La complicata vita di un popolo che ha perso il mare

Aral

Terra smossa e timide sterpaglie nel Karakalpakstan, la repubblica indipendente che costituisce un territorio un tempo umido, ora secco quanto il bordo esterno del Sahara. Quando a un tratto, poco fuori il centro di Nukul, s’immagina un dialogo tra navi del deserto: “Rugginoso, svettante, rovinato peschereccio, chi può averti trasportato in questo luogo? Non c’è spiaggia, non c’è molo, non c’è acqua di alcun tipo! La tua utilità, mi siano testimoni le orde dell’antico Kāt, è ormai trascorsa come il sole dell’impero del Gran Khan! E invece io, marciando, vedo chiaramente il mio futuro…” Lo zoccolo che batte sul terreno. Un sibilo e un grugnito, di maestà lesa per l’interruzione ad opera di quel grande vascello rianimato: “Ah, cammello. Sei tu. Vieni sotto l’ombra del mio scafo. Del vasto lago di Aral, tu non sai nulla. Dei pesci, della pioggia e delle stagioni di quell’abbondanza evaporata. Gli uomini ti nutrono e ti rendono importante, come hanno sempre fanno con il mondo e la natura. Ma tu ricorda sempre questa cosa: trascorsa la tua utilità per loro, sarai solamente il Nulla. Esattamente come tutto ciò che vedi attorno a te.”
Svariati chilometri più a nord, sorge la cittadina da 17.000 anime di Moynaq. Sopra un altopiano che fu in epoca recente un istmo, da cui moli s’irradiano in diverse direzioni. E canali con appena un metro d’acqua, scavati freneticamente fino al cimitero delle navi. Esiste ancora, in questi lidi, un qualche tipo di vitalità e speranza, con gente che si muove, parla, effettua scambi delle merci che provengono da fuori. Ma ogni anno, irrimediabilmente, altra gente prende, parte e se ne va. Passando innanzi a quel cartello triangolare, certamente risalente all’epoca sovietica, ove campeggia l’immagine di un pesce che sobbalza sopra le onde stilizzate. Gradevoli ricordi, di un’economia fiorente ormai sparita! Mentre tutto attorno, adesso è sabbia, sale, arido rimpianto. Il più grande, certamente, degli Uzbeki. E dei loro vicini nel pastorale Kazakhistan, che ancora custodiscono una parte di quella distesa d’acqua, gelosamente racchiusa grazie ad una diga costruita nel 2005. Negli ultimi tempi, le piogge hanno trattato bene quella zona. E gradualmente, la minima parte settentrionale di un bacino idrico un tempo vasto quanto il lago Victoria (68,000 km quadrati) si è riempita nuovamente, ritornando a una profondità di 30 metri. Eppure di quell’acqua, preziosa ed insostituibile, soltanto una minima parte viene lasciata filtrare oltre il confine. Per andare a perdersi tra queste sabbie eterne, nonostante tutto, prive di malinconia. Così, ove un tempo nuotavano i pinnuti, adesso è territorio di cammelli. Che allegramente, non comprendono la verità.
“Ah si, è così che pensi, peschereccio inutile di un altro tempo?! Sappi che i quadrupedi resistono da un tempo assai più lungo, di voi altri ammassi di sostanze minerali raffinate dalla società industriale! Se un domani l’intera civiltà di costoro, i grandi sfruttatori, dovesse scomparire tutto a un tratto…Noi torneremmo ad inselvatichirci, per brucare l’erba dalle crepe del cemento impolverato.” Fedele cavalcatura, produttore di latte, animale da soma. Tutto questo lui era stato, e quella vita, faticosa ma soddisfacente, l’aveva condotto fino a questo punto d’invidiabile prosperità. Ma il richiamo della sabbia era sempre presente, tra le orecchie ridirezionabili e le due svettanti gobbe posteriori. “Ah, si, è così che pensi? Credi che l’umanità sia come un parassita…Pronto da estirpare, per restituire il mondo al suo splendore primigenio…” Animata dalle sue argomentazioni, la nave parve sussultare per il vento lieve delle circostanze. In alto, sbattendo sul pennone principale, il vessillo irriconoscibile produsse un suono simile ad un colpo di fucile. “Bestia. Guardati attorno: cosa vedi? Quale odore percepiscono le tue famose nàri?” Sale, detersivo, additivi chimici. Più un lieve accenno di qualcosa… D’indefinibile. L’olezzo atroce di sostanze misteriose. Una minaccia senza volto e senza tempo. “Si, puoi starne certo… Questi oblò comprendono la tua espressione. Ora, taci! Lasciami parlare…”

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Nella steppa: un gatto peloso dallo sguardo umano

Manul

C’è qualcosa di davvero insolito, qui. Una creatura selvatica non dovrebbe apparire magnifica e stupendamente sgraziata, con il pelo lungo che ingoffisce, le zampe corte, le orecchie quasi invisibili, la corporatura tondeggiante di Garfield e una sinuosa, quanto inutile, coda con gli anelli neri. Non ti aspetteresti certo di trovare, tra i terreni più remoti della Mongolia, del Tibet, del Transbaikal siberiano, di Kyrgyzstan, Pakistan, Kazakhistan e Kashmir, la ragionevole approssimazione di un gatto persiano, all’apparenza degno di partecipare ad una gara di bellezza tra le razze feline, tra bagnetto, croccantini e un sonnellino sul divano. Eppure, stiamo parlando di un animale abituato a vivere in completa solitudine, anche a un centinaio di chilometri dagli altri membri della propria specie, compagna per l’accoppiamento esclusa, ed ancor più lontano da qualsiasi cosa possa essere chiamata “insediamento umano”. Buon per lui, visto come la folta pelliccia sia stata in passato, per gli uomini del luogo, un sinonimo di ottimi cappelli o colli delle giacche (pure femminili) portando la creatura ad uno stato di conservazione necessariamente poco noto, eppure rientrante nello spazio degli animali potenzialmente a rischio d’estinzione. Stiamo parlando, per essere chiari, del Ману́л (Manul) l’essere più spesso definito con il nome del suo scopritore Peter Simon Pallas (1741-1811) naturalista di Berlino che visse e lavorò per lungo tempo in Russia. Finendo per donare il proprio appellativo, tra le altre cose, a uno scoiattolo, un cormorano, un’aquila, due tipi di pipistrello, al misterioso uccello, simile a una pernice, che Marco Polo aveva definito il Bugherlac e addirittura a un meteorite del tipo più fantastico, di cui parlammo in questa sede qualche tempo fa. Ma la sua classificazione più famosa, in quest’epoca in cui niente vende quanto l’impronta tipica del polpastrello dei felini, resta il qui presente insolito mammifero, pieno di risorse come i suoi compagni maggiormente prossimi al nostro contesto geografico, per lo meno all’epoca distante della loro vita nel selvaggio sottobosco. Benché il distante cugino russo, di problemi debba affrontarne alcuni molto significativi, tra cui un clima che tende a far sostare il termometro, in determinati luoghi, anche attorno ai -20 gradi. O per brevi periodi, molto meno di così.
Di certo deve costituire una visione quasi ultramondana: con la testa dalla forma stranamente tondeggiante e il volto piatto, a tal punto che alcuni tendono a scambiarlo, la prima volta e da lontano, per un qualche tipo di primate. Ha persino gli occhi tondi, invece che a fessura, come i nostri gatti casalinghi! Un tratto comune ad alcuni grandi felini, quali il leopardo, ma del tutto unico per un gatto del peso massimo di 4 Kg e mezzo, ovvero esattamente come i nostri coabitanti con lettiera e scatola dotata di maniglia da trasporto. Tra le altre differenze, meno denti nella parte inferiore della bocca, con l’assenza del primo paio di premolari, ma denti canini dalle dimensioni decisamente maggiorati. Ah, si, c’è un altro piccolo dettaglio: il nostro eroe, piuttosto silenzioso, può emettere talvolta rari versi di richiamo, se si spaventa o vuole avvisare la compagna di un pericolo imminente. In quel caso, si può dire, più che miagolare, abbaia. Davvero! Il sito del Telegraph dispone di un breve spezzone con registrazioni audio, che pare la testimonianza di un irrequieto branco di bassotti, indispettiti per il freddo e le sgradite circostanze. Mentre un gatto come questo, è molto raro che si perda d’animo. Il Manul che, come potrete immaginare in funzione delle corte zampe, non è un grande corridore, tende a reagire alla venuta di eventuali predatori con un certo grado di furbizia: se possibile, si nasconde tra le rocce o nelle tane di altri animali, come le marmotte. In assenza di questa possibilità, cerca di mimetizzarsi, restando immobile anche per lunghi periodi. Le testimonianze di chi li ha studiati, nel loro ambiente naturale, sono piene di frangenti in cui il gatto, adagiandosi in prossimità di tronchi o collinette scelte ad arte, è letteralmente scomparso dagli occhi dell’osservatore, come la creatura sovrannaturale che potrebbe ricordare, nell’aspetto, le movenze e l’insolito stile di vita.

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Le steppe inospitali dell’antilope dal grande naso

Saiga Documentary

Puoi andare da qualsiasi parte, puoi fare qualunque cosa. Guarda questo spazio sconfinato, d’erba commestibile, dove gli antenati hanno vissuto per generazioni. All’orizzonte, non c’è nessuna barriera, tranne il cielo che divide il mondo percorribile dal Sole incandescente. Ma libertà vuol dire solitudine, e questa strada non è percorribile per loro, il popolo degli ungulati. Così è ben nota, fin dalla notte dei tempi, l’abitudine che hanno di formare gruppi simili a tribù, con qualche dozzina di esemplare ciascuno, per vagare alla ricerca di un momento ed un incontro, il giorno della verità. È uno spettacolo che non ha pari a questo mondo: decine di migliaia di Saiga tatarica, le particolari antilopi che vivono nella regione che si estende tra i Carpazi ed il Caucaso, spingendosi talvolta fino in Mongolia, si radunano in un vasto spazio tra gli spazi, un punto di partenza per la grande migrazione. Quindi, al palesarsi di un segnale a noi del tutto sconosciuto, iniziano la lunga marcia che le porterà, durante i primi mesi dell’inverno, fino ai semi-deserti del distante meridione, dove disperdersi di nuovo, in piccoli gruppetti di esemplari pronti a correre dai predatori, quando necessario. Con il trascorrere dei mesi, quindi, una volta che il loro manto è passato dal marrone a una tonalità biancastra, utile a nascondersi tra i ghiacci dalle aquile e dai lupi, ricominciano a pensare ai grandi pascoli del Nord, dove le attende cibo a profusione e la stagione degli accoppiamenti, in primavera. Così ritornano, ma questa volta senza sentire la necessità di unirsi per formare il grande branco. Ciò perché già sussistono le divisioni e la rivalità tra i maschi alpha, che di lì a poco dovranno competere per il diritto a riprodursi, una cornata dopo l’altro. A discapito di altri, contro l’inclemenza delle circostanze. Perché l’antilope saiga, un tempo considerata tra gli animali più prolifici, è dall’epoca della fine dell’Unione Sovietica che sta andando incontro ad un progressivo processo di spopolamento, tale da ridursi del 95% a partire dalla fine degli anni ’90. Un processo letteralmente inaudito in precedenza, che oggi viene considerato la più veloce via per l’estinzione mai sperimentata da un mammifero del pianeta Terra.
Prima di analizzarne le ragioni, che sono più d’una, sarà opportuno parlare brevemente di questo animale, il cui aspetto estremamente caratteristico, se non proprio grazioso, è valso l’iscrizione ufficiosa al club degli animali bandiera, ovvero quel gruppo di specie a rischio scelte dalle istituzioni ecologiste come testimonial per le proprie raccolte fondi. La saiga è un’abitante atipica della regione eurasiatica, che si conforma nello stile di vita al tipico erbivoro cornuto del continente africano, da cui prende la denominazione di antilope, benché il ceppo evolutivo della sua provenienza, si ritiene oggi, sia del tutto differente. È infatti più piccola, con un’altezza al garrese massima di 0,8 metri e un peso che si aggira sui 50 Kg, come quello di una pecora. Inoltre presenta la caratteristica evolutiva di un grande naso simile a una proboscide, con le narici nella parte anteriore, che si ritiene abbia lo scopo di filtrare la polvere d’estate, riscaldando invece l’aria durante il corso dell’inverno, prima che questa possa raggiungere i polmoni dell’animale. La sua genìa migratoria, che esiste fin dall’epoca del Pleistocene e che ricorda da vicino, nell’aspetto vagamente chimerico, alcune illustrazioni sugli animali preistorici successivi all’ultima glaciazione, si spingeva un tempo fino all’area dell’attuale stretto di Bering, varcandola per giungere nel continente nordamericano. Ma di quegli anni di gloria e grandi esplorazioni, oggi resta molto poco.

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