Il visionario dell’oceano che si pulisce da solo

C’è una naturale progressione che emerge, osservando in ordine alcune delle numerose conferenze tenute a partire dal 2012 da Boyan Slat di The Ocean Cleanup, il giovane imprenditore olandese che è riuscito a far concentrare sul suo progetto fondi per oltre 30 milioni di dollari, con la finalità ultima di ripulire il Grande Vortice di spazzatura nel Pacifico, assieme agli altri quattro che minacciano la vita marina di questo pianeta. È la testimonianza del percorso di un ragazzo appena diciottenne, quando salì per la prima volta sul palco dell’organizzazione TED, per annunciare al mondo la portata fenomenale della sua idea, visibilmente nervoso nonostante il valore del suo messaggio al servizio di un’idea. Poi gradualmente più sicuro di se e della difficile dizione in lingua inglese, per ciascuna apparizione pubblica, fino all’ultima del maggio scorso ad Utrecht, in cui domina il palco ed il pubblico come un capo d’azienda ormai consumato. In un’occasione, non perfettamente connotata da una didascalia esplicativa (cos’era questo? Un evento per la stampa? Una pubblicità divulgativa?) in cui fa di tutto: cammina tra la gente mentre espone dalla passerella, attorno ad un monitor orizzontale con la forma tondeggiante della Terra che pare uscito da un film di James Bond. Estrae da un contenitore alcuni esempi di quella stessa plastica che costantemente minaccia, a causa del fenomeno della fotodegradazione in mare, di sminuzzarsi in particelle sempre più piccole e impossibili da recuperare, finendo all’interno della catena alimentare con tutto il suo contenuto di sostanze tossiche in grado di uccidere gli animali. E per loro tramite, prima o poi, fare lo stesso a noi. Quindi al momento cardine dell’intera faccenda, portato in scena dal pubblico una sorta di acquario, descrive puntualmente il modellino contenuto al suo interno. Un sistema, proposto come assolutamente rivoluzionario, che potrebbe permetterci di portare a compimento una delle imprese più importanti mai tentate nel campo dell’ecologia. Visto così in piccolo, ridotto alla dimensione di una trentina di centimetri, non fa una grandissima impressione: si tratta di una diga galleggiante a forma di parabola, con un’ancora da trascinamento disposta all’interno di una corrente artificiale, generata da un’elica al di sotto dell’inquadratura. Le implicazioni, tuttavia, diventano chiare nel momento in cui Slat getta nell’acqua alcuni frammenti di polistirolo: poiché mentre lo stesso flusso, in maniera progressivamente più enfatica, li spinge innanzi, non può riuscire a farlo a un comparabile ritmo con il congegno galleggiante. Che quindi nel giro di pochi secondi, li blocca all’interno del suo semicerchio, conducendoli, per effetto unicamente dell’inerzia, alla posizione culmine dell’intera faccenda. Dove un’imbarcazione apposita potrà, nel caso del congegno realizzato su scala reale, raccoglierli nel giro di pochi minuti o ore. Comprendente il significato di tutto questo? Perché mai impiegare il sostegno di un costoso ed inquinante motore, quando ci si trova già all’interno della più grande lavatrice della Terra? Tutto ciò di cui sarà necessario preoccuparsi, sarà far muovere la propria barriera più lentamente di quello che si ha intenzione di raccogliere dal mare. Inoltre, poiché quest’ultima non è una rete, bensì un qualcosa di solido, non c’è niente in cui i pesci possano restare impigliati, permettendogli facilmente di evitarla nuotando al di sotto del suo lento passaggio.
Ritornando quindi con l’occhio della memoria a quella prima conferenza di cinque anni fa, possiamo vedere l’idea originaria di cosa, effettivamente, dovesse costituire in origine la letterale chiave di volta di questo arco disegnato sulla superficie marina: una piattaforma fissata sul fondale, con la forma idrodinamica di una manta ray, dotata di un aspiratore in grado di rimuovere dal flusso marina quanto precedentemente radunato. Di questo particolare aspetto del concept non si parla più in tempi recenti, probabilmente perché ritenuto economicamente non praticabile o inutilmente complicato. Ma per il resto, il progetto è andato avanti ad un ritmo decisamente sostenuto. Nel 2014, prima ancora che la dialettica del suo ideatore riuscisse a guadagnarsi il supporto di facoltosi filantropi come Marc Benioff della Salesforce e Peter Thiel della Royal DSM, The Ocean Cleanup poté avvalersi dei circa 2 milioni di dollari raccolti online, grazie all’ormai immancabile campagna di crowd-funding costruita per chiedere al pubblico un piccolo, eppur significativo contributo.

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Incontri ravvicinati col cucciolo della foca elefante

Dopo aver raggiunto l’isola coi suoi genitori, che ben presto si erano diretti verso i luoghi d’intrattenimento da loro preferiti, si era ritrovato per lo più solo. Una situazione tutt’altro che ignota per uno che proveniva dal suo ambiente, dove il raggiungimento della “maggiore” età (6 anni) non era altro che una mera formalità, oltre la quale l’avrebbe atteso soltanto una vita di duri e significativi impegni: prendere il sole sulle spiagge dell’Antartide, difendere dagli altri maschi il territorio di accoppiamento, guadagnarsi la fiducia di un harem e immergersi nelle acque dell’Oceano Atlantico, fino alla profondità 2.000 metri, alla ricerca di guizzanti scampoli di cibo. Il più grande appartenente all’ordine dei carnivori! Il più forte dei pinnipedi! In grado d’immagazzinare nel suo organismo ossigeno sufficiente per fino a due ore di esplorazioni sottomarine. E adesso era lì, tra i fondali rocciosi, e in qualche maniera gli era difficile di stare provando un certo grado di noia. Agitando di qua e di là le dieci dita palmate che tutte assieme costituiscono la sua pinna posteriore, il giovane mammifero del peso appena di un paio di quintali (una volta adulto, avrebbe raggiunto anche le tre tonnellate) fece uscire la sommità della testa dalle gelide acque, subito seguìta dal più impressionante paio di occhi neri, simili a mirtilli della dimensione di una mela. Quindi, sorprendendo se stesso, si ritrovò a spalancare la capiente bocca di colore rosa: questo perché davanti a lui, campeggiava in piena evidenza una coppia di alieni! La pelle rossa tranne che per la sommità del capo, rosa in parte e per il resto nera. Anzi no: a uno sguardo più attento, le due entità sembravano ricoperte da una sorta di strato protettivo, come il pelo nel momento immediatamente successivo al periodo di muta. Il cucciolo di foca non sapeva spiegare la sua sensazione, ma in qualche maniera aveva compreso di trovarsi a due femmine, d’indole marcatamente amichevole. Questo fece scattare in lui una particolare linea di pensieri: “Strane persone non sono cattive. Loro non hanno figli che le accompagnano. Loro può fare me compagnia!” (Sintassi, grammatica, ortografia…?) Quindi molto lentamente, per non spaventarle, fece rotolare la sua massa già poderosa dalle ruvide circostanze del bagnasciuga. Lui non poteva infatti saperlo, non essendo evidentemente andato a scuola, ma questa era l’isola di Petermann, un luogo al largo della sinuosa piattaforma di ghiaccio Larsen, dal quale un essere sovrumano avrebbe quasi potuto scorgere la punta inferiore della Terra del Fuoco cilena. Ambiente in cui la sua particolare genìa, di alcuni degli animali più impressionanti di tutti e 7 i mari ed oltre, era in realtà un’occorrenza piuttosto rara. Assai più, in effetti, di quella dei semplici turisti umani, qui attratti ogni estate dalla presenza su queste terre dalla presenza un santuario per gli uccelli migratori rari, oltre a un’intera colonia di pinguini gentoo (Pygoscelis papua).
Così come lui, piuttosto amichevole ma cionondimeno smarrito e perplesso, si era trovato dinnanzi effettivamente a persone che mai, quel giorno, si sarebbero sognate di fare una tale esperienza. In simili situazioni, da che mondo è mondo, dev’essere sempre l’animale a fare il primo passo. O come nel presente caso, l’ultimo balzello. Valido a far emergere la vera e propria supposta vivente dall’acqua, iniziando il laborioso spostamento sulla poco scorrevole terra ferma. Fu allora che il cucciolo, con sua somma sorpresa, percepì qualcosa di totalmente inaspettato. Sempre più basito, fece aprire del tutto le sue narici più volte, in grado di flettersi durante le immersioni in profondità, e sentì un’odore indefinibile. La cui provenienza sembrava essere, misteriosamente, quella dei “sassi morbidi” che le due entità si erano trascinate dietro, qualcosa che i suoi genitori sarebbero forse riusciti a riconoscere come delle borse. Affini alle reti da pesca che talvolta incontravano, e da cui erano soliti sottrarre una certa quantità di pesce. “Cibo, uhmm, cibo.” Pensò tuttavia lui, mentre d’un tratto, la distanza pareva accorciarsi esponenzialmente. E poi d’un tratto, era lì. Aprendo di nuovo la bocca per annunciare la sua presenza, emise un breve suono acuto. “Le loro facce, così piccole. Non hanno peli.” Muovendosi con cautela, si avvicinò il più possibile, fino al punto di sentire il calore del loro corpo. O almeno, provarci. La loro scorza esterna era fredda come il ghiaccio! Che delusione. Infilando il suo muso tra le borse, quindi, continuò ad annusare…

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L’insetto che tiene in scacco la penisola italiana

Ci sono animali la cui semplice vista, attraverso il corso della Storia, ha lasciato presagire il grave destino di coloro che li stavano incontrando per la prima volta. Sono creature generalmente impressionanti, come i leggendari elefanti di Annibale, condotti oltre le Alpi assieme a un esercito nella speranza di condannare l’Impero Romano. Ma forse gli invasori più pericolosi risultano essere, piuttosto, quelli che non riconosci da subito. Esseri piccoli, persino invisibili, alla maniera dei germi del raffreddore comune, che distrussero in maniera molto più certa e rapida alcune delle maggiori civiltà pre-colombiane. Mentre a volte, caso vuole che si verifichi l’eventualità intermedia. L’assalto di un qualcosa di piccolo ma non piccolissimo. Rischio palese ma non evidente. Momento in cui diventa niente meno che fondamentale, fidarsi della capacità di osservazione e la conoscenza pregressa di chi riesce, per primo, a presentare al mondo l’idea.
Ogni catastrofe inizia con delle avvisaglie preliminari e nell’era di Internet, queste possono concretizzarsi in una singola foto postata su un forum di discussione. Di un coleottero grazioso e per nulla inquietante, all’apparenza: 10 mm di scarabeo color bronzo/rame, con dodici ciuffetti di peli bianchi che punteggiano il suo profilo. Una forma tozza e piuttosto compatta, tranne che per la testa preminente che sormonta il torace, all’interno della quale sono parzialmente ritratte le antenne durante il riposo sopra una foglia. La mostrava ai suoi colleghi appassionati di entomologia Joannes Mikaeli, utente veterano del forum Natura Mediterraneo a luglio del 2014, con la semplice notazione di aver avvistato la piccola creatura lungo il Naviglio Vecchio nei pressi di Turbigo, in provincia di Milano, al fine di non influenzare il giudizio di coloro a cui stava chiedendo consiglio. Ma la realtà è che lui sapeva ciò dinnanzi a cui si era trovato, così come lo seppero immediatamente coloro che si trovavano dall’altro lato dello schermo. Una visione esiziale, l’artropode che porta alla condanna, il più piccolo foriero di un incipiente Apocalisse vegetale. Attorno al 1912, alcune uova di questa “insignificante” creatura furono malauguratamente importate negli Stati Uniti, si ritiene con la terra di un rizoma di giaggiolo. Il cui proprietario, esposta in vaso la pianta profumata sul suo balcone, non sapeva davvero quale danno stesse arrecando all’intera parte settentrionale del suo continente: circa 456 miliardi di dollari l’anno, all’epoca attuale, perduti nel destino d’intere piantagioni ridotte in polvere da implacabili mandibole masticatorie. Di piante come la vite, il susino, il pesco, il pero, il melo, la rosa, il rovo, il mais, il mirtillo, il pisello, la fragola, il pomodoro…. E dozzine di altre ancora. Tutto è commestibile, se sei un coleottero affamato. Ma forse bloccare una simile malefatta sul nascere non avrebbe fatto altro che rimandare l’inevitabile. Il Popilia japonica, prima o poi, sarebbe arrivato. O mamekogane, come lo chiamano nel suo paese d’origine in Estremo Oriente, dove costituisce poco più che un fastidio occasionale per gli agricoltori e i proprietari di giardini. Questo perché, nel Giappone degli insetti straordinariamente feroci, esiste un vasto ventaglio di piccoli predatori, evolutosi attraverso i secoli proprio per trarre vantaggio da questa fantastica capacità di proliferazione. Tra cui due vespe del genus Tiphia, vernalis e popilliavora, che hanno l’abitudine di scavare per deporre le loro uova sulla schiena delle larve di scarabeo, lasciando che la malefica prole  le divori prima della fine dell’estate. O la crudele mosca Istocheta aldrichi, che fa lo stesso agendo in una finestra di tempo minore, bloccando le infestazioni ancor prima che raggiungano il grado critico di diffusione. Per non parlare di svariate specie di uccelli in grado di divorare gli adulti in volo. Creature inconsapevoli, la cui opera diligente ha sempre impedito che la situazione sfuggisse di mano. Come è invece successo, volta per volta, in ogni singolo altro paese vittima nell’intero territorio globale.
L’avvistamento dell’appassionato del Web, propagato fino a chi di dovere, fu subito considerato un momento drammatico per la storia ecologica e preso sul serio dall’ente della EPPO (Organizzazione Europea e Mediterranea per la Protezione delle Piante) poiché costituiva il primo caso registrato di presenza di questo terribile distruttore sul Vecchio Continente, fatta eccezione per quanto registrato precedentemente presso le isole Azzorre. Ma il problema degli insetti è che come è noto, quando ne vedi uno è già troppo tardi. È probabile che ce ne siano già milioni… Diverse spedizioni successive, da parte di appassionati e personale qualificato nell’intero parco del Ticino, ben presto confermarono la verità. Uno dei più temuti coleotteri al mondo stava banchettando, volando e accoppiandosi sul verdeggiante territorio dell’inconsapevole Lombardia. In breve tempo ed a partire dalla rivista di settore L’Informatore Agrario, la notizia comparve sui principali giornali nazionali, mentre già si agiva per tentare di arginare la diffusione della terribile e voracissima creatura. Con la più immediata delle soluzioni: la disposizione in serie di trappole dall’alto grado di specificità…

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L’aracnide che ha saputo terrorizzare l’esercito americano

Prima di Facebook, prima di Twitter e degli ubiqui smartphone, prima della Playstation 4 e persino del Wii U, la gente inorridiva in maniera decisamente più immediata. Poteva bastare una semplice e-mail. A patto che superasse i filtri antispam e il recipiente, in barba all’intrinseco senso di prudenza, fosse così ingenuo da aprire l’allegato. Si trattava di una shock image di primissima categoria: due soldati americani in uniforme, in uno scenario desertico, che osservano molto da vicino… Una creatura. Sollevata dal primo, mediante la canna del suo fucile, a una certa distanza da terra, benché le zampe da ragno fossero sufficientemente lunghe da riuscire toccargli quasi le caviglie. Il testo d’accompagnamento poteva variare, ma generalmente descriveva le caratteristiche de “l’essere più pericoloso dell’Iraq” in maniera terribilmente vivida e spaventosa. “Il camel spider” esordiva il mittente “Non lascia scampo. Questa creatura che può avere la dimensione di un piatto da portata, corre alla velocità di 40 Km/h e salta come un campione di basket, per aggrapparsi al pelo dei cammelli e deporre le sue uova nei loro stomaci. Il suo veleno paralizzante impedisce alle vittime di reagire, mentre le divora letteralmente un pezzetto alla volta. Se dovesse capitarvi di d’incontrarne uno, iniziate a correre più veloce che potete. Perché lui, senz’ombra di dubbio, cercherà di afferrarvi…” Seguiva l’inevitabile richiesta di soldi, magari per “Inviare l’insetticida ai nostri coraggiosi ragazzi al fronte.” Ben presto la voce iniziò a girare e una sorta di timore reverenziale prese a diffondersi lungo le vie traverse del primissimo social web. Era l’estate del 2008 dunque, quando un soldato inglese di ritorno dal Medio Oriente nella sua città di Londra, si ritrovò uno di questi esseri nascosto in valigia a sua insaputa. Così che sul tardi, nella giornata del glorioso rientro, l’animale saltò fuori ed andò a nascondersi sotto al letto del figlio di nome Ricky. Il quale, mentre apriva la cassettiera, se lo ritrovò camminare su una mano, gridando per il terrore. La madre accorse, assieme al barboncino di famiglia, che iniziò ad abbaiare disperatamente per difendere il suo padrone. I genitori chiamavano Ricky, il bambino correva, il ragno cammello era letteralmente sparito. L’intera famiglia, terrorizzata, abbandonò letteralmente la casa con l’intenzione di fare ritorno soltanto quando fosse stato possibile ritrovare l’aracnide, cosa che per inciso, non avvenne mai più. Qualche giorno dopo, all’apparenza inspiegabilmente, il cane morì. In quel preciso momento, il mondo iniziò a chiedersi se non ci fosse del vero anche nell’e-mail che voleva regalarti una macchina in qualità di visitatore n. 100.000, o quella sulle “donne singles nella tua area” che aspettano solo te.
Ora io non conosco la prognosi del malcapitato cagnolino, ma una cosa posso certamente assicurarvi: ad ucciderlo non fu l’aracnide clandestino. Poiché il ragno cammello (che non è un ragno, né un cammello) detto talvolta scorpione del vento (benché non sia neppure uno scorpione) semplicemente non possiede un veleno. Non avendo mai visto ragione di evolversi, nel corso della sua lunga storia, per possedere un simile ausilio alla cattura delle prede o l’autodifesa. Puntando piuttosto sulla sua superiorità fisica, la sveltezza e la rapidità negli spostamenti. Ma forse sarà meglio, a questo punto, applicare un distinguo. Poiché i Solifugae, secondo la tassonomia scientifica, non sono una singola specie e neppure una famiglia, bensì un intero ordine al di sotto della classe degli aracnidi, al pari degli Araneae, gli Scorpiones o gli Amblypygi. Pur essendo completamente diverso, per morfologia ed abitudini, da ciascuno degli altri citati. Ne esistono oltre 1.000 varietà distinte, diffuse nei deserti di tutto il pianeta, per i quali presentano una serie di efficaci adattamenti. Prima fra tutti quella che gli da il nome, o vero l’istinto a fuggire dal Sole, spostandosi nelle ore più calde soltanto se gli riesce a trovare l’ombra di una creatura più grande, ad esempio un cammello, che possa fargli scudo dal pericolo di surriscaldarsi. Ed è questa la ragione, incidentalmente, per cui più di un soldato di stanza in Afghanistan ritornò con la storia di “essere stato inseguito nel deserto da un ragno” giungendo comprensibilmente a temere per la sua vita. Simili creature sono in effetti piuttosto aggressive, pur non avendo neppure una forza sufficiente a perforare la pelle umana. E se messe alle strette sollevano minacciosamente i pedipalpi, spalancando le enormi zanne chelicerate non dissimili da chele di granchio e garantendo una dimostrazione guerriera d’indubbia efficacia. In quel momento, pur essendo tanto più piccolo, l’esserino è certo di poterti uccidere e potendo, lo farà. Ma qui finisce, assai probabilmente, la parte giustificata della sua cattiva reputazione.

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