Strana Romania, l’ultimo dominio delle pietre viventi

Molte sono le maniere in cui la vita può riuscire a presentarsi sulla Terra: esseri quadrupedi, striscianti, acquatici o volanti. Ma tutti accomunati dalla sussistenza di una serie di caratteristiche, tra cui la struttura cellulare a base di carbonio, un qualche modo per incamerare l’energia riuscendo a trasformarla dalle fonti commestibili o luminose. Tanto che riesce assai difficile, per la nostra mente, immaginare specie senzienti che siano totalmente scollegate da simili princìpi, nonostante il reiterato impegno per correnti successive della cosiddetta letteratura speculativa o di fantascienza. Il distinguo che resta possibile applicare tuttavia, accettando come metafisica le concessioni necessarie a tale salto, è quello che smette d’interpretare come meri processi meccanici ciò che determina gli effetti e le cause dell’Universo: il materiale protostellare che converge e si compatta, per costituire e accedere come guidato da un copione il proprio nucleo denso, simile ad un forno nucleare “spontaneamente” posto in essere nel punto ideale a farlo. I pianeti che lasciano navigare i propri continenti, nella costituzione di forme funzionali alla definizione dei diversi biomi e paesi frutto dell’arbitraria suddivisione dei propri abitanti. Ed alla stessa maniera, come il piccolo sviluppo riesce riprendere quello dell’insieme, pietre si trasformano e diventano… Pietre diverse. Sto parlando in questo caso delle trovanti, come le chiamano da queste parti utilizzando il gergo geologico nazionale, che poi sarebbero la regione rumena centro-meridionale di Valcea, lungo una strada di scorrimento situata in prossimità del villaggio rurale di Costesti, ove l’associazione geologica locale, disponendo alcuni cartelli e una staccionata su mandato governativo, ha creato quello che viene formalmente definito un museo, sebbene privo di pareti, soffitto o porta d’ingresso. Questo perché i suoi reperti o se vogliamo, abitanti dalla forma insolita e tondeggiante, sono tanto inamovibili quanto soltanto pietre da svariate tonnellate possono riuscire ad esserlo, costituendo l’effettivo esempio di un qualcosa che sussiste da un periodo significativamente più lungo del vicino insediamento umano. Pur essendo, nell’opinione informata di coloro che ben le conoscono, tutt’altro che prive di una sorta di spirito d’iniziativa inerente. Ciò che già i cronisti delle epoche trascorse ebbero modo di notare, quindi far giungere fino a noi nelle loro testimonianze, è infatti che gli antichi sassi parevano capaci di presentarsi leggermente diversi successivamente ad una lunga pioggia, con escrescenze o nuove protuberanze quasi come fossero una sorta di funghi. Esse, inoltre, in base alla sapienza popolare erano solite spostarsi e moltiplicarsi (!) nonostante fossero composte di quel tipo di materia rigida in cui non scorre sangue, linfa o nessun tipo di sentimento. Il che diede, per lungo tempo, luogo alla comprensibile cognizione secondo cui le trovanti fossero depositarie di un potere magico ultraterreno, per volere di spiriti o demoni discesi dal fianco della montagna. Così che gli abitanti della Romania, per tutto il Medioevo ed il Rinascimento, sono riportati aver prelevato piccoli pezzi delle pietre o interi ponderosi esempi, con finalità apotropaiche per il proprio giardino o semplicemente allegoriche nella costituzione delle proprie tombe. Poiché si diceva che simili aspetti paesaggistici fossero la risultanza della solidificazione delle nubi stesse, ancora predisposte a ritornare ciò che erano in un tempo molto lontano e lungamente dimenticato. Se soltanto le condizioni giuste, un giorno, fossero tornate a presentarsi…

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Sacro e profano nella capitale sotterranea dell’Australia Meridionale

Procedendo a velocità sostenuta lungo la Stuart Highway tra Glendanbo e Witinna, tra colline aride distanti e vaste distese di terra rossa, è possibile scorgere una caratteristica insegna; un camioncino di colore scuro con un secchio di raccolta del minerale, posto ad almeno quattro metri d’altezza sopra quattro palafitte recanti la curiosa dicitura “Coober Pedy”. Che poi risulta essere il preciso nome di una rinomata cittadina, la quale in effetti non parrebbe figurare nelle immediate vicinanze di quell’importante punto di riferimento veicolare. Soltanto quella che parrebbe essere una pista d’atterraggio sulla distanza, e qualche casa situata quasi sulla linea dell’orizzonte. Ma a tutti coloro che dovessero ritrovarsi inclini a concedere la visione naturalmente abbreviata delle distanze in un paese dove una singola proprietà agricola può avere le dimensioni del Belgio, in qualità di giustificazione per una tale discrepanza tra l’insegna e ciò a cui vuole riferirsi, consiglierei di parcheggiare, avvicinandosi ad essa con un grado particolarmente elevato di cautela. Per non finire per mettere un piede (oppure tutti e due) all’interno di uno delle svariate migliaia di pozzi d’aerazione mineraria, o altre vie d’accesso al regno abitativo che si estende sotto la sabbiosa superficie in un paesaggio tanto simile agli stereotipi del pianeta Marte, dove per quanto ne sappiamo, comunità altrettanto invisibili potrebbero aspettare solamente di essere scoperte.
Questo perché la cittadina del “Buco in cui Vive L’Uomo Bianco” (kupa-piti in lingua aborigena) popolata da circa 2.000 abitanti al conteggio attuale, presenta ai suoi visitatori un’interessante e senz’altro rara cognizione degli spazi abitativi, convenzionalmente identificata con il termine in lingua inglese di dugout (“scavo”). Nella roccia d’arenaria non troppo resistente, grazie all’uso di strumenti per lo più meccanici, senza bisogno di ricorrere alla dinamite e verso l’ottenimento di ogni sorta di meraviglia: ricche residenze complete di vasti soggiorni aperti all’ospite di giornata, luoghi di ristoro il cui bancone è scolpito nella stessa sostanza di pavimento, soffitto e pareti. Oltre a tutti quei fondamentali luoghi per la conduzione di una vita funzionale, tra cui ambienti dedicati alla ritualità religiosa, imprescindibile momento d’introspezione sotto la supervisione di un sacerdote. E potrebbe anche sembrare di essere accidentalmente entrati in un’antica catacomba, se si effettua il proprio giro con la giusta inclinazione psicologica, vista la presenza di non una bensì cinque di queste caverne ricavate ad hoc, in cui la volta stessa è stata calibrata al fine di richiamare alla mente una vera e propria navata costruita secondo i presupposti di superfici. Con modalità particolarmente evidenti nel caso della chiesa Serba Ortodossa e quella Cattolica di San Pietro e Paolo, le due più imponenti, mentre la antica in ordine di tempo, di matrice Anglicana e fondata negli anni ’60, assomiglia maggiormente alle rudimentali cave costruite al tempo degli imperatori di Roma. Degne di menzione anche le due sale più recenti e tra i cunicole della miniera della Compagnia della Resurrezione Pentecostale e della Christian Fellowship di Coober Pedy, completa di gruppo di studio della Bibbia aperto ad aspiranti di tutte le età. Luoghi di meditazione ed introspezione, ricerca di colloquio con un potere superiore, lontano da ogni possibile fonte di distrazione meteorologica o ambientale. Tra le braccia del grande titano Gaia, personificazione della Terra stessa…

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La rara “pietra danzante” che si piega come fosse una piadina romagnola

In molti ricorderanno attraverso il corso delle proprie esperienze cinematografiche degli anni ’80 il personaggio del Mordiroccia, descritto dallo scrittore originale del romanzo Michael Ende come un gigante dalla pelle coriacea, capace di trarre sostentamento tramite il consumo di materia non organica, frantumata entusiasticamente tra i suoi denti simili a possenti mole. Ultimo della sua specie (come potrebbe essere altrimenti) l’essere descrive quindi all’eroe protagonista della narrazione il gusto posseduto dai diversi minerali: la spontanea dolcezza dello zinco, il sapore salato del rame, l’intenso umami posseduto dal ferro. E le consistenze tanto varie e sconosciute agli uomini, numerose quanto quelle di pietanze distribuite sulle nostre tavole dell’ora di cena. Ma se quel titano gentile, ci viene dato ad intendere, avesse mai voluto masticare, masticare qualche cosa per un tempo superiore al singolo minuto, si sarebbe ritrovato a fare i conti con un grave ostacolo procedurale: l’effettiva mancanza, a beneficio delle proprie proporzioni e preferenze alimentari, di un qualcosa che potesse fungere in maniera simile ad un chewing gum. Un gran peccato, per il regno di Fantàsia, quando si considera come la nostra prevedibile e familiare Terra ospiti tra i suoi depositi geologici qualcosa in grado di servire esattamente a tale scopo. Una cosa che parrebbe sfuggire alla definizione stesso del concetto espresso da tale parola, eppure per sua formazione, provenienza e composizione, giammai potrebbe essere null’altro di apprezzabile dall’esperienza sensibile di chi usa gli strumenti della ragione. “A-arenaria?” Pare quasi di sentire il rombo che riecheggia in mezzo alla palude, mentre mette in bocca il singolare dono proveniente dall’altro lato del portale: “Quanto dura il suo sapore, oh, quanto dura!”
Più che dura ed abbastanza, potremmo affermare con particolare presenza di spirito e d’intenti. Poiché qui di effettivamente durevole, c’è soltanto quello; mentre il pegno mineralogico del nostro affetto, con tanta magniloquenza offerta all’imponente ospite della serata, oscilla a trema, si piega e non mantiene la sua forma. Ovvero tutto quello che ti aspetteresti da un qualcosa di derivazione vivente, ovvero scheletro o residuo di esseri già fagocitati dal furioso Nulla delle circostanze. Niente di più sbagliato… Di questo! Griderebbe al nostro indirizzo il Marchese di Lavradio, vicerè di Rio de Janeiro, che per primo nel 1780 scoprì e descrisse le notevoli caratteristiche di un tale materiale ritrovato presso il monte Itacolumi, nella porzione meridionale della regione sudamericana di Minas Gerais. Mancando di assegnarli un nome ma annotando la presenza di una certa quantità di talco, clorite e mica, all’interno di un corpo mineralogico a base di arenaria fissile trovata nel sostrato coloniale. E soprattutto la capacità niente meno che sorprendente, da parte di un simile soggetto sperimentale, di piegarsi per l’effetto di una sollecitazione ragionevole, o persino sotto il suo stesso peso, una volta tagliata in strisce abbastanza sottili. Una dote per di più isotropica, ovvero indipendente da una singola direzione della grana, bensì in grado di verificarsi lungo l’estendersi dell’oggetto in qualsivoglia senso, proprio come si trattasse di un foglio di carta o tappetino per il bagno ammorbidito dall’acqua furiouscita da una vasca eccessivamente piena. Pur mancando dei moderni metodi d’analisi petrologica, e mancando di assegnargli un nome più specifico di quello di “arenaria flessibile” il Marchese avrebbe quindi trovato una conferma delle sue ricerche nei rapporti di Mr R.D. Oldham, direttore dell’Istituto Geologico dell’India, capace di trovare un tipo di pietra molto simile presso le pendici del monte Kaliana, vicino Dadri a Jhind. Con la sola significativa differenza di una grande quantità osservabile di quarzite nella sua composizione, tuttavia capace di accrescere, piuttosto che diminuire, le sue implicite capacità di flessione. Un effettivo appellativo utilizzabile per il concetto di tale misteriosa materia sarebbe quindi giunto dal mondo accademico europeo, alla consegna dei campioni in sede al geologo Von Eschwege, che scelse di chiamarla semplicemente itacolumite, dal suo luogo di provenienza originale in Brasile. Fu questo l’inizio, di un lungo periodo d’approfondimento ed introspezione…

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La magia di un colonnato creato in modo autonomo dalle forze preistoriche della natura

Molte sono le meraviglie visibili all’interno, e conseguenti ragioni per pianificare una visita, del geoparco naturale della regione di Flores a 46 Km da Trinidad, nell’Uruguay meridionale: oltre 100 specie di uccelli, tra cui falchi, aquile ed il cuculo guira, dalla caratteristica cresta ornamentale. I nidi compatti degli horneros, piccoli passeriformi dal colorito rossastro. Ed armadilli, volpi, opossum, lucertole e serpenti di varia natura e dimensione. Ma c’è una sola attrazione, di natura tutt’altro che vivente, ad essere stata giudicata degna di dare il nome in lingua originale a questo mirabile recesso: la grotta preistorica, dall’aspetto particolarmente insolito, chiamata anticamente Palacio de los Indios, poiché si diceva che qui essi avessero preso dimora. Mentre un particolare capo villaggio, il padre del guerriero semi-leggendario Darien, aveva nascosto al suo interno i preziosi tesori della tribù Charrúa, successivamente alla venuta dei conquistatori europei. Dal che deriva l’interpretazione più spontanea di una simile struttura, capace di presentarsi all’occhio dei visitatori come ragionevole approssimazione di un colonnato dell’Italia rinascimentale, frutto della pianificazione geometrica di un legittimo Bernini di queste terre al di là del Mare. Un’interpretazione potenzialmente condivisa anche dal suo primo scopritore, il Dr. Karl Walter posto a capo della Scuola di Agronomia locale tra il 1909 e il 1938, almeno fino agli approfonditi studi geologici da lui effettuati sulla questione. I quali rivelarono non soltanto una durezza eccessiva della roccia, affinché fosse possibile riuscire a lavorarla con strumenti di tipologia Neolitica, ma soprattutto alcuni fossili perfettamente conservati di quelle che potevano soltanto essere chiamate delle vere e proprie uova di dinosauro. Il che permise di datare alquanto facilmente la venuta in essere dell’intero costrutto roccioso al Cretaceo Superiore (99-66 milioni di anni fa) con successiva solidificazione durante il primo Terziario o Cenozoico (66 mya) ovvero qualche annetto prima, per usare un clamoroso eufemismo, rispetto all’evolversi di una qualsiasi forma d’ominide terrestre. Il che lasciava soltanto una possibile interpretazione sul tavolo del professore: che se anche le popolazioni delle pampas avevano eletto a propria prestigiosa dimora questi labirintici pertugi, essi non potevano dirsi responsabili della loro costruzione. Frutto fondamentale ed innegabile, di un sofisticato processo di derivazione naturale. Il che sollevava un’ampia nuova serie di questioni, piuttosto che esaurirne alcuna, a partire dall’inconcepibile questione situazionale, che vedeva la già celebre Gruta del Palacio come un caso unico al mondo, frutto di un contesto geologico così evidentemente privo di termini di paragone.
Difficile, nei fatti, venire a patti con una simile inconfutabile interpretazione. Quando si osserva l’aspetto esterno di una simile meraviglia paesaggistica coperta di muschi e licheni, composta da un affioramento sporgente di arenaria rossastra sporgente di circa dal pianeggiante territorio di Flores, con circa 200 colonne da 2 metri d’altezza sormontate da un “tetto” di ulteriori 80-90 cm, oltre le quali si apre un oscuro dedalo esplorabile per una profondità di 30 metri. Ma era stato già lo speleologo genovese Mario Isola, nel 1877, a provare che il percorso continuava in profondità fino a recessi ancor più irraggiungibili, attraverso strettoie progressivamente parecchio inferiori all’ingombro di un avventuroso esploratore umano (per non parlare di eventuali antichi tesori dei Charrúa). In una maniera convenzionalmente associata alle formazioni carsiche di pietra calcarea, ma per una serie di cause ed effetti dalla derivazione totalmente diversa…

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