Continua la sfida uomo-macchina sui tabelloni del Go

AlphaGo Second Match

Quando saranno passate circa tre ore dal caricamento di questo post, si sarà conclusa tra i fasti dell’hotel Four Seasons di Seul la seconda delle 5 partite previste tra Lee Sedol, l’attuale secondo praticante più forte al mondo del gioco del Go (nonché campione del mondo) e AlphaGo, il potente software fuoriuscito dai laboratori dell’azienda DeepMind, acquistata nel 2010 da Google nell’ottica dei suoi recenti esperimenti nel campo dell’intelligenza artificiale. L’una dopo l’altra, le pedine bianche e nere stanno trovando posto sulla griglia 19×19, con un ticchettìo attraente che richiama la musica stessa della creazione. Non è questo, che l’ennesimo capitolo della presente, passata, futura sfida tra metallo ed organismi, silicio e idrocarburi, calcoli automatici e ragionamento. Ma di un tipo che potrebbe, molto probabilmente, entrare a pieno diritto nella storia non soltanto di questo antico gioco, o di quella della tecnologia applicata alla simulazione dei cervelli umani, ma nella stessa cronaca di quello che ci aspetta di qui a poco, al giro instabile del susseguirsi generazionale. Il fatto è che chiedendo cosa si aspettavano ai conoscitori di entrambi i settori citati, diciamo verso la metà dell’anno scorso, tutti avrebbero concordato in un pronostico di questo tipo: “Ah, si, le macchine! I computer sono molto intelligenti. Ma non succederà mai che uno di loro, in un tempo prossimo e imminente, possa riuscire a sconfiggere un professionista del più imprevedibile, complesso e astratto gioco della storia…” Il problema fondamentale, in effetti, è che benché il Go possa essere codificato con la matematica (dopo tutto, cosa non lo è) se tradotto in questi termini diventa essenzialmente ingestibile, persino alla mente artificiale più complessa del mondo. Considerate questo: in una partita a scacchi, al primo turno, un giocatore ha disponibili esattamente venti mosse, destinate a calare col procedere della partita. Un giocatore di Go, invece, ne ha 55 se si considera la simmetria. Ma non appena questa verrà a mancare, inevitabilmente dopo i primi due minuti di gioco, egli dovrà iniziare a considerare come possibili bersagli per le sue pedine tutti e 361 gli incroci della griglia di gioco.
Problema certamente complesso, se si cerca di impiegare una strategia ben precisa da implementare con le nostre mani in carne ed ossa, ma praticamente irrisolvibile coi metodi impiegati normalmente dai software che ricevano l’incarico di far faville su scacchiere, tabelloni o così via. Immaginate, come riferimento, il tipico funzionamento di un programma scacchistico, come per esempio l’ultra-popolare Fritz, ormai giunto alla sua quindicesima versione. Un software che, essenzialmente, simula partite a gran velocità. Ciò che è stato concepito per fare, infatti, dal momento in cui riceve l’incarico di fare muro contro l’avversario di turno, è costruire virtualmente una struttura ad albero di possibili risultanze, in cui ciascuna mossa conduce a nuove ramificazioni. Quindi esso valuta, all’interno di un simile sistema, tutte le mosse future dell’avversario fino al finale di partita, ancòra e ancòra e… Ora, un’affermazione spesso ripetuta per il gioco del Go, particolarmente amata e ripetuta, per comprensibili ragioni, da Demis Hassabis, uno dei capi del progetto AlphaGo, è che “Ci sono più possibili combinazioni in una partita di questo gioco, che atomi nell’universo intero.” Certamente un’esagerazione, se mai se n’era vista una prima d’ora. Eppure, difficile negarlo, anche un’affermazione con l’indubbia capacità di rendere l’idea. Nel frattempo, tuttavia, è la stessa performance del suo figlioccio, l’inquietante sistema di calcolo che è in realtà qualcosa di totalmente differente, a sembrare smentire i nostri preconcetti sui limiti del finto-pensiero: già ad ottobre del 2015, contrariamente a tutti i pronostici, il sistema di calcolo distribuito messo a disposizione da Google (un numero imprecisato, e probabilmente elevatissimo, di computer collegati a distanza per un fine comune) ha sconfitto Fan Hui, il campione europeo di Go, valutato al secondo dei nove “dan” possibili nella graduatoria dell’abilità umana. Che potrebbe anche sembrare relativamente poco, se non fosse per l’alta competitività dei massimi livelli della disciplina, che vedono assegnati premi di diverse centinaia di migliaia di dollari anche soltanto per un singolo torneo. Ma tutto questo non era ancora nulla, se comparato con l’esito del match di ieri, in cui AlphaGo ha sconfitto per la prima volta quello che potrebbe rivelarsi, nell’immediato futuro, il suo avversario più difficile in assoluto.

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A.D. 2015: gli eroi robotici diventano realtà

Hubo DRC

Scansiona la maniglia con il suo singolo occhio rotativo, alza il polso snodabile a 360 gradi, muove la pinza in avanti di 40 cm, poi la stringe saldamente e preme in giù. È…Aperto? Inginocchiato innanzi all’uscio del futuro, HUBO DRC, il più fantastico dispositivo antropomorfo coreano. Frutto dell’opera di ricerca e sviluppo del team KAIST (Korea Advanced Institute of Science and Technology) di Daejeon, ma il cui acronimo nel nome sta per le tre fatidiche parole Darpa, Robotics e Challenge. Si trattava di una sfida internazionale pensata per stimolare la ricerca, tenutasi dinnanzi all’intero gotha tecnologico corrente, della quale il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza l’eguale. C’erano (quasi) tutti al Fairplex di Pomona, gli scorsi 5 e 6 giugno: Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, anche noi italiani con un pregevole progetto dell’Università di Genova, il Walk-Man. Ma nessuno, alla fine, ha potuto prevalere contro il rappresentante della penisola orientale della lunga dinastia Joseon. È preciso, reattivo, responsabile. Quello che non riesce a fare, per il momento, sembrerebbe affrettarsi in molti dei suoi compiti, almeno a giudicare dal presente video in timelapse, riduzione a un tempo di quattro minuti e mezzo di quello che in origine richiese esattamente 10 volte tanto. Ma quando questa macchina realmente fa qualcosa, guardarla è uno spettacolo davvero illuminante. Non per niente, a seguito di questa complessa e variegata performance, i suoi costruttori provenienti dal semplice ambito accademico hanno incassato dall’agenzia statunitense organizzatrice un assegno di ben 2 milioni di dollari, probabilmente già investito in parte per migliorare ulteriormente la manifestazione metallica più celebre al momento. E il resto, chi lo sa… Guardatelo, mentre scende dall’automobile elettrica, con leggiadrìa del tutto comparabile a quella di un anziano di 95 anni! Pensate che soltanto questa operazione, molto più complessa di quanto potrebbe sembrare in teoria, soprattutto per un essere animato da molte decine di motori indipendenti, ha richiesto innumerevoli tentativi fallimentari portando al sovraccarico lesivo di costosi componenti. Finché non si è giunti a questo compromesso, degli esattamente 100 Newton di potenza per ciascun braccio, validi a risolvere il problema in tempo utile, se non proprio fulmineo. Ciò che viene dopo, poi, è semplicemente straordinario.
Nel progetto tecnico del KAIST, s’intravede la sapienza di chi interpreta i regolamenti non tanto con la logica, come in effetti non sarebbe mai il caso di fare, ma perfettamente alla lettera, cercando il metodo migliore di superare le aspettative dei giudici di gara. “Ah, si?” Deve essersi detto silenziosamente il Prof. Jun Ho Oh, caposquadra dell’operazione: “Dobbiamo costruire un robot che sia in grado di guidare, aprire una porta, impiegare attrezzi, superare un tratto ricoperto da detriti vari e poi salire le scale?” Mumble, mumble: “E chi ha mai detto che dovrà fare tutto questo, camminando?” Quindi, ecco il colpo di genio: l’HUBO (il cui primo nome, con scelta veramente originale nel suo campo, non è in effetti l’acronimo di nulla) è sostanzialmente in grado di trasformarsi, esattamente come i mecha dei cartoni animati giapponesi, benché in modo meno drammatico e spettacolare. Nei momenti in cui deambula sul suo tragitto, infatti, piuttosto che affidarsi alla rischiosa operazione di mettere un piedi innanzi all’altro, costata rovinosi capitomboli a diversi dei suoi temutissimi rivali, il robot poggia le ginocchia a terra, sfruttando le ruote che incorpora poco più sotto per procedere sicuro verso il suo obiettivo. Quasi tutto nei suoi sistemi è stato concepito appositamente per la sfida presente, a differenza di quanto fatto da molti dei team concorrenti, che si sono limitati ad adattare ciò che avevano di pronto, oppure a potenziare in vari modi l’ormai celebre robot umanoide Atlas della DARPA stessa, che era stato fornito dopo le eliminatorie, assieme a dei finanziamenti, alle migliori squadre statunitensi (ce n’erano ben 11), al team dell’Università di Hong Kong e a quello misto USA-Germania dei VIGOR, che l’ha subito colorato di rosso e gli ha dato il nome Florian, da quello del santo protettore dei pompieri.

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È quasi pronta la nave più grande del mondo

FLNG Prelude

Nel mare a largo della grande città sudcoreana di Busan (oltre tre milioni di abitanti) c’è un arcipelago di isole, tra cui la più grande ha nome di Geoje. Disseminato lungo gli spazi affioranti a disposizione, in una serie di insediamenti relativamente indipendenti, si sviluppa l’omonimo centro abitato, ricco di attrattive turistiche e beni storici attentamente preservati, tra cui diverse fortezze delle vecchie dinastie Silla e Joseon. Nonostante questo, nella mente di chi ha conosciuto tali luoghi, niente li caratterizza maggiormente che una singola ed enorme impresa dell’industria moderna: la costruzione di natanti. Perché qui hanno sede le Samsung Heavy Industries, di proprietà del più grande conglomerato coreano, che noi conosciamo pressoché soltanto per l’elettronica di consumo, ma il quale ha in realtà il potere economico, e la capacità produttiva, di una piccola nazione. Doti certamente necessarie, all’apparenza, per l’impresa di creare una spropositata città galleggiante, su progetto della multinazionale olandese Shell, ma con rilevanti partecipazioni dei gruppi INPEX, (17,5%) CPC (5%) e KOGAS (10%). Il suo nome è FLNG Prelude, e dall’ormai distante 2012 in cui ha preso il via la sua effettiva messa in opera, sta sfidando l’immaginazione. Con una lunghezza di 488 metri, supera di molto quella delle portaerei statunitensi di classe Nimitz (331) e addirittura si estende oltre l’altezza degli iconici grattacieli gemelli delle Petronas Towers di Kuala Lumpur (451). Il suo peso a pieno carico inoltre potrà raggiungere le 600.000 tonnellate, circa sei volte quello della portaerei. Questo perché sopra il suo scafo a doppio compartimento, largo 74 metri, troveranno collocazione l’intera serie di macchinari di un impianto per la liquefazione dei gas naturali, utile a comprimerne l’ingombro per il trasporto su scala globale. Un tipo di struttura che normalmente comporta un impatto ambientale assolutamente impossibile da trascurare, mentre questa soluzione offre flessibilità, riduce le possibili tensioni socio-politiche, permette il reimpiego dei macchinari a seguito dell’esaurirsi di un particolare giacimento. Ma soprattutto, è perfetta per essere spostata in quei luoghi ricchi di risorse chimiche a largo delle terre emerse, che ci sono noti ormai da tempo, ma i quali risultavano troppo lontani e quindi impossibili da sfruttare con i metodi convenzionali. In questo, la nave in questione costituisce l’espressione chiara e lampante dell’imminente esaurimento di tutto ciò che abbiamo sfruttato fino ad ora, con l’industria di settore che deve ricorrere a nuovi metodi per irrorare il mercato. È dunque pur sempre possibile che si palesi, nel corso delle prossime generazioni, il classico quanto temuto scenario che vede l’immediata cessazione dell’attuale stato di grazia, in cui tutti si spostano con mezzi di trasporto personali, le città possono permettersi d’illuminarsi per tutta la notte. Ma non tanto presto, non prima dell’esaurimento delle riserve nascoste sotto al bacino di Browse, a 200 Km dalla costa dell’Australia. In tale luogo dovrà essere posizionato, infatti, questo impressionante gigante dei mari, a partire dal giorno del suo imminente completamento, per andare a risucchiarne il prezioso contenuto per un tempo stimato di 20-25 anni.

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Che succede se si strucca un occhio coreano

Korean Eye

In un mondo all’incontrario, ciascuno di noi nascerebbe con già iscritto nel suo codice genetico l’aspetto che considera ideale. Piuttosto che dover convivere con l’ansia, e modificare i ritmi della propria vita, sulla base di quel desiderio apparentemente futile ma totalmente innato, l’anèlito profondo ad apparire affascinanti, saremmo sempre come truccati, all’ora del risveglio. I capelli perfettamente a posto, il rossore delle labbra pari a quello di una superba ciliegia appesa all’albero della cuccagna. Ma poiché il mondo invertito e quello perfetto, nel confronto dei reciproci bisogni, non si trovano in cantoni paralleli o sui pioli della stessa scala, da un tale ipotesi trarrebbe origine la tale problematica: il bisogno, ad ogni fine di giornata, d’applicare su stessi un metodo d’imbruttimento (per lo meno, percepito) e ritornare ad uno stato di apparenza inadeguata. Così YouTube, con i suoi ricchi archivi di ragazze intente ad applicarsi ombretto, due dita di mascara e make-up assortito innanzi all’obiettivo della telecamera, mostrando tecniche acquisite con la pratica e l’impegno, pullulerebbe invece della soluzione contrapposta: loro che immediatamente concentrate, come guidate da una forza e una pulsione senza un senso, tenterebbero di ritornare un po’ “normali”. Scene esattamente come questa, realizzata per gioco da una ragazza coreana e circolata su scala globale tramite i soliti canali imponderabili dei media virali, in cui lei si toglie il trucco laboriosamente, da una sola parte del suo volto e tutto intorno all’occhio destro. Bagna una salvietta e la strofina, in senso circolare e dunque longitudinale, scosta i suoi capelli e poi la passa sulla fronte. Stranamente, a un certo punto, quella cosa la preme con forza sulla palpebra e poi lì la lascia, per 5, 10, 15 secondi. Trascorso un tale tempo, scopre ciò che resta del suo volto e per un attimo, un secondo solo, lo spettatore resta senza fiato: l’occhio destro, praticamente, è scomparso. Ciò non significa, del resto, che la damigella in questione tale bulbo ce l’avesse soltanto dipinto, o di vetro e cose simili. Si tratta soltanto della cessazione di una sorta di effetto speciale, con l’enfasi aggiunta del fatto che l’altra parte del suo volto, volutamente risparmiata dal liquido struccante/il sapone/la trielina (o quel che è) resta esattamente come prima: con una proporzione occhi-naso-bocca che ci appare estremamente naturale. Pure troppo, soprattutto se si pensa che in effetti non lo è in alcuna etnia, tranne quella plasticosa delle bambole di Barbie! E tanto meno per un viso dalla provenienza asiatica, che da prassi logica dovrebbe presentare determinate caratteristiche somatiche, tra cui quelli che tanto prosaicamente, eppur con innegabile efficienza, il mondo definisce gli occhi a mandorla, ovvero sottili. E che un recente trend, sempre più diffuse nella triade più discussa dei paesi dell’Estremo Oriente (Cina-Corea-Giappone) tende a considerare evidentemente indesiderati, conduttivi ad un’estetica retrò…Spiacevole…Trascurata, assieme alla pelle scurita dal sole o un volto troppo grande e dunque considerato volgare. Il fatto è che un globo più compenetrato nella superficie di una faccia, ovvero protetto da una pelle spessa e un’orbita ossea meno pronunciata, ha bisogno di una palpebra meno estesa. Il che significa, nel momento della sua apertura, che quest’ultima non si ritrova a formare quell’evidente piega sopra la mezza sfera con pupilla innata in noi caucasici, una linea che connota e rende più evidenti certi movimenti delle sopracciglia. Il risultato? Per chi nota simili dettagli, intellettualmente privi di significato, il volto degli asiatici può apparire “bidimensionale” oppure “inespressivo”. E sono sempre di più i giovani, appartenenti ad entrambi i sessi, che si ritrovano a deprecare tale innata caratteristica del loro patrimonio etnico ed ereditario.
A questo punto della trattazione, di norma, si cita a margine di tale problematica il cartone animato ed il fumetto giapponese, che come non tutti sanno ha pure una sua controparte coreana successiva, il manhwa, diversa ma pur sempre dotata di alcuni significativi punti di contatto. Tra cui quello più determinante: la tendenza a disegnare gli occhi dei protagonisti principali come grandi, enormi sfere, totalmente ed oggettivamente sproporzionate rispetto al resto delle loro teste. Osamu Tezuka, il padre dell’animazione giapponese, aveva incluso questa caratteristica nel suo primo grande successo, il robot bambino Astroboy, mutuando dichiaratamente l’influenza dell’americano Walt Disney, che tuttavia, per trarre il massimo vantaggio da un simile ausilio alla caratterizzazione dei suoi personaggi, aveva invece scelto di ricorrere a figure solo vagamente antropomorfe (topi, anatre et similia). Ma la normalità, per purissime ragioni sociologiche, è un valore fluido e soggettivo. Così successe, nel giro di appena un paio di generazioni, che nascesse un intero mondo d’intrattenimento disegnato, in cui l’occhio ingigantito diventava la cosa più naturale del mondo, punto fermo di graziose scolarette, affascinanti donne, ma anche spietati cacciatori di taglie o mostruosi vampiri mutanti. Semplicemente, molti abitanti dell’Estremo Oriente iniziarono a vedersi così. Ciò doveva essere destinato a dare luogo ad una qualche forma d’eccesso, prima o poi…

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