I formichieri più piccoli che abbiate mai visto

Baby Tamandua

Tra tutti gli animali mostrati finora nella nuova serie di video per Internet del documentarista Coyote Peterson, incentrata sui cuccioli di ogni provenienza e specie, questo potrebbe essere definito come il più grazioso: un quadrupede di circa 30 cm di lunghezza coda inclusa, dal pelo corto di color argenteo e le piccole orecchie del tutto simili a quelle di un maiale, se non fossero molto più piccole anche in proporzione. Gli occhi neri e un muso molto, molto strano. Così sottile ed appuntito che sarebbe lecito arrivare a chiedersi, ma questa creatura ce li ha i denti? Risposta, niente affatto.Appartiene, dopo tutto, all’ordine degli xenartri, comunemente noto quello degli sdentati; il nome della sua specie è Tamandua tetradactyla (dalle quattro dita) e vive normalmente in Sud America, tra Venezuela, Trinidad, Argentina, Uruguay e Brasile meridionale. Dove si moltiplica con estremo trasporto nonostante le difficoltà, non risultando essere tutt’ora, per fortuna, in alcun modo a rischio d’estinzione. Il che non significa questo specifico esemplare, nel corso della sua breve vita, non abbia già dovuto affrontare un significativo problema della convivenza con gli umani: i nostri amici cani. Non è infatti un caso se la scena qui mostrata si svolge all’interno dell’Alturas Wildlife Sanctuary, un centro di soccorso faunistico della Costa Rica, dove il piccolo è stato trasportato per un periodo di riabilitazione, dopo aver perso la madre a causa di un malcapitato scontro con un randagio. Situazione tutt’altro che rara, tra l’altro, in ciascuno nei paesi citati, dove spesso gli abitanti locali scelgono di eliminare i tamandua a vista, proprio per evitare che i loro animali domestici possano rischiare di avere la peggio. Si tratta, del resto, di animali molto territoriali, che da adulti misurano fino a un metro e mezzo di lunghezza, e tendenzialmente non cedono il passo più di quanto potrebbe farlo un porcospino o un tasso. Uno degli appartenenti alle due specie viventi di tamandua (l’altra è il Tmexicana) quando minacciato, ha l’istinto pressoché immediato di alzarsi in piedi sulle zampe posteriore, allargando quelle anteriori per sembrare più grande. Quindi, da questa posizione simile a quella di un lottatore, inizia a colpire all’indirizzo del percepito nemico, potendo arrecare danni significativi con i suoi artigli notevolmente acuminati, utili per arrampicarsi e scavare. Esiste in effetti almeno una casistica in cui il cugino maggiore di questi animali, definito non a caso il formichiere gigante (33-41 Kg) ha aggredito e ferito gravemente un uomo. Di tutta questa potenziale furia, tuttavia, non c’è traccia nel piccolino incontrato da Peterson, che si lascia seguire, accarezzare e riprendere per oltre 6 minuti, finendo per assumere gli atteggiamenti di un grazioso animaletto domestico. Cosa che comunque, non è, sopratutto vista l’intenzione del centro di arrivare a rimetterlo in libertà entro un paio di mesi, ovvero una volta che sia cresciuto a sufficienza da supportarsi in autonomia. Cani sciolti permettendo.
Perché la vita del formichiere, come potrete facilmente immaginare, non è affatto semplice. Pensate voi a questa creaturina di 8-9 Kg, che trascorre la maggior parte della propria vita sopra gli alberi, e continuamente deve avventurarsi alla ricerca di formicai da razziare per il proprio sostentamento. Affinché il cibo possa risultare sufficiente al loro sostentamento, in effetti, tutte le specie di formichiere devono continuamente proseguire la sua ricerca, fermandosi ad ogni occasione d’inserire la loro lunga lingua in un buco e trarla fuori, con la massima soddisfazione, letteralmente ricoperta di zampettanti artropodi perfetti da fagocitare. Una volta che le formiche reagiscono ed iniziano a morderlo, quindi, il tamandua si sposta altrove. Esso preferisce sempre non distruggere completamente un nido, affinché possa ritornarvi più tardi per un pasto successivo. La scena delle sue operazioni, a vederla di persona, risulta essere particolarmente singolare ed interessante…

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Mini canguri che vivono sul tetto della foresta

Tree Kangaroo

Molto prima che esistessero i telefonini, precedentemente all’invenzione della realtà aumentata e della localizzazione GPS, ma che dico, persino prima ancora che l’umanità muovesse i suoi primi passi eretti lungo l’ardua marcia dell’evoluzione, già c’era in questo mondo una creatura che voleva “Catch’em, catch’em all!” Era un incubo vivente, tutta artigli, il becco acuminato, i muscoli possenti, le corna, le zanne, gli aculei lungo il dorso e sulla coda. Enorme e rapida, o strisciante, silenziosa. Lieve sull’ali e rapida su zampe, rotolante oppure anfibia quando ritenuto necessario. Sapete di chi sto parlando, vero? Il super-predatore, l’essere supremo di ciascun ambiente naturale. Di cui nulla, o nessuno, poteva fare a meno di considerare la presenza. Meno che tutti, il pademelon (genus Thylogale) piccolo mammifero marsupiale del Queensland, del Nuovo Galles e della Nuova Guinea, un soffice peluche ballonzolante dalle orecchie a punta, il peso di una decina di chilogrammi, ovvero giusto quanto basta per portare un cacciatore a sazietà. Per non parlare degli splendidi cappelli, scaldamani o mantelli, che un aspirante commerciante tessile poteva creare dal suo grigio pelo. Una vera ottima creatura. C’è stato un tempo in cui, presso le isole di Aru, essa veniva chiamato philander, ovverosia l’amica dell’uomo, per i molti modi in cui poteva essergli utile, ovviamente, morendo. Non che avesse avuto, neanche in precedenza, questa innata vocazione all’auto-annientamento, ma semplicemente, un animale tanto tenero ed inerme, così privo di risorse difensive, non poteva fare altro che perire ed accettare il suo destino. A meno che… Rivoluzione, mutazione, cambiamento! Successe dunque verso il periodo dell’Eocene (56-33,9 milioni di anni fa) che il vasto continente di Oceania stesse andando incontro ad un periodo di secchezza precedentemente sconosciuto. E che così, tutti i migliori Pokèmon del circondario avessero l’unica scelta possibile di ritirarsi verso l’entroterra, dentro all’umido ed ombroso ambiente della tipica foresta tropicale. Un ambiente che si offriva a un’interpretazione estremamente vantaggiosa… Salire? Balzare in alto, allontanarsi dallo sguardo carico di bramosìa dei molti famelici abitanti di quest’altro inferno in Terra. Così nacquero i primi Petrogale, un tipo di pademelon che poteva brucare indifferentemente da un più vasto catalogo di vegetali, ponendo quindi la sua residenza sulla cima delle alture, più lontano dal pericolo e dai predatori. Tra questi ultimi, quindi, alcune specie iniziarono a imparare il modo di salire sopra gli alberi, mettendosi ulteriormente al sicuro. Una di esse, il P. Persephone (in realtà non più un pademelon, ma un wallaby) iniziò quindi a preferire la sicurezza dei più alti tronchi, mentre la progressiva segregazione del suo habitat, con il progressivo ridursi delle foreste a seguito dei mutamenti climatici della Preistoria, lo portò a un ulteriore specializzazione. Ed è da lui, passando per la specie di piccolo canguro nota come Bohra, che ebbe modo di evolversi l’attuale genus dei Dendrolagus, comunemente detti tree kangaroos per la rarità con cui è possibile vederne uno all’altezza del suolo, distante dalle fronde che costituiscono la sua residenza, cibo e metodo spontaneo di camuffamento.
Per farsi a questo punto un’idea più precisa di ciò di cui stiamo parlando, ritengo, non c’è modo migliore che osservare il video sopra riportato dello zoo di Saint Louis, in cui la giovane madre-canguro Kasbeth mangia serenamente del bambù, mentre la piccola Nokopo, figlia unica, allunga la manina dalla sacca in cui rimarrà fino all’età di 41 settimane, nel tentativo di accaparrarsi una seconda porzione del soddisfacente cibo. Le due appartengono alla specie di Matschie, una di quelle più rare e maggiormente a rischio di estinzione. Così la prima impressione che si potrebbe avere, nel prendere atto di una tale scena, è quella di trovarsi innanzi a un vero e proprio animale di fantasia…

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Cose da sapere prima di toccare il cane-papera australiano

Platypus

Certo non è altamente probabile che voi abbiate già programmato, in questo specifico momento, di partire per lo stato sud-orientale dell’Australia, Victoria, al fine di recarvi presso lo zoo-santuario di Healesville, l’unico luogo al mondo dove sia permesso al pubblico di accarezzare e coccolare questo graziosissimo animale. Del resto tutto è possibile, chissà. E poi, l’ornitorinco dal becco d’anatra, così chiamato per distinguerlo da un suo antenato che l’aveva più sottile, non è propriamente una creatura rara. Benché schiva, e abile a nascondersi nel suo naturale habitat di fiume. Cosa estremamente comprensibile, quando si considera che i predatori a cui deve sfuggire includono serpenti, topi d’acqua, piccoli varani, aquile, falchi e gufi. Mentre lui è dopo tutto, nonostante le apparenze, un piccolo mammifero che mangia soprattutto vermi. Che cosa potrebbe mai riuscire a fare, per difendersi? Beh, tanto per cominciare…Può ricorrere al veleno. L’incontro con un Ornithorhynchus anatinus è del tipo che può rimanere MOLTO impresso nella mente. A causa dei due speroni calcarei, nascosti presso l’articolazione delle sue zampe posteriori, in grado di secernere la speciale sostanza che interagisce direttamente con i recettori del dolore della vittima, causando una sofferenza che neanche la scienza medica può mitigare. Il veleno in questione non attacca i nervi, non addensa il sangue e non è tale da mettere (generalmente) in pericolo un essere umano adulto, ma nella peggiore delle ipotesi, ci si può ritrovare a soffrire gravemente per settimane o mesi. Fa tanto più impressione, dunque, osservare questo attimo di tenerezza condiviso fra l’ospite più rinomato della prestigiosa istituzione e una persona che, a giudicare dalla breve descrizione del video, si trovava lì nel corso di una visita turistica della regione. Ovvero in parole povere, non lavorava lì. Com’è possibile? Qualcuno ipotizza, nei commenti, che l’animale potesse essere “stato operato” quando in realtà non esiste nessun tipo d’intervento che possa privare questo piccolo armigero delle sue fiocine incorporate. Quindi, per fortuna, non è così.
Si tratta di un mistero, tuttavia, davvero semplice da chiarire: sia i maschi che le femmine hanno gli speroni. Ma soltanto i primi, per ragioni largamente ignote, dispongono della capacità di usarli assieme col veleno. E del resto anche loro, perché mai dovrebbero, vista la vita pacifica che conducono fra queste mura! Cibo gratis tutti i giorni, gente sempre nuova da conoscere, nessun tipo di mancanza; tranne, ovviamente, quella fondamentale della libertà. Non credo, del resto, che la controparte tangibile del Pokémon Psyduck, meno il colore giallo ed i poteri mentali telecinetici, abbia la stessa notevole capacità d’introspezione. Perché in realtà, è inutile tentare di negarlo, come potrebbe averne mai bisogno….Quando ha già, praticamente, TUTTO il resto: il becco simile a quello degli uccelli anseriformi (quack, quack) il pelo impermeabile della lontra, la coda in grado d’immagazzinare il grasso nello stesso modo del castoro e delle zampe che sono dotate, in contemporanea, di artigli e strutture palmate, per muoversi quasi altrettanto bene in acqua e sul terreno del selvaggio sottobosco. Cosa che l’animale fa più raramente, benché la sua natura spiccatamente territoriale, unita al bisogno di nutrirsi di continuo, lo portino talvolta a vagheggiare. E non siamo ancora giunti alla caratteristica più singolare: l’ornitorinco può percepire l’elettricità, non importa quanto fioca e distante. Questo grazie proprio alla caratteristica dominante della sua fisionomia, quel becco morbido che in realtà non potrebbe essere più differente da ciò a cui assomiglia tanto da vicino. È una dote condivisa, questa, con l’intero genere dei Monotremi, mammiferi primitivi di cui sopravvivono a questo mondo unicamente quattro specie; tre delle quali, sono echidne. Mentre l’altra, eccola qui.
Così, passando da queste parti, considerate in primo luogo di trovarvi all’essere più prossimo al concetto medievaleggiante di chimera, quindi confermate che sia appartenente al sesso femminile. In una situazione simile, immagino che dovrete fidarvi! Fatto questo, siete pronti a dargli da mangiare con le vostre stesse mani. Conoscere la parte residua della storia è più che mai facoltativo, superfluo, distraente. Eppure, così dannatamente interessante….

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Nella steppa: un gatto peloso dallo sguardo umano

Manul

C’è qualcosa di davvero insolito, qui. Una creatura selvatica non dovrebbe apparire magnifica e stupendamente sgraziata, con il pelo lungo che ingoffisce, le zampe corte, le orecchie quasi invisibili, la corporatura tondeggiante di Garfield e una sinuosa, quanto inutile, coda con gli anelli neri. Non ti aspetteresti certo di trovare, tra i terreni più remoti della Mongolia, del Tibet, del Transbaikal siberiano, di Kyrgyzstan, Pakistan, Kazakhistan e Kashmir, la ragionevole approssimazione di un gatto persiano, all’apparenza degno di partecipare ad una gara di bellezza tra le razze feline, tra bagnetto, croccantini e un sonnellino sul divano. Eppure, stiamo parlando di un animale abituato a vivere in completa solitudine, anche a un centinaio di chilometri dagli altri membri della propria specie, compagna per l’accoppiamento esclusa, ed ancor più lontano da qualsiasi cosa possa essere chiamata “insediamento umano”. Buon per lui, visto come la folta pelliccia sia stata in passato, per gli uomini del luogo, un sinonimo di ottimi cappelli o colli delle giacche (pure femminili) portando la creatura ad uno stato di conservazione necessariamente poco noto, eppure rientrante nello spazio degli animali potenzialmente a rischio d’estinzione. Stiamo parlando, per essere chiari, del Ману́л (Manul) l’essere più spesso definito con il nome del suo scopritore Peter Simon Pallas (1741-1811) naturalista di Berlino che visse e lavorò per lungo tempo in Russia. Finendo per donare il proprio appellativo, tra le altre cose, a uno scoiattolo, un cormorano, un’aquila, due tipi di pipistrello, al misterioso uccello, simile a una pernice, che Marco Polo aveva definito il Bugherlac e addirittura a un meteorite del tipo più fantastico, di cui parlammo in questa sede qualche tempo fa. Ma la sua classificazione più famosa, in quest’epoca in cui niente vende quanto l’impronta tipica del polpastrello dei felini, resta il qui presente insolito mammifero, pieno di risorse come i suoi compagni maggiormente prossimi al nostro contesto geografico, per lo meno all’epoca distante della loro vita nel selvaggio sottobosco. Benché il distante cugino russo, di problemi debba affrontarne alcuni molto significativi, tra cui un clima che tende a far sostare il termometro, in determinati luoghi, anche attorno ai -20 gradi. O per brevi periodi, molto meno di così.
Di certo deve costituire una visione quasi ultramondana: con la testa dalla forma stranamente tondeggiante e il volto piatto, a tal punto che alcuni tendono a scambiarlo, la prima volta e da lontano, per un qualche tipo di primate. Ha persino gli occhi tondi, invece che a fessura, come i nostri gatti casalinghi! Un tratto comune ad alcuni grandi felini, quali il leopardo, ma del tutto unico per un gatto del peso massimo di 4 Kg e mezzo, ovvero esattamente come i nostri coabitanti con lettiera e scatola dotata di maniglia da trasporto. Tra le altre differenze, meno denti nella parte inferiore della bocca, con l’assenza del primo paio di premolari, ma denti canini dalle dimensioni decisamente maggiorati. Ah, si, c’è un altro piccolo dettaglio: il nostro eroe, piuttosto silenzioso, può emettere talvolta rari versi di richiamo, se si spaventa o vuole avvisare la compagna di un pericolo imminente. In quel caso, si può dire, più che miagolare, abbaia. Davvero! Il sito del Telegraph dispone di un breve spezzone con registrazioni audio, che pare la testimonianza di un irrequieto branco di bassotti, indispettiti per il freddo e le sgradite circostanze. Mentre un gatto come questo, è molto raro che si perda d’animo. Il Manul che, come potrete immaginare in funzione delle corte zampe, non è un grande corridore, tende a reagire alla venuta di eventuali predatori con un certo grado di furbizia: se possibile, si nasconde tra le rocce o nelle tane di altri animali, come le marmotte. In assenza di questa possibilità, cerca di mimetizzarsi, restando immobile anche per lunghi periodi. Le testimonianze di chi li ha studiati, nel loro ambiente naturale, sono piene di frangenti in cui il gatto, adagiandosi in prossimità di tronchi o collinette scelte ad arte, è letteralmente scomparso dagli occhi dell’osservatore, come la creatura sovrannaturale che potrebbe ricordare, nell’aspetto, le movenze e l’insolito stile di vita.

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