Verme repellente con la bocca di serpente. Un anfibio, veramente?

É del 3 luglio l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica iScience recante orgogliosamente il titolo: “Prova morfologica di un sistema velenoso orale negli anfibi àpodi” o per lasciare il termine usato in lingua inglese usato dai ricercatori delle università di San Paolo (Brasile) e dello Utah (Salt Lake City), i caecilians dalla parola latina caecus, non-vedente. Esseri talmente difficili da osservare ed assenti da un qualsiasi contesto geografico in qualche modo riconducibile all’Europa, da possedere soltanto il nome scientifico nella maggior parte delle lingue del pianeta Terra. Ma tutt’altro che rari, nei loro ambienti d’appartenenza; questo per l’adattamento pressoché perfetto ad occupare una nicchia tra le più continuative dell’intero sistema ecologico mondiale, quella situata nel sottosuolo di gallerie auto-prodotte dall’animale stesso, grazie all’impiego del teschio affusolato dalla forte mandibola scavatrice. E cosa importa poter distinguere con lo sguardo, a quel punto, null’altro che la tenebra dalla luce? Per queste creature dotate di numerose prerogative composite tra cui l’aspetto generalmente riconducibile a quello di serpenti dagli occhi piccoli e sottocutanei, ma dotati di pelle segmentata ad anelli come i lombrichi e una dentatura da serpente usata secondo i ricercatori per nutrirsi di artropodi, anellidi, nematodi ed altri simili abitanti del territorio di caccia scelto, per lo più nel corso di orari notturni. Ciò che unicamente tradisce la loro vera appartenenza allo stesso gruppo tassonomico di salamandre, rane e rospi tuttavia, è la pelle ricoperta da una secrezione scivolosa finalizzata, nel caso specifico, a facilitare lo scorrimento all’interno dei tunnel da pochi centimetri di diametro. Nonché dotata, nel caso di molte delle specie suddivise tra Sud America, Africa mediana e Sud-Est Asiatico, di una certa quantità di componenti velenosi e tossici, sufficienti a scoraggiare la fame di un qualsivoglia eventuale predatore.
Ciò che Mailho-Fontana, Antoniazzi, Jared e il loro collega statunitense “Butch” Brodie Jr. hanno per la prima volta trattato nel loro lavoro collaborativo tuttavia, è la significativa scoperta della presenza di ghiandole in corrispondenza dei denti di queste creature, usate con tutta probabilità per secernere un qualche tipo di saliva velenosa valida a paralizzare, o persino uccidere la preda di turno. Il che risulterebbe, una volta dimostrato al di là di ogni possibile dubbio, straordinariamente significativo proprio perché nell’intero corso dell’evoluzione a noi nota, nessun tipo di anfibio ha mai posseduto questo particolare approccio alla caccia ed al sostentamento della sua specie. Oltre ad avere molto senso in un’ottica di evoluzione convergente, soprattutto quando messo in relazione con un altro animale morfologicamente simile, il serpente, per cui l’assenza di arti o armi oltre alla semplice bocca ha motivato questo adattamento strettamente associabile alla necessità di colpire con essa in maniera il più possibile letale. Mentre le implicazioni, da un punto di vista della storia biologica, non possono che risultare ancor più significative…

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Il peggior luogo australiano in cui subire un guasto al motore

Un famoso detto in materia recita: “Per ognuno che vedi, ce ne sono altri 10 nascosti, sott’acqua, in attesa”. Ma il più grande problema del Fiume degli Alligatori nei Territori del Nord, in Australia, è che di tali animali non c’è neanche uno. Perché è letteralmente PIENO di coccodrilli. Del tipo assolutamente peggiore: Crocodylus porosus o di acqua salata, fino a sei metri di creatura in grado di nuotare a una velocità doppia rispetto a quella del più esperto atleta olimpico, raggiungere i 29 Km/h per brevi tratti di corsa sulla terraferma e serrare la propria bocca con circa una tonnellata e mezza di potenza. Su una vasta varietà di esseri che includono, secondo le precise regole della natura, anche gli umani. E il secondo problema del Fiume degli Alligatori è l’attraversamento di Cahill. Un passaggio di cemento costruito in corrispondenza del pelo dell’acqua perché “Un vero e proprio ponte danneggerebbe l’ambiente” a circa 50 Km dalla foce della diramazione Est del corso d’acqua, pensato per permettere a un adeguato tipo di veicoli, sufficientemente alti e rigorosamente a quattro ruote motrici, di lasciare una riva con ragionevoli aspettative di raggiungere l’altra. Il che in linea di principio, non dovrebbe coinvolgere una quantità eccessiva di persone: dopo tutto, stiamo parlando di un luogo sito ad oltre 300 Km da Darwin, la capitale ed unico centro abitato con più di 50.000 abitanti dell’intero stato e il cui paese più vicino ad appena 40 di distanza, Jabiru, non ne conta più di 1.300. Eppure il solo fatto che un luogo simile esista, in in dei conti, è sufficiente a porre la questione. Di come, quando ed eventualmente a chi limitare l’accesso all’intera questa zona, comunque facente parte di terreni posseduti e dati in gestione agli aborigeni australiani. I quali, dal canto loro, non hanno di certo alcun interesse a interdire il passaggio dei turisti anche data l’opportunità, tutt’altro che infrequente presso tale recesso geografico, di accorrere in loro aiuto potendo contare sulla concessione di laute ricompense. Perché nessuno, trovandosi in un simile frangente, mancherebbe di dar sfogo alla sua più profonda e sincera gratitudine nei confronti di chi gli ha salvato, letteralmente, la vita.
Attraversare a Cahill, in linea di principio, non da l’impressione di essere eccessivamente difficoltoso: c’è un indicatore di profondità e ci sono i tempi delle maree, che nonostante la posizione nell’entroterra influenzano in maniera significativa l’altezza e la rapidità della corrente. Con l’unico e frequente contrattempo dei maschi alfa del gruppo di rettili che, tutt’altro che spaventati dall’arrivo degli autoveicoli, si attardano nel centro del sentiero con indifferenza, rifiutandosi di lasciare il passo. La maggior parte dei momenti di crisi arrivano, infatti, con l’avvicinarsi della stagione piovosa (dicembre-maggio) quando il livello dei flutti inizia a crescere rapidamente, ma non abbastanza da scoraggiare il tentativo da parte degli autisti dotati di un maggior grado d’ottimismo. Il che porta spesso, nel caso di veicoli più leggeri o privi di presa d’aria rialzata, alla perdita di propulsione e il lento trascinamento laterale, verso l’abisso dove l’auto finirà per cappottarsi, costringendo i suoi occupanti a una pericolosa, terrificante nuotata fino a riva…

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Pescando per caso il secondo pagliaccio più colorato dei mari

Che il mondo sotto l’oceano sia un territorio inesplorato d’innumerevoli meraviglie è stato più volte provato non soltanto dall’esplorazione diretta ma da opere creative come Finding Nemo della Pixar, in cui un vasto ventaglio di specie ittiche e non solo è stato utilizzato come base per il design di personaggi al tempo stesso fantasiosi, variopinti e scientificamente corretti nel rappresentare le proprie famiglie d’appartenenza. Un discorso facilmente espandibile, questo, mediante l’ampliamento di tale processo creativo ad ambienti ulteriori oltre al centro luminoso di quella diva letteralmente visitabile negli abissi, l’ammirata, popolosa, sempre minacciata barriera corallina. Come ad esempio le pietrose coste dell’isola di Zamami, prefettura giapponese di Okinawa, dove il titolare del celebre canale di pesca Fishing Gang Azusa si è trovato compiere un’escursione armato dell’inseparabile canna (ma niente cappello di paglia come l’iconico Sanpei) che l’avrebbe condotto, senza particolari indugi, verso uno dei suoi video virali di maggior successo online. Il tutto a partire da un post di Twitter in cui figura, il volto coperto con bandana anti-Covid e occhiali da sole, mentre tiene in mano il pescato più fantastico di una buona parte della sua intera carriera online. Al culmine di una giornata ragionevolmente prevedibile, in cui il precedente successo di maggior conto era stato uno snapper imperatore (Lutjanus sebae) dalla lunghezza di circa 40 cm, subito diligentemente ributtato in acqua. Per estrarre dal mare quindi, dopo alcuni minuti di suspense, la creatura in grado di far esclamare ai suoi due compagni di avventura: “Ma è vero o soltanto un giocattolo?” E un ancor più sintetico e meta-referenziale: “Nintendo Splatoon”. L’essere esposto al digitale ludibrio si presenta in effetti come un pesce di dimensioni comparabili al collega ma caratterizzato da una colorazione cangiante azzurra, celeste, verde ed a strisce rosa, capace di sviluppare un disegno che non sfigurerebbe in alcun modo sopra l’ala di una farfalla. La luce del sole diretta dall’alto contribuisce a enfatizzare, inoltre, tale armonia priva di precedenti, dimostrando senza ombra di dubbi che il bello rimane tale senza limiti di contesto, accrescendo piuttosto se stesso nel momento in cui viene trasferito in situazioni fuori dal suo quotidiano. “Si tratta di un kinubella/kinubera” esclama quindi il più esperto Azusa, mentre già si appresta, secondo il comportamento del più etico pescatore sportivo, a restituire anche questo magnifico abitante al suo luogo di provenienza originario. Utilizzando il nome comune giapponese di quello che gli anglofoni definiscono Surge wrasse da un antico termine gaelico che significa “vecchia signora” e gli scienziati con l’espressione latina Thalassoma purpureum, un riferimento alla livrea sgargiante che nella maggior parte delle situazioni non sembrerebbe, in effetti, dotarlo di grandi presupposti mimetici validi a incrementare le sue possibilità di sopravvivenza. Ma piuttosto la capacità di spaventare i (molti) nemici attraverso un’eccessiva visibilità, teorico sinonimo di un contenuto tossico o velenoso. Nessuno di tali preconcetti, tuttavia, risulta effettivamente riconducibile nei confronti di questo pesce per molti versi sorprendente…

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Finito come un gambero dentro il cappuccio della lumaca inglobatrice

“Per te, il giorno in cui Melibe ha filtrato il tuo tratto di fondale fu il giorno più importante della tua vita. Ma per me… Era soltanto martedì”. Occorre prestare attenzione. Conviene coltivare rispetto. Nei confronti della Cosa che sia Allarga, spalmandosi ed aprendosi con chiaro intento, sopra la sabbia ruvida di una distesa carica di vita. Larve; vermi; isopodi; piccoli crostacei; microrganismi di almeno due dozzine di tipologie. Tutto sparisce, in una progressione rapida e implacabilmente reiterata, mentre la lumaca avanza e mette in pratica l’azione per cui è stata messa al mondo: soavemente nutrirsi, una boccata alla volta, “ripulendo” l’area brulicante da ogni forma o caratteristica in grado di renderla tale. Non è proprio fame o voglia di qualcosa, quanto l’essenza stessa del suo modus vivendi ovvero il senso logico secondo cui se sei davvero bravo nel fare qualcosa, tanto vale continuare a farlo, finché non potrai affermare d’essere il migliore. E caso vuole che parlando di questa creatura, un possibile Melibe viridis da una quindicina di centimetri ripreso dall’utente EmericBen nei pressi dell’isola di Bali, tale gesto sia rappresentato dall’aprire ed allargare la sua testa globulare, fino all’ottenimento di una letterale spatola con preminenze acuminate ai bordi paralleli. Che chiudendosi e aprendosi, poi chiudendosi di nuovo, assicura che le Cose Fuori si trasformino in Bocconi validi ad alimentare un tanto insolito organismo privo di un guscio. L’intenzione di costui, stimato membro dell’ordine dei nudibranchi, è del resto trasparente non soltanto perché costruita in base all’inevitabile obiettivo, ma anche in vero e proprio senso letterale, vista l’assenza di pigmentazione che permette di osservare ciò che ha recentemente fagocitato. Il che non è tanto un gesto di pura cortesia gastronomica, quanto un metodo, piuttosto efficiente, per mimetizzarsi da un potenziale nemico. Questo perché le lumache carnivore di mare sono solite proteggersi con un solo approccio: l’implementazione, all’interno del proprio stesso corpo, dei nematocisti o cellule urticanti prelevate direttamente dal corpo di un sifonoforo come la Caravella Portoghese, approccio in realtà inaccessibile per chi è solito, come il Melibe, nutrirsi degli esseri che vivono in mezzo alle sabbie, piuttosto che in corrispondenza della superficie marina. In materia di deambulazione, d’altra parte, l’effettiva efficienza di questa creatura potrebbe facilmente trarre in inganno, data la presenza delle 12 estrusioni laterali simili a “zampe” in realtà semplici esempi di quella parte anatomica definita ceras (pl. cerata) il cui scopo è ornare e caratterizzare le diverse specie di lumaca, venendo autonomamente rimosse e date in pasto a eventuali aggressori, un po’ come avviene con la coda della lucertola di terra. Mentre il nuoto, comunque possibile, avviene in genere mediante l’apertura e chiusura ritmica della grande bocca. L’M. viridis, dal canto suo, non è un esempio particolarmente grande, agile o veloce della sua categoria; soltanto un umile spazzino trasparente, il cui lavoro sembra consistere accidentalmente nel far piazza pulita d’incolpevoli entità incapaci di protestare. Ed anche questo, in fin dei conti, è la natura…

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