Memorie americane dal periodo in cui fu costruito un reattore nucleare volante

Al termine del secondo conflitto mondiale, l’energia dell’atomo diventò in America il maestoso simbolo di un’evidente superiorità tecnologica nei confronti di qualsiasi altra nazione esistente. Colpiti nel profondo dalla potenza e pericolosità della Bomba, i figli dello Zio Sam guardavano verso i laboratori dove il genio fulgido veniva instradato verso nuove applicazioni con un senso di speranza e universale ammirazione, tale da sovrascrivere, o in qualche modo dimenticare le sue implicazioni più problematiche o terrificanti. A partire dal 1949 tuttavia, con il completamento da parte dell’Unione Sovietica del primo test nucleare perfettamente portato a termine in Kazakistan, soprattutto ai vertici dell’organizzazione bellica del paese, un serpeggiante senso di preoccupazione cominciò ad accompagnare il dilagante e incontenibile ottimismo generalista. Perciò all’ambizioso progetto dell’automobile a propulsione nucleare, il transatlantico nucleare ed il treno nucleare, s’iniziò a palesare nell’immaginario dei capi di stato maggiore un diverso tipo di velivolo, capace di portare a termine la consegna del proprio carico in qualsiasi momento, in qualsiasi punto del mondo, possibilmente già trovandosi a metà strada verso l’obiettivo finale. Dovete considerare come a tal proposito, già dai primi anni ’50 gli Stati Uniti avessero iniziato ad implementare i regimi operativi di quella che sarebbe diventata entro i successivi dieci anni la missione semi-permanente dal nome in codice Chrome Dome, consistente nel mantenere operativi 24 su 24 almeno 12 bombardieri con armi nucleari sopra l’Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nella regione del Mar Nero. Per quella che doveva essenzialmente rappresentare, sotto ogni punto di vista, la canna di una pistola puntata contro la testa del mondo. Questo perché prima dei missili intercontinentali, prima della geolocalizzazione, dei computer, dei sistemi di guida intelligenti, c’era un solo modo realmente affidabile per obliterare un’ipotetica superpotenza pronta a fare lo stesso con te, sostanzialmente invariata dai tempi dell’Enola Gay e Little Boy: sorvolare le sue città con dei velivoli di grosse dimensioni, abbastanza grosse da poter tenere a bordo l’ultima e più ponderosa di tutte le armi. Il che comportava costi e difficoltà logistiche tutt’altro che indifferenti, oltre al mantenimento di basi avanzate in territori spesso dalla sicurezza incerta ed impossibile da garantire successivamente all’inizio delle ostilità. Dal che l’idea, messa in pratica inizialmente a partire dal 1946, per il NEPA (Nuclear Energy for the Propulsion of Aircraft) il programma di ricerca tecnologico destinato ad essere ribattezzato entro cinque anni con la nuova sigla di ANP (Aicraft Nuclear Propulsion) capace di dare i natali a un mezzo capace di restare tra le nubi “abbastanza a lungo perché il suo equipaggio dovesse essere arruolato di nuovo” un’iperbole capace di nascondere in realtà l’assoluta e sostanziale rivoluzione delle aspettative giudicate ragionevoli nel campo dei bombardieri a lungo raggio. Il che avrebbe potuto richiedere, nell’idea programmatica a sostegno del progetto, un periodo stimato di circa 15 anni e l’investimento di svariati miliardi di dollari, senza considerare il rischio assai tangibile che nuovi sviluppi nel concetto stesso di guerra contemporanea portassero all’obsolescenza un simile sistema d’arma ancor prima che potesse staccarsi per la prima volta dalla pista di decollo. L’idea di poter disporre di un qualcosa di nuovo ed impressionante tuttavia, che i russi ancora non avevano e di cui probabilmente mai si sarebbero trovati a disporre, era un miraggio troppo affascinante per un campo di ricerca che doveva fare rapporto solamente al Presidente ed i suoi incaricati di rango più alto. Così che entro il 1951, venne chiesto alla General Electric di cominciare a progettare un tipo di reattore sufficientemente compatto, leggero e schermato da essere inserito all’interno di una carlinga e in qualche modo portato fino al regno iperboreo dei cieli. Rendendo la città di Mosca, idealmente, non più lontana di Pittsburgh, Greensboro o St. Louis…

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La corazzata Yamato e lo sfuggente archetipo dell’ultimo guerriero samurai

Quando l’orgoglioso stratega e spadaccino Kusonoki Masashige decise nel 1333 di schierarsi al fianco dell’Imperatore escluso dal potere temporale Go-Daigo, per l’influenza del potente governo shogunale, egli sapeva che accettando il ruolo di governatore di due province faceva il proprio ingresso all’interno di un campo condannato alla sconfitta, di fronte alle potenti truppe del clan Ashikaga. Egli lo fece sulla base di un profondo senso del dovere e la sincera convinzione che difendere ed assecondare il Figlio del Cielo significasse rimanere dalla parte giusta della Storia, in un mondo che aveva ormai dimenticato gli antichi ideali. Così che tre anni dopo, circondato a Minatogawa dai nemici assieme agli ultimi 50 dei suoi cavalieri tra cui il fratello Masasue, dopo una serie di ordini tatticamente errati ricevuti dal suo signore, i due Kusonoki sono riportati aver stretto in pugno le spade e sollevato il grido finale: “Shichisei hokoku! – 七生報國” Ovvero letteralmente: “Vorrei avere sette vite da donare (all’Imperatore)!” Sconfitto, ucciso e molto probabilmente decapitato, come si faceva al tempo per poter attribuire i meriti alla conclusione dei conflitti, questa figura venne tuttavia elevata successivamente al rango ideale di perfetto samurai, disposto ad accettare la sconfitta pur di rispettare i presupposti del suo giuramento. E non è certo un caso se un particolare tipo di stendardo dorato dalla forma circolare, chiamato kikusui (菊水 – crisantemo) sarebbe stato associato a partire da quel momento alla figura di questo importante personaggio storico, ispiratore d’innumerevoli romanzi ed altre opere d’ingegno dell’intrattenimento letterario contemporaneo. Un’insegna portata montata con fierezza, tra le altre cose, su appena una manciata delle navi della Flotta Imperiale all’apice del secondo conflitto mondiale, quando riuniti sotto il vessillo del divino discendente della Dea del Sole, gli eredi filosofici di tali eventi cavalcarono di nuovo incontro a forze numericamente preponderanti. Una consapevolezza pienamente chiara agli uomini del consiglio di Stato Maggiore che dovettero pianificare l’attacco di Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, e successivamente quello che potremmo definire il tentativo d’arginare l’avanzata inesorabile di un vespaio di furia e acciaio proveniente dagli Stati Uniti, come palesato dalle scelte ingegneristiche compiute per la nuova classe di navi da battaglia varata a seguito del varo appena una settimana dopo quel selvaggio bombardamento. La cui prima esponente e più famosa tra le due che furono effettivamente realizzate, la Yamato delle Industrie Navali di Kure nei pressi di Hiroshima, era più grande, meglio corazzata, più pesantemente armata di qualsiasi altra corazzata costruita fino a quel particolare frangente e a dire il vero, qualsiasi altro a venire. Con le sue oltre 71.000 tonnellate a pieno carico, tali da richiedere notevoli modifiche e l’ampliamento del bacino di carenaggio dove era stata costruita in gran segreto nel corso degli ultimi tre anni, al concretizzarsi delle politiche ultra-nazionaliste ed isolazioniste di un paese fermamente intenzionato a controllare l’intera zona geografica dell’Asia Orientale. Così potente, e così dannatamente veloce (fino a 27 nodi o 50 Km/h) al costo di 70 tonnellate di carburante l’ora, che avrebbe potuto facilmente raggiungere una posizione tale da colpire ed affondare una possente classe Iowa della marina statunitense, anche con un singolo colpo della sua batteria principale, composta da nove cannoni su tre torrette del calibro di 46 centimetri, semplicemente i più grandi mai montati sopra il ponte di una nave. Per cui comunque fosse andata a finire l’avventura nel Pacifico dei giapponesi, una cosa era certa: non esisteva ancora sulla Terra una singola nave capace di sconfiggerla in un onorevole duello ad “armi pari”. Oh, quante vittime fece la hubris, ovvero il tragico orgoglio dei feroci guerrieri…

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Il vasto cratere che rimane per testimoniare il tragico conflitto della Somme

In mezzo ad una serie di campi coltivati, percorrendo la strada provinciale di Bapaume, gli automobilisti hanno l’occasione di scorgere una strana e distintiva caratteristica del paesaggio. Come i bordi di un’avvallamento lunare, ricoperti da vegetazione folta e verdeggiante, sorge la parte osservabile di una profonda depressione. Ampia 100 metri e profonda 30, ovvero abbastanza perché sia istintivo attribuirgli un qualche tipo di causa naturale, benché i fatti storici raccontino una storia completamente differente. Quella di una colossale deflagrazione, fatta detonare in un fatidico momento in cui si credeva di poter cambiare il corso della storia, il primo luglio 1916. Riuscendo in qualche modo, forse non proprio quello originariamente desiderato, ad apportare un significativo cambiamento delle aspettative ragionevoli in un particolare tipo di contesti tattici, almeno fino all’invenzione del carro armato.
Visitando oggi la regione pianeggiante della Francia dove scorre il fiume settentrionale della Somme, difficilmente ci si troverebbe a sollevare obiezioni sull’antico significato del suo nome. Che proviene per il tramite del termine latino Samara dalle due parole celtiche samo (tranquillo) e quella ormai etimologicamente elisa di ar (fiume). Manifestando nella tangibile realtà dei fatti la stessa contraddizione cronologica, rispetto ai suoi trascorsi storici, di quella apprezzabile nel vasto spazio dell’Oceano Pacifico. Privo di conflitti, oggi. Non così nel periodo destinato a concludersi coi grandi conflitti globali del Novecento. E non meno rilevante, nel controllo strategico del centro Europa, questa regione a nord di Parigi sarebbe stato il teatro nel corso dei due conflitti di svariati scontri armati tra fazioni contrapposte all’espansione dell’Impero Tedesco. La prima delle quali fu anche, di gran lunga, la più sanguinosa nonché uno degli scontri più costosi in termini di vite nell’intero estendersi della storia umana. Sto parlando del confronto fortemente voluto dagli eserciti francese ed inglese, nel momento in cui le manovre del Kaiser Guglielmo II avevano massimizzato la pressione militarizzata contro la piccola, ma determinante città di Verdun. Un tentativo attentamente pianificato di scardinare le difese del generale Erich von Falkenhayn, costituite secondo i più efficienti crismi operativi di quel particolare periodo storico. I quali essenzialmente prevedevano lunghe e labirintiche trincee, intervallate da nidi di mitragliatrici e impervi rifugi sotterranei, in grado di resistere al bombardamento senza sosta dell’artiglieria nemica. Strutture che di certo, qui furono messe duramente alla prova, con un dispiegamento da parte della componente occidentale della Triplice Intesa, ed in particolare il suo esponente britannico di 1537 bocche da fuoco, utili a sviluppare quello che fu il più terribile e duraturo impiego di munizionamento esplosivo mai visto e udito prima di quel fatidico momento. Gradualmente in crescita a partire dall’anno 1915, fino al culmine di quei dodici giorni di “apertura” che gli Inglesi avrebbero deciso di chiamare la battaglia di Albert, durante cui fu sparata una quantità di colpi stimata attorno al milione e mezzo, molti dei quali calibrati al fine di spazzare via unicamente bersagli tattici come il filo spinato. Eppure destinati a non essere uditi almeno in parte da una grande quantità dei soldati coinvolti, per l’assordante effetto di due ancor più grandi, e drastiche deflagrazioni: quelle delle due miniere scavate nei dintorni del villaggio di La Boiselle, denominate con i nomi in codice di Lochnagar ed Y Sap. Lunghe e laboriose opere, fatte passare sotto le siepi, le asperità, l’asfalto stradale, scavate nel corso di mesi se non anni con un obiettivo semplice ed impressionante: quello di essere riempite d’esplosivo nella loro parte terminale, per saltare in aria assieme alle migliaia di soldati soprastanti. Con la consueta e necessaria spietatezza della guerra ormai giunta alle sue conseguenze più inesorabili…

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Le cospicue battaglie dell’antilope dal muso trapezoidale

Nelle regioni occidentali del KwaZulu-Natal, al sopraggiungere della primavera, un suono roboante può essere sentito che riecheggia lungo i margini semi-abitati della savana. Come un rombo dal profondo, ripetuto ed insistente, che penetra il silenzio catturando e monopolizzando l’attenzione degli escursionisti. Terribile ed al tempo stesso affascinante, spaventoso almeno quanto sa essere caratteristico, esso è il segno udibile di un’impressionante battaglia: quella condotta tra due esemplari maschi adulti dell’Alcelaphus buselaphus caama, volgarmente detto alcelafo rosso o del Capo. Un’imponente gazzella dal muso lungo e le zampe sottili, il corpo muscoloso ed un distintivo paio di corna ritorte, spesse e aerodinamiche, che puntano diagonalmente all’indietro. Creatura dal peso che si aggira normalmente tra i 100 e 200 Kg, in un’espediente dell’evoluzione assai probabilmente motivato dal bisogno di resistere ed allontanare i predatori, risultando effettivamente totalmente impervia dal punto di vista di sciacalli, ghepardi o iene, a meno che i suddetti siano inclini a mettere in pericolo la propria incolumità personale. Una capacità d’autodifesa ulteriormente accresciuta dalla statura considerevole dell’animale, che con la sua altezza al garrese di 1,1-1,5 metri riesce facilmente a scrutare l’orizzonte, rispondendo con largo anticipo ad ogni possibile pericolo incipiente. Potendo comunque ricorrere ad una velocità di fuga che si aggira tra i 70-80 Km/h in campo aperto, dimostrando una capacità di sfruttare i propri muscoli decisamente al di sopra della media. Al che può risultare inaspettato, e per certi versi stupefacente, che una creatura come questa pur costituendo vasti branchi di fino a 300 esemplari mostri un’inclinazione nettamente stanziale, rifiutandosi generalmente di spostarsi più di qualche chilometro dal proprio territorio elettivo, in un approccio all’esistenza che potremmo collegare strettamente alla progressiva riduzione del suo areale d’appartenenza. Laddove anticamente, in base ai fossili ritrovati, gli alcelafi (in lingua inglese hartebeest) erano diffusi nell’intero continente africano, mentre al giorno d’oggi si trovano distribuiti in una pluralità di popolazioni diversificate dal punto di vista genetico ed impossibilitate a mescolarsi tra loro. Otto per la precisione ed includendo quelle tassonomicamente controverse, oltre a un’altra recentemente estinta, l’A. b. buselaphus di Bubal originario dei territori marocchino ed egiziano. Ciascuna sottospecie in uno stato di conservazione nettamente distinto, con la variante sudafricana risultante ancora di gran lunga la più diffusa, mentre l’etiope A. b. swaynei costituisce una delle antilopi attualmente maggiormente rare al mondo. Il che non significa, d’altronde, che la popolazione complessiva di questa intera specie sia attualmente in condizioni migliori, con una perdita percentuale misurabile annualmente, in forza dell’inevitabile e costante riduzione del suo habitat. Oltre ad un tipo di caccia purtroppo non sostenibile, condotto per parecchie generazioni dalle popolazioni locali e visitatori provenienti da settentrione, in forza di una particolare facilità nel rintracciare, avvistare ed abbattere questi grandi erbivori nel loro ambiente naturale. Un’esperienza, quanto pare, tenuta particolarmente in alta considerazione all’interno di determinate cerchie di umani…

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