La tecnica dell’incastro di piastrelle del Maghreb

Zellij

In una luminosa officina di Marrakech, Agadir o Casablanca, un uomo pratica l’antica arte a lui trasmessa dall’anziano maâlem (letteralmente: colui che sa) attraverso anni di laborioso apprendistato, fino al perfezionamento di una tecnica che è scienza ed arte al tempo stesso: l’espressione di un particolare tipo di mosaico tipico dell’arte islamica, detto della pietra lucidata o zellige. Del resto, lui non è che l’ultimo di una filiera altamente specializzata, in cui ciascuno svolge il proprio ruolo, per creare qualcosa che sia degno di essere ornamento dei momenti e monumenti migliori. Osservare è doveroso. Qualsiasi tipo di sapienza tecnica, nel momento della sua applicazione, dimostra un fascino procedurale totalmente degno di essere apprezzato; in questo caso specifico, tra l’altro, è indubbio che l’intero contesto sia valido nell’arricchire e potenziare i meriti estetici della sequenza, nel suo complesso una delle migliori disponibili sull’argomento online. Il battere ritmico del martelletto, nell’apparente silenzio delle circostanze. Il contesto rigoroso dell’intera operazione, che pare assumere connotazioni dal significato mistico e poco apparente. La precisione di ogni gesto, nella fase di deposizione dei singoli pezzi, che vanno incastrati come fossero pezzi di un puzzle, senza nessun margine di errore…
Tutto comincia, come spesso avviene, dalla terra e dal fuoco. Siamo infatti, almeno a quanto si può desumere da questa pubblicazione (purtroppo) priva di ulteriori chiarimenti, presso un sito in cui viene curato ogni singolo aspetto della creazione del mosaico, a partire dalla cottura delle stesse mattonelle costituenti. In una serie di rettangoli dalle pareti di metallo, l’addetto alla prima fase depone la giusta quantità di argilla, rimuovendo l’eccesso direttamente con le mani. Niente attrezzi, tranne quelli indispensabili: quasi tutto, in un simile luogo luogo, viene fatto interamente a mano. E non è già ciò incredibile, di questi tempi? I mattoncini sono pronti. Si passa quindi ad una fase di appiattimento ulteriore, in cui il materiale, ancora caldo e reso friabile dalla luce del sole, viene posto sopra un parallelepipedo di pietra, facente le veci dell’incudine. Per essere colpito ritmicamente e poi tagliato, rendendolo conforme alle specifiche richieste. A questo punto è ancora opaco ed incolore, ma non per molto: un terzo addetto, questa volta estremamente giovane nonché dotato di un aiutante suo coetaneo, immerge la parte frontale delle piastrelle, una per una, in una ciotola piena d’acqua e polvere di silice, componente principale dello smalto di vetrinatura, in grado di proteggere e rendere splendente qualsivoglia materiale. Questo non verrà invece applicato ai lati o sotto, affinché le altre sostanze usate nella processo creativo possano far presa migliore. Segue, dunque, la cottura. Attentamente disposte come fossero le componenti di un castello di carte, le piastrelle vengono portate ad almeno 1000 gradi, grazie agli espedienti d’isolamento termico di un forno antico quanto il mondo, frutto di un progetto del Neolitico ancestrale. Ma usato in questi specifici luoghi, a partire dal VI-VII secolo d.C e per tutto il periodo cosiddetto moresco, come preambolo di un processo estremamente particolare, frutto di una particolare visione filosofica e delle cose. Per assistervi, basterà continuare ad osservare. Ecco infatti le piastrelle già dipinte di un profondo azzurro (purtroppo, il passaggio non viene mostrato) che raggiungono il momento di cui parlavamo in apertura, l’attimo di distruzione controllata che è poi anche rinascita, creazione di un mandala senza tempo, né fine.
Ritagliare la ceramica porcellanata, ovviamente, non è un processo alla portata di chiunque. Non soltanto sbagliare mira, ma anche usare troppa forza o troppo poca, potrebbe causare incrinature tali sulla superficie del materiale, con prevedibili conseguenze sulla qualità del pezzo finale. Il fatto poi che l’attrezzo impiegato sia da manovrare a braccio, senza nessun tipo di guida o supporto, non fa che accrescere la complessità della situazione mostrata. Ciascun pezzettino, geometricamente ineccepibile, troverà nel penultimo passaggio la sua collocazione a faccia in giù, all’interno di un’area appositamente definita tra la polvere del pavimento. Qui, ad incastro effettuato, l’intera composizione verrà quindi ricoperta di uno strato d’intonaco cementizio ed acqua, in una miscela che non è meno segreta, né attentamente tramandata, di ogni altro fondamento dell’operazione. Quando tale collante avrà fatto presa, la creazione risultante sarà del tutto saldo e indivisibile, come forgiata dalla stessa natura. Eppure, niente di simile poteva nascere su questa Terra, se non attraverso la mano e l’opera dell’uomo.

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L’epica battaglia dei cuochi di cartone

Boxwars

Preparare un pasto per le diverse centinaia di persone presenti alla grande festa campestre di Tallarook, nella parte meridionale dello stato australiano di Victoria, sarebbe già abbastanza complicato senza doversi accontentare di pentole, mestoli, forchette, ciotole ingredienti, forni, padelle, mattarelli e coltelli fatti in spessa cellulosa corrugata, ovvero quello stesso materiale con cui Amazon spedisce le sue cose. Non c’è dunque molto da meravigliarsi, in tali circostanze, che il nervosismo possa crescere fino ad un punto di rottura, con i pluripremiati chef chiamati per l’occasione (già vincitori di molti confronti precedenti) che finiscono per sottrarsi le risorse a vicenda, in un crescendo di reciproci dispetti che ben presto sfocia, come spesso capita da queste parti, in una zuffa dalle proporzioni cosmiche e spettacolari. La data è lo scorso 8 settembre e questa è la ventunesima edizione del Boxwars, un evento di “creatività e distruzione” patrocinato dall’omonimo comitato di due persone, Hoss & Ross Koger, che l’inventarono nell’ormai distante 2002, nella loro città di Melbourne, fin troppo ricolma d’invitante e splendido cartone. Come del resto, tutte le altre. Il materiale rigido dal costo inferiore al mondo, che fluendo da cartiere in luoghi raramente definiti percorre ogni sentiero a sua disposizione, per giungere in fine, benvoluto o meno, nelle nostre case dallo spazio limitato. In scatole oblunghe oppure cubiche, di molte fogge o dimensioni e poi che fare? Qualcuno lo conserva, colpito dalla sua presenza un tempo funzionale, finché la quantità e l’ingombro superano il mero senso del “un giorno mi servirà”. Altri, più spietati, lo piegano brutalmente su se stesso, poi lo gettano nel cassonetto più vicino. È una legge, essenzialmente, di natura: tutto ciò che può essere riciclato, dovrà fluire, fino ai luoghi di rinascita a vantaggio della collettività. Ma da un punto all’altro di questa filiera, tra una vita e quella successiva, è possibile trovare strade parallele per l’arricchimento degli antichi presupposti. Ciò costituisce, essenzialmente, un simile contesto battagliero.
Una Boxwars, per come è stata definita dai suoi creatori e poi perpetuata dalle sedi periferiche dell’associazione, di cui ce n’è almeno una in Canada ed un’altra in Inghilterra, ha ben poche regole fondamentali: la prima è che l’evento è assolutamente gratuito ed aperto a tutti, con un incoraggiamento a mettersi comunque in discussione, che si rivolge in particolare a coloro che non hanno esperienze creative precedenti. Poi si vieta l’impiego, per ovvi motivi, di punti metallici, puntine, fascette in materiale plastico o altri sistemi potenzialmente lesivi di rifinitura del costume. Sono ammessi solo colla (a caldo o meno) e scotch. È infine severamente vietato lasciare in giro la propria spazzatura o i “resti” di quanto si era scelto da indossare al termine della battaglia, che per di più si dovrebbe, idealmente, trasportare fino a un punto di raccolta. Viene quindi suggerito un tema. E ce ne sono stati diversi di memorabili, tra cui l’antica Roma, i pirati dei Caraibi, il Medioevo, le automobili mutanti del film Mad Max, la prima e seconda guerra mondiale, l’invasione dei robot… Altre volte, si tratta di concetti più figurativi e fantasiosi, come “la ribellione contro l’ordine costituito” oppure “la rinascita del mondo dalle ceneri della sua fine”. Ma i tre precetti più importanti dell’intera serie di eventi, definiti non a caso leggi, sono i seguenti: 1 – Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; (ma questa già la sapevamo) 2 – L’unica competizione è nella creatività; 3 – [Massimo] Buon Senso; soprattutto quest’ultimo valore appare fondamentale, in un contesto in cui dozzine di adulti intabarrati si spintonano l’un l’altro, spingendosi a terra vicendevolmente come demoni invasati. Per le ragioni o i pretesti più diversi. Interessante è stata in modo particolare quest’ultima edizione, per la scelta di un tema alquanto inaspettato: una parodia, o riproposizione, del celebre programma di cucina della Tv giapponese Iron Chef (Ryōri no Tetsujin) in cui cuochi di fama si confrontano nella preparazione di pietanze attorno a un ingrediente comune, il quale si è qui rivelato una colossale, spaventosa aragosta marrone…

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Il giocoliere dei bastoni rotanti: stregone o samurai?

Contact Swords

Quando sentiamo parlare di giocolerìa, in genere, la prima cosa che ci viene in mente è il classico numero coi birilli o le sfere danzanti, lanciate in aria e poi riprese in rapida sequenza. Ma la realtà è che quest’arte fondata sulla destrezza risulta molto più antica, nonché varia, di quel singolo tipo di exploit. Ci sono manipolatori che costruiscono ruote volanti di coltelli, pentole, pezzi di bicicletta, addirittura seghe elettriche. Ne esistono altri specializzati nel cosiddetto “tema del gentleman” che consiste nell’impiego di oggetti legati al mondo dell’eleganza, come cappelli, borse o bastoni da passeggio. E poi c’è qualcuno, vedi il qui presente David Barron aka Mr. E. LullAbhay, che i propri attrezzi di scena non li lancia affatto, ma li fa camminare tutto attorno al proprio corpo, secondo leggi della fisica che paiono modificate alla bisogna. Guardatelo, piantato nel mezzo di una valle verdeggiante (l’affascinante location non è purtroppo indicata da nessuna parte) mentre esegue una sessione dimostrativa con una coppia di quelle che si definiscono convenzionalmente swords, e consistono di una sorta di scettro ligneo con un contrappeso ad una delle due estremità, che ne sposta il centro gravitazionale giusto in prossimità dell’impugnatura. Proprio ciò che serve, all’apparenza, per potersi prodigare nell’esecuzione di una serie di figure o numeri supremamente interessanti. In una serie di fluidi movimenti, le aste vengono fatte roteare attorno alle braccia, al collo e ai fianchi, talvolta ricordando certi numeri dei monaci di Shaolin con le alabarde usate nel Kung-Fu, altre il kata di un’antico metodo per tirare di spada. Il fatto, poi, che i pesanti strumenti autocostruiti assomiglino alla pericolosa verga di uno stregone tolkeniano, per lo meno secondo quanto immaginato nella serie cinematografica, non fa che aumentare gli elementi mistici della sequenza. Si tratta, dopo tutto, di una branca del contact juggling ancora relativamente inesplorata, che proprio in funzione di questo eclettismo è riuscita a trovare l’inserimento nel popolare canale asiatico di YouTube Kumafilms, per l’occasione in trasferta presso qualche paese d’Occidente, probabilmente l’Inghilterra o gli Stati Uniti. La pagina Facebook dell’artista fa riferimento a un vecchio e-commerce del portale Shopify, che tuttavia risulta inaccessibile da qualche tempo. Dovremo quindi accontentarci, ancora una volta, di osservare semplicemente la poesia dei movimenti sullo schermo, senza eccessivi orpelli di contesto.
E c’è da dire che l’effetto del montaggio professionale, in aggiunta ad una tale dimostrazione di destrezza, crei un tutt’uno degno di essere inserito nell’antologia digitale di chi tenti di trasmettere la sua passione al mondo: il numero inizia in modo piuttosto semplice, con Mr E che fa mulinare lentamente un singolo bastone con le mani. Poi, ad un certo punto, smette di stringerlo e lo lascia proseguire da solo, come se si trattasse di un cobra ammaestrato. L’oscillazione stranamente ritmica diventa il primo verso di un discorso, destinato ad evolversi nel giro dei secondi successivi; da un singolo prop (termine tecnico per un qualsiasi ausilio alla giocolerìa) si passa a due in parallelo, che tendono a influenzarsi a vicenda in un susseguirsi d’imprevedibili combinazioni. Poi, quasi obbligatoriamente, si passa all’elemento che distingue l’uomo dagli altri animali della Terra: il fuoco, grande insegnante di cautela. A tutti, ma non questo maestro dell’esecuzione manipolatoria: è ancora lì, infatti, che continua a farsi mulinare addosso le sue armi, evidentemente ricoperte con del kevlar e una qualche sostanza alcolica, noncurante dei lembi che lo ghermiscono da tutti i lati. Per fortuna che porta, a differenza di alcuni artisti del circo, i capelli tagliati rigorosamente corti! In questa particolare configurazione, la sua attività finisce per assomigliare a quella del mangiafuoco, che esegue movenze comparabili con le sue torce o vari tipi d’implementi para-bellici, come scimitarre o spade d’altro tipo. Un’altra influenza, volendo, si potrebbe ritrovare nelle tecniche d’impiego dei poi sticks, bastoncini con la luce colorata usati per danzare o nella fotografia con lunghi tempi d’esposizione, per la realizzazione di figure fluttuanti nell’aria. Mr. E .LullAbhay dispone anche di un suo personale canale su YouTube oltre al già citato profilo di Facebook pubblico ed ancora regolarmente aggiornato

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L’arte di tagliare la carta innanzi a un pubblico estasiato

Shoraku kamikiri

Il kamikiri che è, naturalmente, una tecnica tipicamente giapponese. Rinforzando ulteriormente lo stereotipo, rigorosamente positivo, secondo cui quel popolo ha prodotto alcuni tra i migliori tecnici della creatività, in grado di veicolare i propri sentimenti e l’immaginazione tramite gli approcci più diversi. E c’è davvero da meravigliarsi dagli oltre 1700 anni di storia del paese, non ci è mai giunta notizia di un filosofo nel senso puramente occidentale, ovvero un individuo dedito allo studio del pensiero? Quando un qualsiasi stato d’animo poteva palesarsi tramite l’impiego di parole in versi, qualche pennellata su di un rotolo, la lavorazione del legno, della lacca o dei metalli…Per non parlare della carta washi. Forse in nessun altro luogo si è mai trasportata a un tale lido d’eccellenza l’ampia varietà di stili, approcci e metodi per trasformare un tale bianco materiale, tradizionale frutto delle fibre del gelso o del frumento, in via d’accesso al mondo della trascendenza. Origami: figure tridimensionali create unicamente ripiegando un foglio su se stesso, tra cui la celebre gru, che fabbricata mille volte avrebbe dato accesso al paradiso dei buddhisti. Kirigami: una creazione che si configura grazie all’uso delle forbici e talvolta, anche la colla, intagliando configurazioni di un’estrema complessità, come la spettacolare kusudama, la sfera basata sulla ripetizione matematica di un modulo. Pepakura: un’espressione più moderna della stessa cosa, spesso mirata alla ricostruzione in miniatura di personaggi, veicoli o robot dei cartoni animati. E ciascuna di queste, un’arte frutto non soltanto di una lunga pratica, ma un certo periodo d’impegno personale e solitario per ciascuna produzione, affinché tutto sia perfetto, l’espressione di un sapere antico.
Mentre il kamikiri è follia pura in movimento, frenesia creativa, il senso di creare che diventa ribellione frenetica, contro il senso della quotidianità insistente. Un solo uomo, seduto sul riconoscibile palco del genere teatrale d’intrattenimento yose, che si agita e canta, tenendo in mano due strumenti: un foglio e un paio di forbici estremamente affilate, tramandate nella sua famiglia assieme al còmpito e il segreto. Per chiamare il pubblico a partecipare di un sublime quanto memorabile divertimento. Funziona così: qualcuno, dai sedili del teatro, chiama una figura, che può essere naturale (animali, piante) tradizionale (un personaggio di qualche dramma o celebre leggenda) o impossibile (l’uomo invisibile, il vento, “la nostalgia”). Al che l’artista, qualche volta dondolandosi o cantando, altre intavolando un buffo ed insensato monologo, si mette di buona lena, realizzando in pochissimi minuti la sua migliore interpretazione di quanto richiesto. Nessun disegno preparatorio, niente piano operativo. Certamente, ben poco della massima concentrazione e il silenzio a cui si associa normalmente il gesto del creativo; ma alla fine, il risultato…Parla da sé! Una delle immagini che non possono mancare in una singola sessione di kamikiri è la fanciulla con il glicine, una figura in kimono, e in genere il cappello, che trasporta sulla spalla un grosso ramo di quel rampicante, possibilmente fiorito. La realizzazione delle foglie e dei fiori, straordinariamente irregolari nelle forme, richiede decine di rotazioni del foglio, mentre colui che opera con sicurezza preternaturale sa comunque molto bene, che un singolo errore può bastare a rovinare tutto quanto. Ma questo non succede. Incredibilmente, volta dopo volta, un maestro del kamikiri porta la sua arte fino alle estreme conseguenze, creando dal semplice il complesso, e da qualche minuto d’intrattenimento, un’esperienza degna di durare. Colui che vediamo all’opera nel video di apertura è Hayashiya Shoraku (林家正楽), terzo del suo nome, vera celebrità nazionale nonché uno dei principali ambasciatori nel mondo di questa suggestiva forma d’espressione personale. È inutile dire, poi, che ne esistono innumerevoli varianti.

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