L’edificio avvolto nell’involucro dei suoi pilastri privi di una geometria evidente

C’è una strada che attraversa, nella parte nord-orientale di Los Angeles, il susseguirsi di proprietà industriali e grandi uffici che caratterizzano l’agglomerato parte della megalopoli che prende il nome di Culver City, cittadina formalmente indipendente già dai primi anni del Novecento. Può vigere d’altronde la latente sensazione, procedendo in auto parallelamente alla costa (non è pratico negli USA, e soprattutto in California, immaginare di poter fare i turisti a piedi) di stare addentrandosi nel regno surreale di un diverso piano dell’esistenza, in cui ogni creazione artificiale si conforma ad un particolare metodo d’interpretare la realtà, individuare punti di riferimento, dare una logica e un significato ulteriore all’utilizzo degli spazi esistenti. La visione, per esser maggiormente precisi, dell’instancabile ed ininterrotta collaborazione pluri-decennale, tra la famiglia di sviluppatori immobiliari dei Samitaur Smiths e l’architetto veterano Eric Owen Moss, maestro di un tipo di decostruttivismo che rifiuta ogni tipo d’etichetta imposta dal senso comune. Ma prima di notare, comprensibilmente, come ciò possa essere tutt’altro che raro, invito i vostri sguardi a posarsi per lo meno di sfuggita sul grattacielo ormai prossimo all’inaugurazione lungo il corso del Jefferson Boulevard, nuova “porta d’ingresso” di questo regno delle meraviglie costruito sul confine dei sogni. Il cui nome, (W)rapper riesce ad essere ben più che mera descrizione d’intenti, incorporando nell’aspetto grafico la coppia di parentesi che avvolgono, in qualche maniera, l’iniziale simbolo del termine di riferimento. Così come il singolare palazzo, alto 60 metri per 16 piani per quasi 17.000 metri quadrati di spazio utile, si presenta incapsulato nell’immaginifico incrocio di un’obliqua pletora di quelli che vorrebbero evidentemente sembrare dei sottili ed improbabili nastri di cemento. Pur essendo effettivamente costruiti in acciaio, ricoperto da un ritardante antincendio di colore grigio in base ai codici normativi vigenti, al fine di costituire non soltanto un insolito elemento decorativo. Bensì parte fondamentale di quello che può esser definito a pieno titolo una sorta d’esoscheletro, ovvero parte rigida dell’edificio, capace di sostituirne gli eventuali pilastri o altri orpelli capace d’ingombrarne gli spazi disponibili all’interno. Per il risultato di una letterale scatola di vetro totalmente vuota, utile a realizzare ampi ambienti con open space o persino, per assurdo e come afferma scherzando lo stesso architetto, “Una pista da bowling con vista sulla città antistante. Un privilegio e corollario importante, sotto mentite spoglie, quando si considera l’ottimizzazione dell’ultimo piano al fine di ospitare uno spazio panoramico a 360 gradi, potenzialmente destinato ad essere dotato di ristorante. Ma prima che un simile piano possa realizzarsi, mentre i livelli sottostanti si riempiono del tipo d’aziende diventate comuni a Culver City nel corso degli ultimi anni, moderne, anti-conformiste, scevre di sovrastrutture latenti, la strana torre ha continuato progressivamente ad ergersi attirando gli sguardi della gente, accompagnati da una vasta gamma d’opinioni prevedibilmente contrastanti. Uno stato dei fatti non raro per le opere di questo architetto, che è stato riportato affermare “Nel panorama degli spazi abitativi contemporanei, se vuoi essere davvero originale dovresti costruire un semplice parallelepipedo con porta, tetto, finestra.” Pur continuando a muoversi coi propri gesti in direzione diametralmente opposta, poiché “Se puoi costruirlo, sei anche in grado d’immaginarlo” E il risultato è quanto mai notevole per gli occhi di tutti…

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L’UFO traslucido posizionato sopra la vecchia stazione dei pompieri di Anversa

Nella tipica impostazione urbanistica di una città portuale, esistono due principali edifici di rappresentanza. Il primo è il municipio, roccaforte amministrativa della terraferma, dove il sindaco e il suo entourage s’incontrano per prendere le decisioni che coinvolgono l’intera collettività indivisa. E la seconda è la sede della principale autorità portuale. Il nesso principale, ovvero il mozzo della ruota, intorno a cui ruotano le direttive rilevanti, per tutti coloro che si trovano per numerose valide ragioni a far passare i propri interessi di tipo economico per le acque situate innanzi ai moli, luoghi o ponti d’accesso verso l’inseguimento dei loro singoli obiettivi finali. Osservando in particolare la seconda via d’accesso marittima verso il territorio belga, ed in tale accezione a dire il vero l’intera Europa, si potrà percepire ormai dall’anno 2016 la forte sensazione che non soltanto le mercanzie di origine terrestre, ma pure quelle provenienti da mondi ed universi lontani potrebbero aver trovato in questa sede un punto d’approdo utile ad essere instradate verso i propri entusiastici destinatari finali. Questo per l’incombente presenza, metallica e sfolgorante, di quella che parrebbe a tutti gli effetti presentarsi come un’astronave. E non del tipo grezzo ed utilitaristico della classica fantascienza di svariate decadi a questa parte, bensì l’equivalenza strutturale di un cigno di cristallo, con una forma spigolosa dalle plurime sfaccettature, idealmente circondate da una invisibile campo di forza pronto a riattivarsi non appena gli occupanti avranno concluso i propri affari tra la gente di questo grigio e prevedibile pianeta. Uno stereotipo, quest’ultimo, fortemente in bilico dinnanzi all’effettiva presa di coscienza di chi abbia progettato e costruito tutto questo, in qualità di uno dei propri ultimi lasciti in ordine di tempo prima di un’ancor più improvvida, ed irrimediabile dipartita. Sto parlando dell’architetto irachena-inglese Zaha Hadid, considerata campionessa del post-modernismo e decostruttivismo contemporanei sebbene fosse incline a rifiutare entrambe le vigenti categorizzazioni. Il che risultava necessariamente implicito, nella personalità creativa di una progettista incline a creare qualcosa di così dirompente, ed al tempo stesso convincere i committenti ad allontanarsi fino a questo punto dal comune paradigma situazionale. Il problema, d’altra parte, risultava relativamente semplice: creare un edificio ove riunire i circa 500 dipendenti coinvolti nelle mansioni sopra menzionate, che integrasse o in qualche modo migliorasse la funzionalità di un pre-esistente edificio, il caseggiato quadrangolare di epoca Anseatica, precedentemente appartenuto ai vigili del fuoco della città. Una visione che in ultima analisi poteva prendere soltanto due strade, tra le quali è stata scelta chiaramente una terza…

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Il polo dello sport più avveniristico mimetizzato nell’antica capitale confuciana

Poco dopo l’anno Mille secondo il criterio di calcolo europeo, l’entità politica da lungo tempo nota come dinastia Tang dei cinesi andò incontro a destabilizzazioni e divisioni d’irrimediabile entità. Il che avrebbe portato, come già successo in altri casi precedenti, all’imporsi di sovrani territoriali e indipendenti, ciascuno dei quali assolutamente certo di avere diritto esclusivo al predominio sul grande Impero. Uno di costoro sarebbe stato il duca Yansheng Duanyou, “l’Onorevole ricolmo di Saggezza” capace di far risalire la propria linea di discendenza fino al grande studioso fondatore ad una delle discipline filosofiche più importanti di tutto l’Oriente. Così mentre a settentrione suo fratello Duancao, attribuitosi lo stesso titolo, diventava un pezzo forte della neonata dinastia dei Jin all’interno della prefettura settentrionale di Huining, egli avrebbe costruito la propria roccaforte presso una località nota come Quzhou, situata 400 Km a sud-ovest del villaggio costiero che nei secoli successivi sarebbe diventato celebre col nome di Shanghai. Un luogo giudicato ameno, dai dolci declivi collinari e un clima accogliente, attraversato da una pluralità di fiumi e dotato della collocazione strategica ideale come polo del commercio dell’intera regione, nota a tal proposito come “l’arteria di quattro province e il punto d’arrivo di cinque strade”. Una situazione destinata molti secoli dopo a evolversi attraverso i lunghi anni della dinastia dei Song ed oltre, mediante l’implementazione progressiva di una delle zone più pesantemente urbanizzate della Cina orientale, assai lontano dall’ideale estetico delle generazioni d’artisti e letterati capaci d’ispirarsi alla visione confuciana dell’armonia tra uomo e natura. Che sarebbe stata almeno in parte, nel corso di questi ultimi quattro anni, nuovamente perseguita grazie all’implementazione di un valido complesso architettonico, dedicato alla pratica collettiva figlia dell’odierna e contrapposta visione del mondo, lo sport. Difficile immaginare dunque cosa avrebbero pensato gli studiosi dell’epoca, inclini a perseguire l’attività intellettuale spesso a discapito di una via concreta dedicata al perfezionamento dei gesti, di fronte al cospicuo investimento pubblico dedicato al rinnovamento della cosiddetta Città Felice dello Sport, uno spazio di 173 acri degno di ospitare a pieno titolo una versione regionale del concetto di Olimpiadi, con i suoi quattro stadi ciascuno dedicato ad una particolare sfaccettatura del culto agonistico della competizione performativa. Ma di certo essi sarebbero rimasti colpiti dalla configurazione, qui dettata grazie alla supervisione del rinomato studio architettonico MAD nella persona del suo fondatore Ma Yansong, l’architetto appena quarantacinquenne già campione di un modo molto filosofico d’interpretare e dare forma alle proprie idee. Così esemplificato in questo caso dal sorgere del grande spazio rettangolare, circondato da tre strade di scorrimento ed un percorso ferroviario ad alta velocità, all’interno del quale ogni regola presunta del paesaggio urbano cessa di pesare in alcun modo sulla configurazione dei singoli elementi. Tra l’apparente nuvola sospesa, svettante sopra un terrapieno erboso, circondata da coniche equivalenze dei massicci montuosi ritratti nei dipinti dell’epoca classica, ma ciascuno sormontato da un massiccio lucernario splendente. Quasi come se un popolo sotterraneo, nell’incedere inarrestabile delle epoche, avesse scelto di costruirvi la propria residenza all’interno…

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St. Louis degli acquedotti stravaganti: cinque torri all’ombra del Gateway Arch

“Cittadini, avete dimenticato la storia di Noé? Tutti furono puniti, tranne lui. E adesso demolite questa dissacrante… Struttura, giacché Dio può essere raggiunto solamente con lo spirito, non certo scale a chiocciola e slanciati minareti!” Avrebbe potuto dire qualcuno all’indirizzo dell’architetto finnico-americano Eero Saarinen, prima che la sua opera maggiormente destinata a rimanere negli annali cominciasse a ritornare verso il suolo. Formando la più ragionevole e palese imitazione di un arcobaleno, costruito con l’acciaio inossidabile e per questo in grado di riflettere la luce solare. E soltanto una continuò ad essere la lingua parlata della gente, Egli permettendo, nel grande centro urbano definito Porta dell’Ovest, che da quel fatidico momento avrebbe dato forma fisica all’appellativo metaforico in questione. Ma oltre 70 anni prima di quel frangente, la più affollata tra le piane fluviali del Missouri, che prende il nome sugli atlanti di St. Louis, aveva già i suoi punti di riferimento, costruiti in senso verticale al fine presumibile di ergersi e attirare gli ammirati sguardi della gente, almeno finché non capitasse di avvicinarvisi (ove possibile) soltanto per udire un lieve suono gorgogliante che pare protendersi al cospetto dell’Infinito. Giungendo a rivelare l’effettiva natura, difficilmente sospettabile, di simili apparati: non dei monumenti commemorativi, né il monito del municipio a non costruire palazzi più alti del dovuto. Bensì parte imprescindibile, ed innegabilmente necessaria, dell’intero impianto idrico cittadino, destinato ad espandersi in maniera esponenziale con la fine del XIX secolo, mentre le industrie dei commerci e quella terziaria andavano a sostituirsi gradualmente alle antiche fonti di reddito dell’intera regione. Questo perché all’epoca, in un luogo tanto ricco di risorse idriche e contrariamente ad altre celebri città statunitensi, il problema principale non era tanto raggiungere i luoghi più alti mediante l’utilizzo di un’adeguata pressione. Bensì limitare questo implicito valore, evitando la vibrazione usurante dei tubi e il loro occasionale collasso, con conseguenti allagamenti di locali ed altri ambiti preferibilmente predisposti al fine di restare asciutti. Situazioni per risolvere le quali, all’epoca, menti fervide s’industriarono per decadi, fino all’elaborazione teorica della torre idrica di sfogo, una struttura tanto differente dalle odierne alternative tozze e bulbose, quanto efficace nel suo ormai desueto compito all’origine della creazione di partenza. Così nel giro di appena un paio di generazioni, oltre 700 simili strutture cominciarono a sorgere nei luoghi più affollati degli Stati Uniti, per poi essere gradualmente demoliti con l’ingresso dell’epoca contemporanea, e l’implementazione di metodologie più efficaci atte a risolvere la stessa tipologia di problemi. Tutte tranne l’effettivo 1%, di cui poco meno della metà si trova effettivamente ancora ad ergersi nella seconda metropoli dello stato, per una singola nonché palese ragione: la maniera in cui tali arnesi verticali riescono a spiccare tra la massa dei grigi edifici contemporanei, risalendo a un’epoca in cui la bellezza delle forme pareva essere la propria stessa ricompensa. Ed abili architetti, chiamati sulla scena al presentarsi dell’opportunità, crearono altrettante meraviglie degne di essere inserite, col trascorrere degli anni, nell’elenco dei luoghi storici degni di essere preservati nonostante il cambiamento significativo del proprio contesto. A partire dalla candida, svettante e quasi surreale “Grandiosa Colonna” (di “Grand Avenue” per l’appunto) che svolgendo la funzione accidentale d’imponente meridiana, segna il giro delle ore nella tranquilla e relativamente poco trafficata zona di College Hill…

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