che l’Altissimo si è ormai stancato delle nostre peregrinazioni. Ed è un vento di assoluto cambiamento, quello che ormai soffia sulle lande condannate dall’Apocalisse incipiente. Rapida, immediata? Senza alcuna possibilità di appello? Molte religioni, nel corso della travagliata vicenda umana, hanno fatto a gara nell’attribuire simili caratteristiche ad un frangente di questo tipo, come conseguenza considerata imprescindibile per l’esistenza di un intelletto superiore, che ogni cosa determina in forza di specifiche ragioni. Mentre l’evidenza della scienza ha ormai da molti secoli tentato di mostrare che se c’è un peggioramento in atto, si tratta più che altro di un lento degrado. In cui ogni cosa deperisce, ed un giorno tragico svanisce, per effetto del più puro e semplice dei sentimenti: il disinteresse. O inattenzione per l’ambiente in quanto metodo per il sostentamento, di ogni specie che è esistita, esiste o ancora deve comparire sulla lunga marcia dell’evoluzione animale. Poiché non c’è poi una differenza tanto grande, per l’estinzione causata dall’arrivo di una meteora, piuttosto che lo sversamento petrolifero dovuto al naufragio di una grande imbarcazione dei tempi odierni. Tutto ciò che resta, alla fine, è lo stesso scheletro e vestigia di quello che adesso, non potrà mai più riuscire a connotare l’Universo di ogni cosa che brulica e si nutre, insistendo per cercare un qualche tipo di risoluzione finale. Esseri defunti ormai da lungo tempo, come quello dalla forma lunga 130 metri che soggiace presso il bagnasciuga sulla foce della Loira, non troppo lontano dal villaggio francese di Saint-Brevin-les-Pins.
Che potremmo chiaramente definire un fossile, se non fosse che in tal caso, di sicuro lo vedremmo tra le sale ombrose di un museo. Custodito ben lontano da quegli stessi elementi, che ogni giorno lo ricoprono e lo scoprono al variare delle maree, mentre progressivamente si ricopre di alghe, muschio ed altre forme basiche di vita vegetale. Una condizione che agli osservatori potrà diventare maggiormente comprensibile, ogni qualvolta all’alba ed al tramonto gli capiterà di scorgere una lieve luce o barbagliante scintillìo metallico, risultante dai raggi di quello stesso Sole distante, e per l’effetto di una prospettiva temporaneamente chiarificatrice. “Alluminio, amici miei!” Grideranno allora i più dotati di un spirito d’osservazione, valido a identificare quella che può essere soltanto, per la legge del rasoio di Occam, un’opera d’arte costruita dall’uomo. Nella valida persona del cinese naturalizzato cittadino di Francia, Huang Yong Ping (1954-2019) già creatore nel corso della sua lunga carriera di una vasta produzione valida ad interpretare i possibili significati dell’esistenza, la corrente condizione delle cose ed una possibile via utile a risolvere i problemi che gravano sull’avvenire di tutti. Attraverso un linguaggio fatto di metafore, spesso mirate a distruggere lo status quo come anche esemplificato dalla sua famosa citazione: “Distruggi l’Oriente con l’Occidente, ed annienta l’Occidente usando l’Oriente” benché sia particolarmente difficile negare il più evidente dei suoi messaggi in aggiunta a una ricerca estetica di un tipo spesso insostanziale per le chiare influenze dadaiste: che ogni cosa che facciamo, grava sulla quantità di possibilità che ci rimangono, avvicinando progressivamente l’ora del rimpianto. Finché l’unica specie che potrà restare per pagare il pegno di tanti e tali gesta, sarà proprio la nostra, cui non resterà che andare incontro ai più giganteggianti antenati e serpenti marini di un tempo. Messaggio assai più reazionario di quanto si potrebbe essere indotti a pensare, se si considera la maniera in cui questo artista scelse di auto-esiliarsi dal suo paese natìo nel 1989 mentre si trovava per una mostra in Francia, proprio mentre a Pechino si compivano i famosi e tragici fatti della strage di Tienanmen. Poiché giammai, la censura di stato riesce a ben sposarsi con il ruolo e l’obiettivo degli artisti, soprattutto quelli che possiedono una storia da raccontare. Tanto maggiormente problematica, per la sua obiettiva ed eccessivamente chiara veridicità…

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Il piccolo anfipode, drago senza collo che vive sotto i ghiacci eterni del Polo Sud

Essere toccati da un fantasma non può essere in alcun caso un’esperienza piacevole, ma risulterà ancor meno tale nel caso in cui l’ectoplasma in questione dovesse tangere le nostre membra mentre sono immerse nell’acqua bassa sulle rive dell’Oceano, dove potrebbe sembrare che qualsiasi cosa possa accadere. Vedi il caso del giovane australiano Sam Kanizay, che ad agosto del 2017 sentì il bisogno di dirigersi di corsa verso il bagnasciuga, avvertendo uno strano senso di debolezza agli arti inferiori. Soltanto per rendersi conto con estremo ed improvviso senso dell’orrore, della scia di sangue che stava lasciando sulla sabbia della spiaggia Melbourne, da quelle che sembravano essere un migliaio o più di piccolissime ferite sui suoi piedi e caviglie. Trasportato rapidamente all’ospedale, e sottoposto a cure rapide ed efficaci, il ragazzo restò quindi un enigma per il personale medico finché a qualcuno non venne in mente l’ipotesi che, per quanto improbabile, sembrava essere a tutti gli effetti l’unica possibile spiegazione: che il fantasma non fosse stato solamente uno, bensì svariate centinaia. Se non addirittura migliaia, che si trovavano per qualche strana ragione ben lontano dal loro naturale habitat d’appartenenza. Rappresentanti dell’ordine di creature, non dissimili da insetti abissali, che il senso comune è solito chiamare per antonomasia “pulci di mare”, sebbene tale coppia di termini sia in genere riferita ad una particolare specie di appartenenza soprattutto terrestre, il Talitrus saltator che abita le spiagge di una buona parte dell’emisfero settentrionale. Lasciando come alternativa più omnicomprensiva il nome scientifico di Anfipodi, o Amphipoda, spesso riferito a questa intera categoria di circa 10.000 specie di crostacei, dalle caratteristiche particolarmente distintive, per non dire addirittura uniche nell’interno regno animale. Creature estremamente specializzate ma comunque versatili, nella miriade di forme verso cui è riuscita a condurle l’evoluzione, questi esseri dalle dimensioni raramente superiori a quelle dei due o tre centimetri presenterebbero una forma superficialmente simile a quella di gamberi o aragoste, se non fosse per l’assenza di una parte fondamentale del loro corpo: la calotta protettiva situata nella parte superiore nota come carapace, entro cui dovrebbero trovarsi raggruppati tutti gli organi vitali e la testa. Lasciando piuttosto ben visibile agli eventuali predatori i loro 13 segmenti raggruppato in testa, torace ed addome, ricoperti di spine draconiche e compressi in senso laterale salvo alcune rarissime eccezioni, vedi l’intera famiglia dei Cyamidae o “pidocchi delle balene” (fatti per aderire nella maniera più idrodinamica possibile al grande corpo degli enormi mammiferi oggetto delle loro attenzioni). Corpo da cui si diramano ben otto paia di zampe aguzze, la metà delle quali rivolte in avanti e l’altra metà indietro, da cui viene per l’appunto il nome scientifico composto dalle parole greche ἀμφί (“diverso”) and πούς (“piede”), atta a sottolineare la natura disparata di una tale configurazione deambulatoria. O per meglio dire natante, come anche favorito dalla tre paia di uropodi situati in corrispondenza della coda, ben divisi tra di loro e dunque incapaci di formare un singolo ventaglio o pinna propulsiva, come nel caso dei gamberi o altri crostacei maggiormente familiari agli umani. Che gli anfipodi siano un gruppo di creature relativamente poco note alla scienza nonostante la loro distribuzione cosmopolita è una cognizione che ritorna periodicamente alla ribalta, come avvenuto l’ultima volta con lo studio pubblicato nel 2017 dai due naturalisti Cédric d’Udekem d’Acoz e Marie Verheye dell’Istituto Reale Belga delle Scienze Naturali, che a fronte di una singola spedizione a bordo della rompighiaccio Polarstern, presso le propaggini esterne del più gelido e remoto dei continenti meridionali, riuscirono a raccogliere e catalogare ben 27 nuove specie di queste minuscole e scattanti creature, tutte appartenenti alla famiglia degli Epimeriidae, genus Epimeria. Rendendo istantaneamente palese quanto poco, in realtà, sappiamo in merito ai confini del loro famelico e zampettante approccio nei confronti dell’esistenza…

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La tartaruga sputafuoco incaricata di custodire il cuore segreto della Provenza

E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…

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